Pubblichiamo queste Tesi, uscite sul numero 13 (luglio 2021) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Ci sembrano un’utile cornice teorica, uno sfondo meno immediato in cui collocare i posizionamenti rispetto all’Emergenza, ai vaccini dell’ingegneria genetica, alla tecno-scienza, al “complottismo”, al lasciapassare sanitario e al mondo della costrizione digitale. Se c’è qualcosa che l’attuale guerra ai cervelli (e ai corpi) sta determinando, è senz’altro la condizione in cui ciascuno si trova di dover pensare da sé senza schemi ereditati e rassicuranti. Che padroni e tecnocrati, per restare all’Italia, abbiano schierato il “migliore” – il Banchiere, il Contabile, il Tecnico di sua Maestà il Capitale, la cui mimica e i cui toni privi di ogni passione somigliano alla Macchina che è chiamato a far funzionare; che i loro valletti più chiacchieroni auspichino fin da ora il ritorno di Bava Beccaris a mitragliare le piazze dei renitenti al verbo scientista, dipinte (troppa grazia) come sovversive, testimonia sia del carattere di ultimatum dei provvedimenti in corso, sia di una certa coscienza storica e prospettica dal lato del dominio. Raramente nella storia, invece, si è assistito a uno scarto paragonabile a quello attuale tra la qualità della posta in gioco e la qualità di chi è disposto a battersi dal lato dell’umano. Il piano inclinato sui ci troviamo è dato dall’intreccio tra il processo di atomizzazione sociale seguìto alla sconfitta dei precedenti cicli di lotta e l’impatto senza precedenti della dismisura tecno-industriale (il cui obiettivo è «rinchiudere l’umanità nella sua prigione tecnologica e gettare via la chiave»). Non c’è alcun “soggetto storico” a cui fare affidamento per risalire la china. Solo degli scossoni sociali possono setacciare, in mezzo alla sabbia che si accumula e confonde gli sguardi, le «perle rilucenti di sale».

Tesi sul Covid-1984

Quando mi si presenta qualcosa come un progresso,

mi domando innanzitutto se ci rende più umani o meno umani.

George Orwell

Le azioni più disumane sono oggi azioni senza uomini.

Günther Anders

I. Verità nascoste in superficie

«Come hanno fatto a non accorgersene e ad accettare tutto ciò?». Questo si chiederanno i lettori dei libri di storia e gli spettatori dei film che, tra qualche decennio, racconteranno le tante menzogne che hanno accompagnato l’epidemia del Covid-19 e giustificato i progetti di dominio realizzati con il pretesto di contrastarla. E quegli osservatori postumi si schiereranno comodamente dal lato della virtù, come succede a noi quando leggiamo un libro sulla lotta anti-nazista o guardiamo un film sulla ribellione anti-schiavista.

Qualcosa somigliante a una ricostruzione approfondita e veridica sulla diffusione e sull’impatto che ebbe nel secolo scorso l’influenza cosiddetta “spagnola” è stato pubblicato a settant’anni dagli eventi. Si potrebbe argomentare che le ragioni d’un tale ritardo sono collegate alla specificità di una pandemia che concluse ancor più tragicamente quell’immane strage che fu la Prima Guerra mondiale; nonché al peso che ebbero, sui contemporanei e sulle generazioni successive, le maglie d’acciaio della censura militare (la stessa definizione di spagnola, come è noto, deriva dal fatto che soltanto la stampa della neutrale Spagna poteva parlarne liberamente). Ma siamo sicuri che l’attuale ginepraio di fonti, unito al discredito preventivo e feroce che ha colpito e colpisce ogni analisi non allineata, non sarà esso stesso visto come una gabbia di silicio dai futuri storici? A un solo anno di distanza dall’inizio del Covid, per analizzare gli articoli scientifici pubblicati nelle riviste on line si ricorre agli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, talmente smisurata è la loro profusione. Di cosa si diranno sufficientemente certi quegli storici?

È probabile che i migliori fra loro si divideranno e si disputeranno – come è già accaduto per eventi storici ben maggiori, come la colonizzazione delle Americhe o il nazismo – a partire da due approcci: uno funzionalista e un altro intenzionalista, con altri storici che in seguito cercheranno una sintesi tra le due posizioni. L’approccio funzionalista è quello che predilige l’analisi delle dinamiche sociali; quello intenzionalista dedica maggiore importanza ai valori e ai programmi dichiarati delle élite. Lo sterminio delle popolazioni amerindiane è stato un progetto deliberato o il risultato di un insieme di concause (dentro cui l’involontaria diffusione da parte dei conquistadores di malattie letali per gli indigeni ha giocato almeno quanto la rappresentazione, fornita dalla dottrina cattolica, dei nativi come popoli privi di anima)? La distruzione degli ebrei è stata l’esito di una mobilitazione totale di forze e apparati industriali e burocratici o la realizzazione di un programma di partito chiaro fin dall’inizio?

Come noto, anche a partire dalle stesse fonti storiche, di per sé mai esaustive, le interpretazioni possono divergere alquanto, non essendo mai separabili dalla soggettività euristica, etica e politica dello storico. Uno storico liberale, per esempio, che veda il nazismo come una mostruosa parentesi dentro il progresso del Novecento, sarà portato a spiegare le camere a gas a partire dalla follia antisemita piuttosto che come soluzione prodotta da un apparato tecnico e burocratico dentro le tempeste d’acciaio di una guerra inter-imperialista particolarmente cruda. Altrimenti, gli imputati della sua personale Norimberga non sarebbero solo i gerarchi nazisti, ma anche i dirigenti industriali e non poche autorità scientifiche (e le responsabilità per le fabbriche dello sterminio attraverserebbero l’oceano, colpendo in pieno il colosso IBM…). Viceversa, tenderà a far sbiadire tutto ciò che conferisce alla colonizzazione inglese del Nord America ogni intenzionalità di sterminio. Può un ammiratore della democrazia statunitense sostenere, da storico, la sua origine genocidiaria?

