Luci da dietro la scena (XIX) – Contro i militari. Contro i tecnici. «Non vogliamo essere rinchiusi nei ghetti dei programmi e degli schemi»

Luci da dietro la scena (XIX) – Contro i militari. Contro i tecnici. «Non vogliamo essere rinchiusi nei ghetti dei programmi e degli schemi»

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Contro i miltari. Contro i tecnici

I militari

Un operaio inglese ha osservato con ironia che il management è solo una cattiva abitudine ereditata dai militari e dalla Chiesa, rilievo che ha molto di vero. Quale che sia stato il ruolo della Chiesa, la mentalità militare ha di certo alimentato le ossessioni manageriali fin dal principio. Dopo aver dato vita al management industriale, i militari ne sono poi sempre stati complici. Il loro impatto decisivo sulla follia dell’automazione è un esempio efficace.

I militari hanno sempre avuto un ruolo centrale nello sviluppo tecnologico dell’industria americana, da quella mineraria e metallurgica alla navigazione, dalla produzione di pezzi intercambiabili al management scientifico. Se in passato i principali promotori sono stati esercito e marina, ai giorni nostri l’iniziativa è passata all’aeronautica (a quanto pare i Marines erano impegnati altrove). Si consideri la cosiddetta alta tecnologica odierna, elettronica, computer, industria aerospaziale, cibernetica (controllo automatico) e laser: in sostanza sono tutte creature militari. Quando alcune di queste tecnologie nate per la guerra sono state accorpate per automatizzare l’industria metalmeccanica, i militari sono stati ancora una volta la forza motrice.

Dalla fine degli anni quaranta fino a oggi l’aeronautica militare è stata e rimane il maggiore produttore dell’automazione industriale. Per quanto riguarda il controllo numerico, ha assicurato i primi decenni di ricerca e sviluppo sia delle macchine sia dei programmi, ha deciso la forma finale della tecnologia, stabilendo le norme di progettazione per soddisfare gli obiettivi militari; ha creato un mercato artificiale dei macchinari in qualità di cliente principale, generando così la domanda; ha sovvenzionato sia i produttori di macchinari sia gli utenti industriali (soprattutto aerospaziali), pagandoli perfino per impararne il funzionamento.

Il progetto dell’Air Force per il controllo numerico ha avuto una portata globale. Durante una visita in una fabbrica di locomotori di Praga ebbi la sorpresa di scoprire che anche lì veniva usato il sistema di progettazione a CN [controllo numerico] dell’aeronautica. Ben presto questo singolo progetto si è evoluto nel più esteso Integrated Computer Aided Manufacturing Program, e più recentemente l’ICAM è sfociato nei programmi MANTECH (manufacturing technologies), ancora più ambiziosi, volti a promuovere l’approccio automatizzato computerizzato alla produzione non solo nell’industria ma anche nelle università: «I programmi dell’automazione dell’Air Force sono nati per dare impulso allo sviluppo della tecnologia – ha spiegato anni or sono un direttore del programma ICAM –. Vengono progettate fabbriche del futuro [l’ultima trovata dell’aeronautica] come modello per l’industria americana in cui si possono far operare insieme computers e macchine con un limitato intervento umano».

Gli effetti di questo intervento militare riflettono le caratteristiche peculiari del mondo militare, la più ovvia delle quali è l’importanza attribuita al comando, la quintessenza dell’approccio autoritario all’organizzazione. Ciò significa in sostanza che i subalterni devono fare quel che viene detto loro, con lo scopo di eliminare ove possibile ogni intervento umano tra il comando (dato dal superiore) e l’esecuzione (da parte del subalterno). È facile capire perché i militari mettono l’accento sull’automazione, dato che elimina potenzialmente queste fasi intermedie, come suggerisce il direttore dell’ICAM. Nella mentalità militare un esercito di uomini che si muovono come macchine è facilmente sostituito da un esercito di macchine. Questa tendenza al comando integra pienamente e rafforza enormemente l’ossessione manageriale per il controllo. Se al giorno d’oggi l’abito dell’uomo d’affari e l’uniforme militare sono intercambiabili, lo stesso vale per le mentalità che li accompagnano.

