Materiali dal fronte del porto (II)

Riceviamo e pubblichiamo una cronaca-riflessione sulla giornata del 10 novembre a Genova, il volantino distribuito dall’Assemblea contro la guerra e la repressiome, e un testo letto da una compagna.

Sul blocco ai varchi genovesi. Col cuore a Gaza

Venerdì 10 novembre dalle 6 del mattino circa 500 persone hanno bloccato i varchi San Benigno e Albertazzi del porto genovese rispondendo alla chiamata del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali e dell’Assemblea contro guerra e repressione. Mentre proseguiva il blocco, dal presidio si è staccato un piccolo corteo che ha attraversato alcune strade adiacenti, raggiungendo la sede della multinazionale israeliana Zim e dell’olandese Steinweg, concessionaria del terminal dove approdano l.e navi della flotta Bahri. Il presidio è poi terminato intorno alle 13.

L’iniziativa aveva l’obiettivo di indicare il porto di Genova e la sua logistica come uno snodo dei traffici di guerra e degli interessi economici di quei settori padronali (israeliani, sauditi, europei) che lucrano sulla guerra e la rendono possibile.

Fermare le merci in transito nel porto ha un significato allo stesso tempo simbolico e concreto.

Concreto, perché la compagnia di navigazione israeliana Zim e quella saudita Bahri rappresentano un ingranaggio specifico della logistica di guerra, così come i mezzi militari prodotti dalla Iveco, destinati all’esercito tunisino per la repressione dei flussi migratori. Ostacolare i trasporti militari e gli interessi dell’economia di guerra vuol dire individuare il nemico da combattere anche in casa nostra, vuol dire mettere un po’ di sabbia nel motore della macchina bellica. E se questa macchina ha bisogno di consenso, in questo – da parte nostra – vanno aperte delle crepe, per fare circolare, idee, gesti concreti, possibilità, e quel coraggio che si impara insieme.

La guerra comincia qui, come recitava lo striscione d’apertura del presidio, non significa soltanto che armi e mezzi sono prodotti qui e partono da qui; ma anche che sono le società in cui viviamo, il modo in cui sono organizzate, le stesse economie in cui siamo avvolti, ad essere in guerra.

Lo si vede nella repressione interna del dissenso, lo si vede nello schieramento della stampa (nei giorni precedenti tutti i giornali locali, con una eccezione, hanno cercato di invisibilizzare il blocco annunciato per venerdì 10), lo si vede nella propaganda a senso unico che santifica “il diritto di Israele a difendersi” (ovvero massacrando i palestinesi) e che cerca di mobilitarci al fianco della NATO nella guerra in Ucraina, lo si vede nel militarismo che si insinua nelle strade, nelle scuole, nelle università, lo si vede nei fatturati di aziende come Leonardo, che raddoppiano.

Ed è a partire dalla consapevolezza di essere in guerra che possiamo agire: sabotando quei meccanismi economici, ideologici e sociali che delle guerre sono il pilastro.

Non è solamente una nostra convinzione, ma quello che ci chiedono da Gaza e dalla Cisgiordania. È quello che ci chiedono i sindacati e gli studenti palestinesi quando ci invitano a rendere concreta l’opposizione ai nost.ri governi complici del massacro, quando ci invitano a non collaborare al sostegno militare ad Israele, quando invitano gli studenti a occupare scuole e università, fucine del consenso alla guerra.

Bloccare un varco, una fabbrica di armi, una base, uno snodo logistico, un’università è quindi un modo per rompere la continuità di una società mortifera. Aprire delle crepe, appunto, per arrivare a bloccare tutto.

Non siamo usi ai trionfalismi su quel poco che facciamo e siamo consapevoli di come venerdì scorso la controparte (i padroni, la Questura) si sia organizzata per fluidificare il traffico, per ridurre i danni, diminuire gli effetti dei blocchi e dei rallentamenti che hanno comunque congestionato il porto.

Ma se il significato concreto ha avuto questi limiti, pensiamo che il significato simbolico rimanga solido. Simbolico non nella sua accezione spettacolare, ma come esempio. Si è indicato un punto d’attacco, una pratica, ripetibile e migliorabile, riproducibile da altri qui come altrove.

Ed è un esempio che noi stessi abbiamo raccolto da altri: da chi in passato ha dato corpo alla solidarietà internazionalista (il blocco dell’economia e lo sciopero generale come arma dei proletari contro ogni guerra) e da chi in queste settimane le ha dato nuova concretezza: dai porti di Los Angeles, Melbourne e Barcellona, dalle fabbriche di armi in Inghilterra e Belgio, fino ai movimenti pacifisti ebraici che si oppongono alla brutalità di quello Stato che pretende di rappresentare tutti gli ebrei del mondo.