La critica rivoluzionaria ha fatto proprie le spiegazioni funzionaliste dei fenomeni storici. E questo non solo perché l’analisi materialistica è sempre multifattoriale (ragione euristica), ma anche perché (ragione etico-politica) le letture intenzionalistiche finiscono più o meno volontariamente con lo scagionare il sistema sociale, facendo dell’orrore l’eccezione e non la regola, trasformando certe forme di oppressione da dinamiche strutturali in patologie politiche.

Tra anarchici e marxisti, e all’interno stesso di queste due correnti del movimento proletario, tuttavia, c’è sempre stato scontro su cosa sia davvero strutturale e cosa sia in qualche modo derivato (e ancora, su quale grado di autonomia abbiano gli elementi derivati). Per dirla schematicamente, per gli anarchici il potere non coincide con il profitto, ed è più il comando a produrre il privilegio di quanto non sia il contrario. Ci sono momenti storici in cui la volontà di potenza e la sua intenzionalità politica sopravanzano la dinamica dell’accumulazione capitalistica. Un esempio flagrante è proprio il nazismo. La soluzione finale viene perseguìta anche quando la sua logistica sottrae sempre più risorse alla macchina bellica tedesca. Perché? Per una sorta di linea retta tra le pagine del Mein Kampf e le camere a gas? No, perché quello era l’esito funzionale dell’intera macchina tecno-burocratica, che aveva fatto dell’antisemitismo il suo propellente. Se, viceversa, ci si limita a osservare la dinamica delle “forze impersonali del capitale” (dunque prive di un’intenzionalità politica autonoma), la distruzione di mano d’opera sfruttabile risulta essere uno spreco non funzionale, quindi difficilmente spiegabile.

Anche la critica rivoluzionaria del complottismo ha a che fare con funzionalismo e intenzionalità. Per lungo tempo, per complottismo (o visione poliziesca della storia) si è inteso ogni spiegazione che mancando di rendere conto della dinamica degli scontri politico-sociali riconducesse le cause degli eventi storici ai piani più o meno nascosti di una élite, oppure alle manovre di lobby occulte, polizie e servizi segreti. La tesi fascista della cupola ebraico-massonica che governa il mondo, oppure quella stalinista secondo cui i gruppi che hanno praticato la lotta armata in Italia erano teleguidati dagli apparati deviati dello Stato, sono tra gli esempi più noti. In entrambi i casi, il complottismo era un’arma contro i movimenti. Nessun uomo di Stato o nessun giornalista, infatti, ha mai definito complottisti quanti sostenevano che le BR fossero manovrate, perché lo scandalo inammissibile era proprio l’esistenza di uno scontro di classe ingovernabile, dentro cui si dava l’azione autonoma dei gruppi politici combattenti; qualunque spiegazione dietro le quinte, che rimuovesse questo “segreto pubblico”, era funzionale allo Stato. Persino ipotizzare il coinvolgimento di pezzi di apparato statale nel sequestro Moro… Meglio una rocambolesca spy story che la cruda e semplice verità di un gruppo di operai che s’organizza e si va a prendere il capo del partito di governo. L’ossessiva reiterazione della prima può alimentare per anni un fiorente mercato editoriale e produrre effetti sociali catatonico-depressivi, mentre la semplice enunciazione della seconda basta a far traballare parecchi arcana imperii e rischia, oltre tutto, di spargere nelle teste il seme di certi cattivi pensieri.

Ma la critica rivoluzionaria del complottismo ha ragioni più profonde e meno contingenti: la prima delle quali è che quanto appare è più che sufficiente per detestare questo mondo e cercare di rovesciarlo.

“Complottista” è stato a lungo un termine usato per lo più dai movimenti antagonisti per distinguere la vera critica dalla sua parodia reazionaria e per ricondurre la Polizia alla sua triste e subordinata funzione, invece che farne un primattrice: fra la memoria storica delle lotte e le carte di questura ne corre! Alla cosiddetta gente comune, quell’aggettivo-sostantivo diceva poco o nulla.

II. “Addà venì Garibaldi”

I poveri e gli sfruttati hanno cercato, nel corso della storia, di spiegarsi il mondo (e di farsi coraggio) con gli strumenti che avevano a disposizione. Il folklore è sempre stato uno di questi. Credenze, ballate, rituali, proverbi, leggende, racconti sono state le forme spontanee di una cultura dal basso, orale, non erudita, a lungo non scolarizzata. Quel folklore mescolava non pochi elementi di verità (in quanto auto-comprensione della propria esperienza), dentro un quadro fatalistico e contemplativo (allo stesso tempo espressione della subordinazione alle rappresentazioni della classe dominante e rovescio di un vissuto prigioniero).

Gramsci – per il quale, sia detto chiaramente, ho ben poca simpatia politica – diceva con felice intuizione che la cultura proletaria non doveva avere un atteggiamento altezzoso e saccente nei confronti del folklore popolare, bensì assumersi il compito di raccoglierne gli elementi di verità liberandoli dalle rappresentazioni fatalistiche. Il togliattismo è stato la parodia di questa disposizione: esso ha sostituito i miti folkorici con dei miti politici, intendendo qui per mito ciò che infonde allo stesso tempo passività e speranza. Perché Togliatti, su indicazione di Mosca, impose il nome di Garibaldini ai membri delle bande partigiane? Non solo per sottolineare la natura patriottica della Resistenza (in quanto “Secondo Risorgimento”), ma anche per tecnicizzare – direbbe Károly Kerényi – un mito di riscatto proprio del folklore popolare (“Addà venì Garibaldi!”).