La seconda caratteristica della mentalità militare è la centralità attribuita alla prestazione, che riflette le priorità operative della «prontezza al combattimento» e della «sicurezza nazionale». Questa fissazione sulla prestazione rende secondario tutto il resto e alimenta una mentalità industriale più o meno indifferente ai costi. Ciò spiega la tendenza allo spreco, al dispendio e all’eccesso che contrassegna tante iniziative patrocinate dai militari. Spiega anche perché oggi in tante fabbriche degli Stati Uniti, mentre al di fuori sventola ancora la bandiera americana, vengono utilizzate macchine giapponesi. I produttori americani di macchinari, preoccupati di soddisfare le norme di prestazione eccessive del loro cliente numero uno – i militari – in sostanza si sono preclusi il mercato interno, tanto che nel 1978 gli Stati Uniti sono diventati per la prima volta dall’Ottocento importatori netti di macchine utensili.

Infine gli eccessi di spesa dei militari, per quanto dannosi per la competitività dell’industria, si sono rivelati estremamente allettanti per i tecnici, attratti da questa atmosfera da «tutto fa brodo» in cui possono tradurre in pratica i loro ultimi sogni. Una buona metà della forza-lavoro tecnica nazionale lavora per i militari, perché offrono il miglior luogo di svago tecnologico. I soldi sono naturalmente l’incentivo maggiore ma non il solo: non meno importanti sono le lusinghe tecniche. I militari, disponendo di risorse quasi illimitate, offrono le ultime tecnologie e la possibilità di sognare in grande alla ricerca dell’eleganza e della raffinatezza, senza curarsi dei costi e di altre considerazioni terrene. Inoltre, data la catena di comando rigidamente definita e l’ambiente strettamente regolamentato, offrono ai tecnici una situazione quasi da laboratorio in cui collaudare i loro progetti autoritari. In breve, i militari possono blandire gli entusiasmi e le manie collettive dei tecnici […].

I tecnici

Chiunque ha constatato prima o poi che le sfide tecniche possono essere assai seducenti. […] Si saltano i pasti, si ignorano le esigenze della natura e degli altri, si fanno le ore piccole, stimolati, invasati, risoluti. Vi è un piacere in questo, passione e cecità. Si tollerano a malapena interruzioni o ritardi e meno ancora interferenze; si arriverebbe quasi a uccidere per far funzionare quella dannata cosa, ed è ciò che finiscono per fare tanti tecnici quando mettono il loro talento al servizio dei militari, che dopo tutto rappresentano l’industria della morte. Naturalmente tanto entusiasmo emotivo è fonte di creatività e spesso può ispirare e arricchire, ma quando è incoraggiato oltre il ragionevole, a dispetto non solo della proprio salute ma anche del bene sociale più generale, diventa follia. []

In un decennio d’insegnamento al MIT [Massachusets Institute of Technology], e in particolare nel corso dello studio sull’automazione industriale, mi sono via via convinto dell’esistenza di forze psicologiche collettive refrattarie all’analisi politica ed economica convenzionale. Mi sembrava che le persone travolte dall’esaltazione emotiva per l’automazione condividessero non solo una serie d’interessi tecnici ma anche una coazione di fondo. Erano sì le avanguardie della marcia dell’automazione, ma a loro volta erano spinte da qualcosa che formava la loro percezione della realtà e la loro immagine di un mondo ideale. […] La loro capacità di astrazione li ha resi ciechi davanti alle realtà umane concrete della produzione, e quando queste interferiscono pesantemente ma invariabilmente nei loro sogni a occhi aperti, sono guardate con disprezzo e impazienza arrogante. Per i tecnici immersi in siffate chimere spesso l’ideale diventa più reale della stessa realtà: la fantasia di un mondo perfettamente ordinato a cui il mondo degli uomini deve adattarsi perennemente.

Le attrattive di questo mondo idealizzato di macchine e computers sono piuttosto chiare; è un mondo pulito, controllato, prevedibile. C’è di più: se questa visione appaga un desiderio profondo di ordine, soddisfa anche il piacere per le cose a un tempo animate e artificiali, da una parte quasi vive nella loro autonomia, dall’altra però soggette a un controllo quasi completo (seppure remoto). Per questi sognatori uno spettacolo del genere è puro piacere.

