Negri, l’operaismo, la dissociazione, i barbari

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo di una compagna genovese (il titolo è nostro). Il discorso sull’operaismo italiano e sui miti in cui è stato avvolto sarebbe piuttosto lungo. Da non marxisti e non marxologi, ci limiteremo a un paio di osservazioni. Se è grottesca l’immagine di Negri «cattivo maestro» e «ideologo delle Brigate Rosse», tanto cara alla borghesia del PCI e dei suoi magistrati, ci pare che separare il Negri operaista dal Negri teorico della dissociazione, della fine dell’imperialismo, dell’Europa come contropotere ecc. lasci intatta una questione di fondo. Se la soggettività operaia è il vero motore dello sviluppo capitalistico (secondo la «rivoluzione copernicana» di Tronti) e non il suo freno; e la lotta di classe è un’invariante della storia (salvo il comunismo o la «comune rovina delle classi in lotta»), allora lo sviluppo delle forze produttive è sempre un fattore di «socializzazione», di cui proletari devono spezzare l’involucro giuridico borghese, facendo saltare i rapporti sociali corrispondenti. Sarà parodistico fin che si vuole, ma il Negri per cui il comunismo sono «i Soviet più Internet» è un apologeta della società cibernetica quanto il Lenin dei «Soviet più l’elettrificazione» lo era di quella industriale (taylorismo compreso).

Che certe tesi sull’operaio sociale e il bisogno di comunismo abbiano influito sul movimento del ‘77, è fuor di dubbio. Che senza liberarsi della «religione delle forze produttive» (Simone Weil) non si possa liberarsi di un apparato tecno-industriale sempre più biocida, anti-sociale e anti-umano, lo è altrettanto. E dall’intera cosmovisione capitalistica che dobbiamo evadere.

Negri, l’operaismo, la dissociazione, i barbari

A distanza di anni dalla presentazione di “Barbari” a Genova, sono ben felice di riproporre parte di un intervento che scrissi proprio per quella presentazione. Stavo comunque, dopo la morte di Negri, buttando giù qualche riga da spammare ovunque si “trattasse” del defunto. Che ho conosciuto e, per un breve periodo, apprezzato.

Come non rendersi conto che proprio di quell’“operaista” – il senso deve essere quello di trontiana memoria – molto, ma molto, sia stato introiettato nelle piazze del ’77 delle quali ci si fa belli ancor ora. Io stessa gioisco dell’esserci stata, affrontando tutto il positivo e tutto il negativo della “teoria dei bisogni”, dell’operaio sociale… Ed in quel periodo sì che potevano essere prese in considerazione le critiche al marxismo (personalmente ero e sono marxista) dal quale ancora Negri attingeva. Ma come sia stato possibile attaccare il marxismo facendosi scudo della Moltitudine e o dell’Impero negriani, ancora non mi è chiaro.

La negriana Moltitudine non fu altro che un’aberrazione più marziana che marxiana. Generica ed indistinta, atomizzazione delle singolarità nell’alienazione del ciclo della merce, la moltitudine nulla c’azzecca con il soggetto collettivo rivoluzionario.

Il Negri che, da una parte, glissa sul fatto che la struttura sociale è questa proprio perché ci si trova di fronte al capitalismo – e non in qualsiasi sistema economico interscambiabile – mentre dall’altra non dà granchè fiato alle soggettività che, autonomamente, cercano di ritrovarsi in una omogeneità materiale che possa diventare pratica comune del soggetto collettivo rivoluzionario è il Negri che accompagna, nel 1998, la logica del “riconoscimento” reciproco (Stato–Movimento) esplicata all’interno dell’assemblea generale costitutiva della Carta di Milano. È il Negri che toglie significato anche a termini quali internazionalismo (Ya Basta) o astensionismo. È il Negri dell’autonomia della politica che delinea un nuovo trasformismo segnato dallo spiritualismo immanentistico.

I marxisti, autodeterminandosi senza mediazione alcuna attraverso il rifiuto e la negazione radicale dello stato di cose presenti, per trasformare l’antagonismo soggettivamente consapevole e radicalmente praticato in autonomia di classe, sono quelli che combattono l’inesistenza di un linguaggio riconoscibile, l’analfabetismo reso possibile dalla soppressione della propria coscienza individuale, conseguenza dello sterminio del significato attuato dall’Impero. Problemino di fondo di molti barbari.

In ogni caso: già, dopo il Documento dei 51 “Una generazione politica è detenuta” , cosa si potrebbe ancora dire se non citare le parole di Sante: “La critica durissima da fare fu che fino ad allora nessun prigioniero, dal grande prigioniero al compagno più sprovveduto, aveva accettato un rapporto con la magistratura.
Conosco decine e decine di ragazzi che per non aver risposto alle domande dei giudici si sono presi 10-15 anni di galera e se li sono cagati tutti, senza dire una parola. Spiegare una circostanza gli avrebbe risparmiato anni, e non l’hanno fatto.
Aldilà del documento della dissociazione, con tutti i danni che ha comportato in termini di desolidarizzazione, fu proprio questo comportamento di Negri a rappresentare una merda imperdonabile. Lui ha spiegato cos’era il movimento rivoluzionario, e anche se lo ha fatto dal punto di vista politico, come dice lui, di fatto ha differenziato anche le responsabilità”
(Sante Notarnicola – Camminare sotto il cielo di notte, Calusca, 1993.) ma anche l’articolo di “Autonomia” (
https://www.inventati.org/cope/wp/wp-content/uploads/2017/06/170_Autonomia25_ott1981_LetteraaToniOTT.pdf).

PATRIZIA, GENOVA