Nel folkore popolare sono presenti sia l’idea di un mondo reso ingiusto e immutabile da una sorta di sortilegio, sia quella di una formula magica e dolorosa che lo possa riscattare d’un colpo, cancellando debiti e diseguaglianze (il Giubileo). Se c’è qualcosa che non appartiene al folklore – e che gli è stato insufflato dall’esterno – è proprio l’idea di progresso, la credenza in una liberazione poco per volta, secondo la temporalità cumulativa e la dinamica ascendente di una legge storica.

III. Servizi

Un elemento senz’altro inedito nella gestione dell’epidemia di Covid-19 è l’impiego mediatico del termine “complottismo”, riferito a qualsiasi tesi che metta in discussione le verità ufficiali. Un impiego così martellante – e così internazionale – non può essere un caso, rispondendo sia a ragioni funzionali sia a ragioni intenzionali. Per fornire un esempio di questo uso rovesciato di un concetto impiegato in passato per lo più dai rivoluzionari, basti citare la Relazione dei servizi segreti italiani per l’anno 2020, in cui la parola compare per definire sia le tesi dell’estrema destra sia quelle dell’antagonismo. Un agente segreto che dà del complottista a qualcuno non può essere rubricato frettolosamente come una mera coincidenza né può essere scambiato per una barzelletta che non fa ridere. Così come merita una spiegazione il fatto che a essere maggiormente tacciate di complottismo siano state le idee e le azioni contro le antenne 5G e le prese di posizione contro la vaccinazione di massa. Del rapporto tra deforestazione, allevamenti industriali e salto di specie dei virus, all’inizio (poi sempre meno) si poteva sentir parlare anche alla radio, in approfondimenti condotti da immancabili esperti la cui funzione sembrava proprio quella di assecondare fintamente l’analisi anticapitalista sul piano generale per disarmarla nella sua azione immediata. Qualsiasi telefonata in diretta che accennasse anche solo a dei dubbi sulla vaccinazione, o la notizia di un’antenna di telecomunicazione incendiata, invece, suscitavano reazioni scomposte e l’etichetta piglia-tutto: complottismo. Formuliamo un’ipotesi su questa parodia al quadrato (il complottista, nemico storico del movimento rivoluzionario, diventa d’un colpo nemico dello Stato). È probabile che i governi si aspettassero che a mettere in discussione radicalmente senso e funzione reale dei loro provvedimenti “anti-Covid” fossero innanzitutto rivoluzionari e antagonisti. In un miscuglio di intenzionalità e di sperimentata funzionalità, per allineare certe parole dello Stato e certe parole dell’antagonismo (soprattutto quello più preoccupato di compromettere la propria immagine pubblica) è stato sufficiente presentare il “complottista” come nemico della salute collettiva e il governo come suo garante (per quanto pasticcione, incapace o subordinato agli interessi di Confindustria). Sullo sfondo, come vedremo, si è coagulato in tutta la sua materialità un nodo irrisolto di tanti movimenti del Novecento: la questione dello Stato.

Dov’è finita, intanto, la credenza che quanto ci raccontano in tv è tutta una balla? Nel folklore popolare, nelle forme che esso assume nella società digitale. La “cultura critica” ne ha – secondo l’assunto gramsciano – illuminato gli elementi di verità provando a smontare quelli fatalistico-reazionari? No. Per tenersi lontana dal “complottismo”, dalle “fake news”, dal “negazionismo”, ne ha deliberatamente ignorato le ragioni – confuse, parziali, ingenue, inquinate fin che si vuole, ma anche comprensibili e sensate – in una dinamica discendente: se non ho detto niente sul lockdown ieri, cosa dire sul coprifuoco oggi? Se non ho detto nulla sulle cure domiciliari negate, cosa dire sui vaccini? Così, mentre si infittiva la nebbia e si rafforzava la gabbia, ognuno ha battuto le strade in cui si sentiva più sicuro: il contrasto della repressione per alcuni, il sostegno alle lotte operaie nella logistica per altri, le lotte contro la devastazione ambientale per altri ancora. Battaglie giuste e necessarie, sia chiaro, ma in qualche modo a lato del terreno su cui lo Stato e i tecnocrati avevano piazzato le loro batterie.

IV. Gas tossici

Le tendenze dominanti nel movimento proletario del Novecento – che non sono del tutto scomparse dopo il riflusso delle lotte degli anni Settanta e la scomparsa dell’Unione Sovietica, assumendo invece forme larvali e gassose – hanno visto nello Stato o un’organizzazione politica neutra o il mero comitato d’affari della borghesia. Nel primo caso, l’ingresso dei partiti operai nelle istituzioni e i miglioramenti della condizione operaia strappati con la forza sindacale avrebbero allargato progressivamente gli spazi di democrazia fino a condurre al socialismo; nel secondo caso, solo la conquista violenta del potere politico avrebbe permesso un utilizzo anticapitalista dello Stato (primo passo verso la sua estinzione). Lo stalinismo ha fatto della prima visione una tattica e della seconda una strategia (o, più esattamente, una promessa incantatoria con cui giustificare l’alleanza con i settori più “progressivi” della borghesia). Con il tempo, la tattica è diventata strategia, e lo Stato democratico-borghese è diventato un orizzonte insuperabile. Gli interessi della povera gente si sarebbero garantiti opponendo alla potenza “privata” (e oltre tutto “monopolistica”) del capitale la potenza “universale” dello Stato. La pianificazione statale dell’economia e il finanziamento pubblico della ricerca scientifica erano già, quindi, avamposti del socialismo.