«Certo che si può»

Durante il fine settimana di Pasqua del 1980, a Tolosa, in Francia, si sono verificate incursioni senza precedenti contro i centri di elaborazione dati sia della Philips Data Systems Corporation sia della Honeywell-Bull. I danni sono stati notevoli e il «New York Times» ha scritto: «Secondo i funzionari i danni sono opera di esperti». Il «Times» ha citato le parole di un ispettore di polizia: «Sapevano esattamente come cancellare i programmi dai nastri e come distruggere i sistemi elettronici di archiviazione». «Newsweek» ha riferito che un tecnico, riflettendo la singolare logica della nostra epoca, ha esclamato: «Posso capire che attacchino gli uomini, ma le macchine no!». Il gruppo che ha rivendicato la responsabilità delle incursioni, definitosi Comitato per la liquidazione e l’espropriazione dei computers, ha spiegato le sua ragioni in una lettera al quotidiano «Libération»:

Siamo informatici e quindi in buona posizione per conoscere i pericoli presenti e futuri dei sistemi di elaborazione. I computers sono lo strumento preferito dai potenti. Vengono usati per classificare, controllare e reprimere. Non vogliamo esseri rinchiusi nei ghetti dei programmi e degli schemi organizzativi.

[…] Frattanto in Olanda, secondo un rapporto recente di un quotidiano di Detroit, un docente di robotica industriale ha concluso uno studio in cui ha scoperto che il sabotaggio dei robot sta diventano un fenomeno diffuso che assume molte forme ingegnose. I lavoratori rallentano di norma le macchine rifornendole di parti nell’ordine sbagliato, «riparandole» in modo scorretto, collocando nei posti sbagliati pezzi di ricambio essenziali o infilando sabbia nell’olio lubrificante dei robot. In uno stabilimento di costruzioni metalliche, ha riferito il docente, si è avuta una contrazione della produzione per oltre sei mesi a causa dell’opposizione degli operai all’uso dei robot.

[]

La prima rivoluzione fu riconosciuta come tale solo a posteriori (il termine fu coniato solo al termine della trasformazione). Invece la seconda rivoluzione è già stata identificata prima che avvenga; abbiamo quindi il lusso, negato ai nostri predecessori, di avviarci alla transizione con gli occhi ben aperti e il vantaggio di un precedente. La cecità che ancora permane è dunque autoindotta.

Uno dei paraocchi che abbiamo ereditato è l’identificazione del semplice progresso tecnologico con il progresso sociale, una idea sposata sia dai liberali sia dai socialisti. Non occorre certo rammentare agli americani della fine del secolo XX che questa credenza è sospetta e sollecita una sostanziale riconsiderazione. Data l’importanza estrema dei costi sociali, militari, ecologici e socioeconomici, sarebbe saggio chiedere di arrestare una marcia tecnologica rapida e senza direzione, sia pure provvisoriamente, finché non ritroveremo l’orientamento. Ma ci troviamo subito di fronte a un altro punto cieco ereditato, la convinzione che il progresso tecnologico non possa essese arrestato perché «non si puà fermare il progresso». Si tratta in realtà di un convincimento bizzarro e relativamente recente, escogitato nel mondo occidentale per disarmare i critici del capitalismo; lo si può confutare facilmente alla luce di secoli di sviluppo tecnologico interrotto da forze sociali. Per molto tempo regole «protettive» di vario genere sono servite per mettere la società al riparo da cambiamenti dirompenti; gli stessi luddisti fecero appello a questa tradizione venerabile, che assumeva il primato della società sulla mera attività economica e sull’apparato tecnologico. Questa caratteristica coerente è stata sradicata solo negli ultimi secoli dai campioni rapaci del laissez-faire, che sono riusciti a mettere le «cose» in sella, a cavalcare l’umanità. Oggi è necessario ricordare a noi stessi questa tradizione perduta e riaffermarla con fiducia. Bisogna imparare a rispondere al detto «non si può arrestare il progresso»: «certo che si può».

(Brani tratti da David F. Noble, La questione tecnologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993)