Quando si arriva a bombardare una popolazione per il 40% minorenne, stretta in un fazzoletto di terra da cui non può fuggire, quando si bombardano gli ospedali (col plauso di decine di medici israeliani), quando si lasciano i detenuti arabi nelle prigioni d’Israele senz’acqua, luce e cure mediche, quando un ministro parla di “soluzione nucleare” e nelle trasmissioni televisive in Italia si dà spazio ad ambasciatori che invocano la “distruzione di Gaza” e la deportazione nel deserto dei gazawi, vuol dire che la disumanità ha del tutto preso il potere e che dagli apparati di Stato essa scende verso il basso, pervadendo la società.

Alle ragioni storiche, e mai più attuali di oggi, per farla finita con gli Stati e il capitalismo si aggiunge quindi l’insopportabilità di vivere in un’epoca che rende possibile una tale organizzazione tecnica della disumanità. Restare umani, oggi, significa rompere la passività, significa agire. Nient’altro.

SE LA GUERRA COMINCIA QUI…

Mentre sono ormai quasi due anni che in Ucraina si combatte una guerra che rappresenta la punta dell’iceberg di un conflitto fra blocchi di Paesi capitalisti, mentre lo stato colonialista di Israele sta sferrando l’ennesimo attacco genocida nei confronti degli oppressi e delle oppresse palestinesi, mentre in molti stati africani ( Sudan, Gabon, Mali, Niger, Burkina Faso, per citarne alcuni) si continua a combattere una guerra “di colpi di stato” che ulteriormente dimostra come la competizione a livello globale fra blocchi si stia intensificando e palesando, appare sempre più evidente come la guerra cominci da qui o forse ancora meglio sia anche qui.

Mentre infatti la propaganda di guerra i cui i principali strumenti sono i media e i giornali che ci mostrano la carneficina di proletarie e proletari come se fossero fermo-immagini da scorrere una dietro l’altra, alimentando la pornografia del dolore per i loro profitti, dipinge il mondo in modo semplificatorio e binario se non quando accusatorio nei confronti del pensiero critico e divergente, imponendo una narrazione dominante di una guerra lontana, umanitaria, e necessaria perché portatrice dei valori democratici contro un nemico barbaro e terrorista e per questo giusta, è sempre più evidente come tale narrazione sia strumentale per mascherare i veri interessi che muovono le guerre, vale a dire i profitti della classe padronale, e quindi a richiederci quando non imporci fedeltà ai loro valori. A dissimulare come la realtà che stiamo vivendo anche in occidente è una realtà di guerra, non guerreggiata, certo, ma di guerra dove tutti i giorni sui posti di lavoro si muore, dove chi non si arruola viene spinto sempre di più ai margini del giardino di casa, dove i femminicidi sono in continuo aumento, dove il controllo tecnologico è sempre più pervasivo e la dimensione umana viene spazzata via in cambio di qualche manciata di finta comodità, dove la ristrutturazione sociale in corso si manifesta con una sempre più capillare repressione del dissenso, dove la necessità di irreggimentazione e addomesticamento delle coscienze e dei pensieri risulta sempre più pervasiva.

Il piano inclinato su cui ci troviamo di fatto ci sta precipitando verso la necessità di prendere una posizione non ambigua nei confronti della guerra che si sta consumando, una guerra dei padroni e dei loro interessi nei confronti degli sfruttati, e contro la quale è necessario combattere e non solo difendersi.

Se infatti la guerra è la risposta alla crisi del sistema economico e sociale esistente, è altrettanto vero che questa crisi offre spiragli per costruire una prospettiva che tolga di mezzo i meccanismi di sfruttamento e dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura e che metta al centro la solidarietà internazionalista.

La guerra in Ucrania, il genocidio del popolo palestinese e tutti gli altri conflitti in corso o che si daranno nel prossimo futuro si alimentano anche della nostra incapacità di comprendere quali siano gli interessi in gioco e chi sia il vero nemico da combattere, che è anche in casa nostra. La compagnia ZIM, la compagnia Bahri sono solo alcuni degli esempi di come la guerra abbia una logistica che ha sede nei paesi occidentali, abbia necessità, per poter continuare, di avere a disposizione mezzi oltre che volontà politiche e consenso.

Bloccare i varchi oggi vuol dire colpire gli interessi del padronato nazionale che è corresponsabile dei massacri e delle guerre da cui continua a fare profitto, vuol dire mettere in pratica la nostra opposizione alla guerra e iniziare a dare spallate all’attuale sistema economico e sociale.

Siamo consapevoli, infatti, che non esistono soluzioni ai conflitti e alla guerra se non quelle che prevedano l’abbattimento dello stato delle cose esistenti, e del resto quella strada pacifista in cui si invoca il rispetto dei diritti internazionali da parte di quegli stessi stati o organizzazioni che sono i primi a produrre le condizioni di guerra, alla stessa stregua di quella riformista che invoca un capitalismo meno brutale e più umano stanno mostrando la corda e la loro incapacità nel gestire in modo più umano le guerre/crisi che invece si esplicano sempre più frequentemente nei massacri.