Questo schema lo ritroviamo nelle mobilitazioni internazionali contro la globalizzazione: le politiche neoliberali sono decisioni adottate da istituzioni ormai ostaggio delle multinazionali (e del capitale finanziario), svuotate di ogni “sovranità”. C’è allora da stupirsi se certi settori popolari vedono dietro la gestione dell’epidemia da Covid-19 la regia di “Big Pharma” e nella Costituzione l’unico argine, nonché la fonte di legittimazione della propria “resistenza”? Lo schema è simile: la ricerca scientifica è piegata agli interessi di pochi, la missione universale dello Stato viene compromessa da governi venduti alla grande finanza. Più o meno ciò che sostengono quanti rivendicano “vaccini bene comune”, ma in modo molto meno logico e conseguente: un prodotto sviluppato e venduto da “Big Pharma” – nonché autorizzato da organi di controllo che esso stesso finanzia – potrà mai essere un “bene comune”? Non vedere come gli intenti delle multinazionali farmaceutiche (e del digitale) siano resi possibili dalla funzione dello sviluppo tecnologico comporta un’enorme semplificazione (che scagiona il sistema sociale nel suo insieme e fa ancora appello allo Stato, alla magistratura, a una nuova Norimberga…). Ma pretendere che quelle stesse multinazionali rinuncino ai brevetti e trasferiscano le loro tecnologie ai Paesi poveri è forse più realistico? E denota una comprensione maggiore di come funziona l’apparato industriale – privato e statale – delle tecno-scienze?

Qualcuno, di certo un po’ più avveduto sul rapporto tra Stato e capitalismo, auspica che a farsi carico della vaccinazione di massa siano dei “comitati proletari”, dal momento che le istituzioni borghesi non si possono affrancare dal potere di “Big Pharma”. Hanno tuttavia ragione gli stalinisti: per una simile impresa, ci vuole lo Stato. Ma più lucide di entrambi sono senz’altro quelle migliaia di persone – in larghissima parte donne – che sono scese in strada urlando “non siamo cavie!”. L’idea “folklorica” che Bill Gates voglia ridurre la popolazione mondiale attraverso i vaccini è certo più vicina al vero dell’illusione progressista secondo la quale lo sviluppo tecno-scientifico è non solo neutrale, ma addirittura un fattore di emancipazione…

La maggior parte delle malattie che affliggono l’umanità richiedono soluzioni ben poco tecnologiche come acqua pulita, cibo a sufficienza, salari decenti; tutti aspetti che lo sviluppo tecnologico non risolve, bensì aggrava, mentre ammalia con le sue promesse «imminenti, ma in qualche modo sempre dietro l’angolo». Solo nel 2020, in Mozambico sono morti di fame 500mila bambini. E qual è la priorità per certi pretesi internazionalisti? Portare a quella popolazione dei vaccini OGM. Proprio ciò che vogliono gli eugenisti – nonché sterilizzatori di donne povere – che hanno sviluppato il vaccino di AstraZeneca… No, non portarle solo i vaccini, ma le tecnologie stesse per poterli sviluppare e produrre in autonomia. Cioè: impiantare centri di ricerca biotecnologica – in cui ricercatori e tecnici altamente specializzati in Intelligenza Artificiale, in bio-informatica, in biologia molecolare, in nanotecnologia ecc. formino una nuova leva di personale locale –, ai quali affiancare in quattro e quattr’otto fabbriche high tech dove produrre autonomamente i vaccini. Fabbriche, va da sé, connesse a una potente rete digitale. In questa bella fiaba – il cui inconscio è quello dell’imperialismo benefattore – siffatti centri di ricerca e siffatte industrie rinuncerebbero, finita la vaccinazione, ai compiti per cui sono stati storicamente creati: accrescere la dipendenza (energetica, agricola, sanitaria, economica, sociale, politica) della popolazione locale da un apparato centralizzato ed eteronomo, il cui insaziabile motore estrattivista spreme gli umani, isterilisce la terra, provoca epidemie. Non sarebbe molto più pratico destinare i soldi dei vaccini all’allestimento di una rete di piccoli ambulatori di villaggio in cui curare tempestivamente i malati, invece di vaccinare indiscriminatamente milioni di persone? Certo che lo sarebbe, ma lo scopo del mercato biotech è proprio quello di rendere obsoleto e poco redditizio il «il lavoro prosaico di cura e di prevenzione».

V. Nodi irrisolti

Cui prodest? A chi giova? La domanda è tanto necessaria quanto insufficiente; e le risposte talvolta fuorvianti. Non è detto che chi sfrutta le conseguenze di un avvenimento lo abbia anche provocato. Tra i tanti esempi storici che si potrebbero fare, ne scegliamo due che appartengono alla storia del movimento rivoluzionario: l’incendio del Reichstag e la bomba al teatro Diana. Il primo gesto – compiuto dal comunista consiliare olandese Marinus Van der Lubbe – fornì il pretesto ai nazisti per una feroce caccia alle streghe contro tutti i dissidenti. A lungo – e ancora oggi in non pochi libri di storia a torto considerati autorevoli – si è visto nell’incendio del Parlamento tedesco un complotto nazista (cui prodest?, appunto) e nel compagno Van der Lubbe un provocatore. Tesi sostenuta soprattutto – per ovvie ragioni – dagli stalinisti. L’incendiario all’epoca fu difeso solo da alcuni gruppi anarchici (come per esempio “L’Adunata dei Refrattari”), dai consiliari germano-olandesi e da qualche giornale della sinistra comunista “italiana” (e anche tra i pochi comunisti che lo difesero, qualcuno ci tenne comunque a criticarne politicamente il gesto…). Quello del “complotto nazista” è stato un falso storico talmente stamburato e pervasivo che lo ritroviamo persino in uno dei primissimi volantini che, “a caldo”, svelarono la matrice statale e padronale delle bombe del 12 dicembre 1969. Il testo in questione, diffuso qualche settimana dopo la strage di Piazza Fontana da “alcuni amici dell’Internazionale”, s’intitolava infatti Il Reichstag brucia? (sottinteso: lo Stato italiano ha realizzato questa sanguinosa provocazione additandone quali autori gli anarchici, proprio come i nazisti avevano incendiato il Parlamento tedesco attribuendone la responsabilità ai comunisti). Che i due gesti – incendiare l’organo di rappresentanza passivizzante del “popolo lavoratore”, d’isterilimento della sua azione residua e di validazione dell’oppressione statale, in un caso, e colpire nel mucchio degli agricoltori, nell’altro – rappresentassero modi diametralmente opposti d’uso di ordigni combustivo-esplosivi non ha impedito che finissero rubricati alla stessa voce: complotto. Si osservano gli effetti, non si ragiona sulle dinamiche (il tutto condizionato dal pregiudizio che solo l’azione collettiva possa essere una risposta legittima all’oppressione). Essendo la storia il risultato di un groviglio di forza (e di imprevisti), anche l’analisi delle dinamiche può talvolta essere ingannevole. Nel leggere sulla stampa, il 23 marzo 1921, la notizia della strage del Diana, non pochi compagni pensarono subito che si trattasse di una provocazione questurina. Non solo per la feroce caccia al sovversivo che ne seguì (insomma: cui prodest?), ma proprio per la dinamica del fatto in sé: sia la scelta dell’obiettivo – un teatro frequentato anche da gente comune – sia le modalità dell’attentato (una bomba ad alto potenziale). Sulle prime, risultò difficile da capire che fosse invece l’imprevisto effetto di un’azione condotta da alcuni giovani e conosciuti compagni per «colpire non il teatro quanto il soprastante albergo – che, secondo informazioni allora in possesso degli attentatori, serviva regolarmente da luogo di incontro tra Benito Mussolini ed il questore di Milano Gasti, entrambi acerrimi nemici degli anarchici e da questi ultimi odiati, in particolare, si credeva che proprio quella sera Gasti si dovesse trovare in quell’albergo» (Giuseppe Mariani).

Tutto questo per dire che a stare in guardia dall’applicare in modo meccanico la logica del cui prodest? dovrebbero essere proprio i rivoluzionari.

Se applicassimo tale logica all’Emergenza Covid-19, la conclusione sarebbe netta: dell’Emergenza hanno approfittato soprattutto le multinazionali del digitale e quelle farmaceutiche, quindi l’hanno pianificata loro. Post hoc, ergo propter hoc («Dopo questo, quindi a causa di questo»).

Altrettanto ingenuo sarebbe però pensare che la spinta accelerata verso la digitalizzazione della società e un programma come la vaccinazione su scala planetaria siano soltanto due risposte funzionali di fronte a un evento del tutto inaspettato: la diffusione del Sars-CoV-2.

Per farsi un’idea un po’ più avveduta di ciò che è funzionale e ciò che è intenzionale dobbiamo capire quali sono le tendenze fondamentali del nostro tempo. Cioè tornare a due nodi irrisolti: la questione tecnologica e la questione dello Stato.

VI. Temperature di fusione

Mi sono chiesto a lungo quale fosse il modo più preciso per definire il rapporto tra tecnologia e sviluppo capitalistico. Trovando del tutto errate, alla prova della storia, le due idee correnti sul tema: quella – comune sia alla visione liberal-democratica sia alla concezione marxista – secondo la quale la tecnologia è un insieme di mezzi di razionalizzazione e di organizzazione in vista di fini politico-economici variabili; e quella della tecnica come soggetto autonomo della storia (la storia di una frattura tra l’essere umano e le sue protesi, dentro la quale la differenza tra un mulino a vento e una centrale nucleare sarebbe solo una differenza di grado). Finora, l’aggettivo più pertinente per definire quel rapporto l’ho trovato in un bel libro sull’insurrezione luddista: consustanziale. Se la recinzione delle terre comuni e la spoliazione delle ricchezze coloniali sono state le due fonti d’accumulazione originarie del capitalismo inglese, le basi per lo sviluppo della manifattura e del macchinismo sono state fornite dalla potenza dello Stato britannico in guerra prima con lo Stato spagnolo e poi con quello francese: dalle necessità belliche nascono, infatti, sia la ferrovia sia lo sfruttamento delle miniere di carbone. L’elettricità si è sviluppata per produrre armi; prima di illuminare le case private, è servita per far funzionare le manifatture anche di notte. Questo rapporto di implicazione reciproca tra potenza militare, sviluppo dell’industria e accelerazione della tecnica ha prodotto un salto: la tecnologia, cioè l’applicazione di conoscenze scientifiche sempre più specializzate a una produzione industriale che soppiantava via via tutte le forme comunitarie e non centralizzate di produzione.