Al di là dei meri proclami di solidarietà, è necessario iniziare ad avere una prospettiva altra e costruire una concreta opposizione, disertando e bloccando questo sistema di guerra e sfruttamento.

Sabotiamo la macchina militare, inceppiamo la produzione bellica e blocchiamo i flussi della logistica militare

Sabotiamo e blocchiamo ogni collaborazione di guerra a casa nostra

Solidarietà internazionalista agli oppressi e alle oppresse palestinesi

SPINGIAMO PER ROVESCIARE LA GUERRA DEI PADRONI IN GUERRA CONTRO I PADRONI

Assemblea contro la guerra e la repressione

Prexon@anche.no

«In faccia alla morte mettiamo la vita»

Le compagne palestinesi in Italia hanno scritto una lettera in cui richiamano all’intersezionalità delle lotte e alla solidarietà internazionalista. Ci raccontano di come il movimento femminista di resistenza palestinese abbia una lunga storia che affonda le sue radici agli albori del 900, alla partecipazione diretta alla lotta armata durante la grande rivolta degli anni trenta, nell’Intifada, nella Nakba e nella resistenza anti-coloniale contro la dominazione britannica prima e contro quella israeliana dal 1947 ad oggi.

E in quest’oggi denunciano la condizione delle donne sotto i bombardamenti israeliani, di quelle morte, di quelle sopravvissute e ferite, di quelle che partoriranno in strada perché Israele sta bombardando gli ospedali, di quelle che moriranno in strada perché non possono ricevere le cure oncologiche salva vita e non hanno più una casa perché israele l’ha bombardata. Di quelle che stanno vivendo sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania dove subiscono quotidiane violenze, intimidazioni e soprusi.

È a loro oggi che rivolgiamo la nostra lotta, perché la possano sentire, perché nutra la loro forza, perché continuino a resistere, perché continuino a lottare, perché continuino a vivere!

Siamo consapevoli del privilegio che ci appartiene nel momento in cui possiamo prendere parola senza la paura che una bomba interrompa la nostra voce e ponga termine alla nostra vita.

Possiamo ancora permetterci di non occuparci di come sopravvivere a una guerra ma dobbiamo occuparci di come disertare l’economia di guerra attaccando la politica predatoria e manipolatoria dell’occidente in Medioriente. La guerra, le guerre, la minaccia nucleare è la conseguenza ultima delle strategie di sterminio, oppressione e sfruttamento che l’imperialismo mette in atto a partire dalle aziende che qui producono armi, e che da qui transitano per arrivare negli scenari di guerra dove uccidono oppresse e oppressi. Siamo ancora nella possibilità di agire un attacco all’economia di guerra dello stato italiano che sostiene apertamente Israele nell’ennesima operazione di sterminio. Non vogliamo essere complici del saccheggio colonialista e imperialista delle nazioni, tutte. Ed è per questo che siamo qui oggi, per mostrare in concreto la nostra solidarietà partecipando a questo presidio per bloccare insieme a tante altre soggettività l’economia di guerra che si alimenta, qua da noi, nei nostri quartieri, nel porto di Genova.

Volgiamo la nostra solidarietà alla resistenza dei movimenti femministi palestinesi, kurdi, zapatisti, iraniani e di tutte le donne che stanno attraversando i confini nel mentre che subiscono violenze per scappare da altre violenze e a tutte le donne che stanno lottando per la libertà e per l’autodeterminazione.

Lo possiamo fare trovando la forza nelle radici secolari della nostra resistenza di soggettività oppresse da anni di patriarcato, di violenza e di sfruttamento. Ricordiamoci e ricordiamogli che nessuna inquisizione è riuscita a spegnere la nostra esistenza né spegnerà la nostra resistenza. Il fuoco cova sotto la cenere. Alimentiamo con la nostra rabbia, con la nostra forza, con la nostra autodeterminazione, con le nostre strategie.

“Bildet Banden” dicevano le Rote Zora, costruiamo le nostre bande!

Lottiamo contro la militarizzazione nelle nostre strade e nelle nostre scuole.

Lottiamo contro l’economia di guerra che si muove tre le vie delle nostre città e dei nostri porti.

Lottiamo contro i luoghi di detenzione, di isolamento e di privazione della libertà come le carceri e i cpr.

Lottiamo contro il ruolo riproduttivo in cui ci vogliono incatenare per perpetuare la catena dello sfruttamento di cui hanno bisogno per generare altre oppresse e altri oppressi.

Perché non saremo mai libere se tutte non saranno libere.

Di fronte al sessismo gridiamo donna.

In faccia alla morte mettiamo la vita.

Di fronte alla schiavitù lottiamo per la libertà.

Donna, vita, libertà.

Jin, Jîyan, Azadî‎!

Palestina Libera!