Le due guerre mondiali sono state in seguito il laboratorio di una nuova fusione: tra ricerca scientifica, apparato militare, pianificazione industriale e burocrazia di Stato. Il secondo conflitto mondiale non solo ha aggiunto alla fusione anche i mezzi di comunicazione di massa, ma, grazie alle gigantesche sperimentazioni belliche, mediche e tossicologiche, ha dato il via a quella che si può chiamare tecno-scienza e alla sua forma politico-sociale: la tecnocrazia. Così come la logica totalizzante del profitto è un elemento che cresce e si autonomizza dentro la società feudale, lo sviluppo tecnologico, forza agente dell’accumulazione capitalistica, diventa sempre più il motore della competizione economica (nonché la continuazione della politica con altri mezzi). «I regimi politici passano, la tecnocrazia resta». È dentro lo scontro di potenza degli Stati – attori diretti della pianificazione industriale – degli anni Quaranta e Cinquanta che si elaborano i paradigmi (cibernetica) e si avviano i programmi di ricerca (informatica e ingegneria genetica, oltre al nucleare) senza i quali non ci sarebbero state né la successiva finanziarizzazione dell’economia (con le relative politiche neoliberali) né l’entrata nei corpi umani come ulteriore terreno di conquista capitalistica. Questi processi di fusione tra privato e statale – che qualcuno ha chiamato tecno-burocrazia – sono stati còlti con lucidità dagli spiriti meno incantati dalle sirene del progresso e dal preteso sviluppo “emancipatorio” delle forze produttive: Simone Weil, George Orwell, Dwight Macdonald, Georges Henein… tutti più o meno irrisi perché si interessavano di aspetti “secondari” e trascuravano le leggi impersonali del capitale. Quelle analisi hanno descritto con precisione sia la natura intrinsecamente gerarchica e anti-egualitaria della grande industria (a prescindere da chi detiene la proprietà giuridica dei mezzi di produzione), sia l’estensione onnivora della burocrazia statale. Ciò che si dava per scontato, tuttavia, era che la pianificazione industriale avesse nella scienza asservita al capitale il suo perno, e che di quel perno il long range planning fosse l’articolazione più logica. Solo che quel perno – grazie agli enormi finanziamenti statali – non solo è diventato tutt’uno con il quadrante dei comandi, rovesciando il rapporto tra mezzi e fini; ma la “rivoluzione tecnologica” ha fatto saltare ogni pianificazione, sempre troppo lenta e costosa rispetto alle innovazioni della scienza applicata. Resta vero che «l’ambiente in cui la tecnica acquista il suo potere sulla società è il potere di coloro che sono economicamente più forti sulla società stessa» (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo). Con questa aggiunta fondamentale: «Quella tecnocratica non è una “rivoluzione”, ma un putsch permanente». Proprio perché la razionalità tecnica è il «carattere coatto, se così si può dire, della società estraniata a se stessa», la sua autonomizzazione non incontra alcun limite dentro la dinamica di quell’estraneazione.

Lo sviluppo tecnologico ha una contraddizione relativa (le lotte dei salariati) e una contraddizione assoluta (l’irriducibilità dell’essere umano e del vivente alla macchina): la tecnocrazia aggira sempre più la prima puntando direttamente alla seconda. Così come è stata la repressione statale del movimento rivoluzionario degli anni Sessanta e Settanta a permettere e ad accompagnare l’introduzione della telematica nella produzione, l’attuale attacco padronale e poliziesco contro la resistenza operaia nei settori della logistica prepara l’imposizione generalizzata del “modello Amazon”. Per liquidare l’assalto proletario degli anni Sessanta e Settanta, Stato e padronato hanno dovuto rimuovere – con l’impiego incrociato di potenza coercitiva e salto tecnologico – la forza “contrattuale” di una classe operaia che era prodotto di un certo modello produttivo – fissità degli impianti, costi di stoccaggio delle merci, necessità capitalistica di una forza-lavoro molto numerosa e poco qualificata –, e proprio per questo capace di un uso “scientifico” dell’assenteismo e del sabotaggio. In una proporzione molto più ridotta, la digitalizzazione della logistica punta anch’essa a rimuovere la propria contraddizione relativa: il blocco e il picchetto operai (proprio quelle forme di lotta che lo Stato ha messo fuorilegge con i suoi “decreti sicurezza”). Pensare che lo sviluppo tecnologico sia oggi una variante secondaria dello scontro di classe significa vivere su un altro pianeta. Quando qualche marxista particolarmente saccente irride le nostre “paure” – tipicamente “piccolo-borghesi”! – per la svolta tecno-totalitaria in corso e sostiene che il “dinamismo tecnologico” (il quale sarebbe più annunciato che reale!) è solo il sintomo di una valorizzazione capitalistica che annaspa, dimostra tutto il proprio irrealismo. Così come del tutto irrealistica è la conseguente individuazione di quella che sarebbe la vera posta in gioco: lottare per una riduzione generalizzata della giornata di lavoro, “programma minimo” che le nuove tecnologie renderebbero possibile.

La storia semmai dimostra che la lotta per ridurre il carico di lavoro presuppone quella duratura capacità autorganizzativa a cui la robotica e l’automazione sottraggono ogni base di appoggio. La disoccupazione di massa che la digitalizzazione provoca e ancor più provocherà produce un salariato sempre più docile. La favola secondo cui lo sviluppo tecnologico avrebbe liberato – se non automaticamente, almeno sotto la spinta del conflitto di classe – l’essere umano dalla fatica è sempre stata una favola tecnocratica. Il lavoro vivo aumenta esponenzialmente – l’apparato materiale del digitale si fonda sull’attività forzata di milioni di esseri umani –, ma esso è tanto tecnologicamente connesso quanto socialmente frammentato. La rivendicazione di una giornata di lavoro più corta è allora eminentemente politica (e si trova a scontrarsi con un’altra opzione politica: il reddito universale di garanzia). Sarebbe davvero più irrealistico rivendicare subito la chiusura delle produzioni distruttrici dell’umano e del suo ambiente, cioè protestare contro la nostra espulsione dal mondo?

VII. Blitzkrieg

Nella storia non di rado gli effetti si fanno a loro volta cause. La finanziarizzazione dell’economia – impossibile senza l’informatica, l’Intelligenza Artificiale, la data science, e i giganteschi apparati materiali su cui si basano – agisce a suo volta sullo sviluppo tecno-industriale. Verità lapalissiana. «Le decisioni sembrano scaturire automaticamente dalla “scatola nera” di un meccanismo di calcolo “oggettivo” ». La soluzione tecnologica tende così ad abolire ogni giudizio etico e ogni azione politica.

Ritorniamo un momento sul rapporto tra innovazione permanente e pianificazione industriale. L’industria nucleare – risultato della guerra di potenza tra gli Stati e del mastodontico programma di finanziamento scientifico che l’ha resa possibile – è l’esempio più macroscopico di pianificazione statale di un impianto centralizzato, militarizzato e soprattutto fisso. Su quella produzione statale di energia s’innestano sia altre infrastrutture fisse – come le linee ad alta velocità – sia i laboratori high tech che sconvolgono di continuo forme e modi della produzione di merci, estrazione e lavorazione delle materie prime, assetti urbani, controllo del territorio, forme e modi della guerra. Lo stesso si può dire dei cavi sottomarini, la cui posa e difesa è essa stessa oggetto di scontro geopolitico e militare. Se, in assenza di un sovvertimento radicale della società, si può essere piuttosto certi che tra qualche decennio esisteranno ancora centrali nucleari, linee ferroviarie e cavi sottomarini più o meno come li conosciamo oggi, non abbiamo la più pallida idea – se non con qualche esercizio di futurologia critica – di come si produrrà il pane o le automobili, né delle modalità con cui si effettueranno i pagamenti o si cureranno i corpi. Questa accelerazione totalitaria dell’innovazione è esattamente ciò che è stato chiamato putsch tecnologico permanente. Se l’imperativo dell’estensione e l’imperativo della profondità spingono l’apparato tecno-scientifico a conquistare ogni brandello di esperienza umana per trasformarla in dato, discutere se una politica è neoliberale oppure neokeynesiana è semplicemente ridicolo. Primo, perché è evidente che la digitalizzazione – con il suo vampiresco apparato di intelligenza delle macchine – non può che accelerare la fuga in avanti della finanza (con le relative ricadute materiali: apertura e chiusura just in time di centri direzionali, logistici e produttivi); secondo, perché la pianificazione statale segue la stessa logica, tendendo anch’essa verso l’amministrazione tecnologica dei territori e delle popolazioni. Per rendersene conto basta leggere i Libri Bianchi dell’esercito, istituzione pianificatrice per eccellenza. Siccome l’innovazione high tech – dai droni ai robot killer, dal campo di battaglia digitale ai corpi dei soldati geneticamente aumentati – ha già fuso tra loro istituzioni della Difesa e centri di ricerca, la direzione politica dei programmi è sempre più sottratta alla burocrazia militare – fissa come un impianto nucleare – ed affidata ai Dipartimenti inter-universitari, a loro volta sempre più legati alle esigenze dell’industria 4.0. Checché ne dicano i nemici del neoliberalismo, l’economia high tech è un’economia risolutamente dirigista. I divulgatori mediatici del verbo tecnocratico hanno aspettato l’Emergenza da Covid-19 per annunciarlo con entusiasmo: lo Stato è tornato. (Per capire che non se ne era mai andato sarebbe bastato, a tacer d’altro, osservare il costante gonfiamento del cosiddetto debito pubblico.) Non a caso i vari sociologi ed economisti a libro paga citano, come precedente dell’attuale intervento statale nei finanziamenti industriali, lo sforzo bellico di organizzazione sostenuto dagli USA nella Seconda Guerra mondiale. Quella che si prepara è un’economia di guerra, precisamente. Ma segna forse anche il ritorno della pianificazione? Socialdemocratici e stalinisti ci sperano, spingendo i “movimenti” a lottare per inserire nei piani statali un po’ di socialismo. I marxisti più critici ne smascherano l’imbroglio ideologico, perché i soldi per un New Deal non ci sono, dal momento che il capitalismo non è in una fase di espansione bensì di crisi. In realtà, il “ritorno dello Stato” non è affatto il ritorno del long range planning industriale: è la rimozione manu militari di ogni intralcio verso il putsch tecnologico permanente, cioè la dittatura delle macchine, degli esperti e dei militari. Come ha ben riassunto qualcuno, quella che si prepara a passo accelerato è l’epoca della magagna e della sventura.

Sì, la “rivoluzione tecnologica” che soppianta in modo uniforme tutti i vecchi modi di produzione è un mito. La tecnologia ha l’incedere di una Blitzkrieg. Questa guerra lampo non solo è preparata senza sosta dal lavoro incrociato di centri di ricerca, industria, mass media e istituzioni pubbliche (con la presenza discreta dei militari), ma condiziona tutti gli ambiti economici e sociali. Se, nel mercato globale, le merci a maggior tasso di valorizzazione sono quelle che incorporano più dati e più sviluppo scientifico, altri settori – meno o per nulla high tech – devono, per reggere la concorrenza di guerra, aumentare il lavoro non pagato: solo così l’essere umano resta complessivamente più vantaggioso dell’investimento tecnologico. L’esempio dello Stato cinese è emblematico. Le smart cities e i campi di lavoro forzato sono due vasi comunicanti della stessa tecnocrazia. Ditelo ai cinesi tracciati in ogni movimento che la digitalizzazione del mondo è un mito perché miliardi di mascherine anti-Covid vengono prodotte ogni giorno in modo sostanzialmente ottocentesco!

VIII. Grammi e tonnellate

Quando si dice totalitario s’intende soprattutto poliziesco. Si tratta di un riduzionismo fuorviante. Un’economia totalitaria è un’economia che non lascia alcuna esperienza umana fuori della sua presa. Fare a meno della polizia – o meglio, fare della polizia l’organizzazione senza intoppi della città, la citizen science – è l’utopia dei tecnocrati. Ma proprio perché la tecnologizzazione del mondo ha costi umani ed ecologici tanto occultati quanto smisurati, ciò che essa produce è un’apocalisse differenziata. Per alcuni lo sfinimento nelle miniere di coltan e la mancanza di acqua e cibo; per altri il telelavoro e il rischio dell’obesità. Per milioni di donne del Sud del mondo i programmi mascherati di sterilizzazione forzata; per migliaia di donne del Nord del mondo l’accesso alla Procreazione Medicalmente Assistita. Per gli operai che assemblano smartphone, il campo di lavoro e il mitra nelle costole; per i membri della upper-class, la videochiamata da bordo piscina con il proprio consulente genetico.

Ma quello che più contraddistingue un sistema totalitario è la scomparsa dei criteri per giudicare i fatti (e per distinguere i fatti dalla loro manipolazione), la liquidazione della capacità di elaborare la propria esperienza, l’obsolescenza della facoltà di afferrare con i sensi e con l’intelletto quel “solido enigma” che è il prodotto della propria attività sociale.

I lettori di 1984 ricorderanno senz’altro le pagine che Orwell dedica agli annunci del Grande Fratello sulle razioni di cioccolato. Grazie alla cancellazione permanente del passato, l’annuncio di un aumento delle razioni, che in realtà è una diminuzione rispetto a quelle annunciate la settimana precedente, è accolto con isteriche ovazioni di entusiasmo da parte dei membri del Partito. Impossibile per i dissidenti dimostrare il contrario, dal momento che i dati sono mano a mano eliminati dagli archivi. 1984 non è un “romanzo distopico”. Per dimostrare che nell’Unione sedicente Sovietica il problema della disoccupazione era stato risolto grazie ai piani economici statali, Stalin fece abolire i sussidi per i disoccupati. L’abolizione dei sussidi era ben la prova oggettiva che la disoccupazione non esisteva più.

Nell’èra di Internet, non è forse possibile cancellare gli archivi, ma è assai agevole, oltre che orientare le ricerche con appositi algoritmi, far passare la voglia di consultarli. Quanti, di fronte agli annunci trionfalistici che i contagi e i morti da Sars-CoV-2 sono calati grazie alle vaccinazioni, hanno la voglia di andare a verificare i dati relativi allo stesso periodo dell’anno prima? Inoltre, siccome anche i vaccinati si possono contagiare – in che misura e con quali conseguenze lo capiremo probabilmente in autunno-inverno, quando aumenterà la circolazione del virus –, nel frattempo l’OMS ha modificato gli strumenti per rilevare i “casi”, fissando una soglia massima ai cicli di amplificazione per i test PCR e introducendo il criterio di una doppia verifica per decretare la positività. Insomma, non si aboliscono i sussidi di disoccupazione per far sparire i disoccupati, ma si dichiara felicemente occupata una parte di loro. Se poi, di fronte ai palesi fallimenti delle sue soluzioni, la macchina tecnocratica dovesse cedere terreno al dissenso, la sua guerra lampo alla natura avrà già trovato un’altra minaccia con cui oliare i propri ingranaggi: è assai incerto se la vasta e industriale mattanza di pollame in corso negli allevamenti intensivi di mezzo mondo (Italia compresa) sarà in grado di fermare il salto verso l’uomo del virus dell’influenza aviaria… È un’utopia tanto disumana quanto irrealizzabile quella di fare di un mondo sempre più patogeno «un deserto perfettamente igienizzato».

C’è qualcosa di più opaco di quella “scatola nera” che orienta le decisioni a partire dagli algoritmi elaborati dall’intelligenza delle macchine? C’è qualcosa che provoca un più completo amorfismo morale di quello al quale educa la tirannia dell’efficacia?

In un articolo dall’eloquente titolo Cercasi un uomo sprovvisto di senso pratico, l’eccentrico conservatore G. K. Chesterton diceva che le soluzioni tecniche possono essere sensate quando qualcosa non funziona; quando non funziona più niente, scriveva, quello che ci vuole non è un tecnico, bensì un teorico, meglio se «canuto e distratto». L’efficacia di per sé è un criterio ingannevole. «Se un uomo è stato assassinato, l’assassinio è stato efficace. Un sole tropicale è tanto efficace per rendere le persone oziose quanto un caporeparto brutale del Lancashire per renderle energiche». E ancora: «L’efficacia è futile, come sono futili gli “uomini forti”, la “volontà” e il superuomo. Essa è futile perché s’interessa unicamente alle azioni una volta compiute. Non dispone di alcuna filosofia per ciò che non è ancora accaduto; non possiede, di conseguenza, alcuna libertà di scelta». È quello che milioni di persone hanno sperimentato durante la gestione dell’epidemia da Covid-19. Le gerarchie tecno-burocratiche (i cosiddetti esperti) non solo hanno provocato, più che un «buio epistemologico», una vera e propria «paralisi cognitiva», «una situazione temibile che richiama quel che succede nelle circostanze costruite apposta per de-umanizzare i soggetti tramite la dissociazione di parole e cose, di linguaggio e mondo» (Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni, Ammalarsi di paura); ma hanno contribuito anche a produrre una pletora di “uomini forti” (governatori pronti a bruciare con il lanciafiamme gli studenti che si “assembrano” per festeggiare la laurea, consulenti ministeriali che vogliono rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti e punire per legge chiunque la critichi…). Chi dice che una prova dell’assenza di centri direttivi dell’Emergenza sta nel fatto che Stato e Regioni si sono mossi in ordine sparso, ha riflettuto poco sugli effetti a spirale e a cascata che il comando tecnocratico ha sempre avuto nella storia: poter disporre della libertà di migliaia di persone in nome di una causa superiore o dell’imperiosa necessità dell’efficacia, accresce la competizione tra dirigenti nazionali e dirigenti locali nel mostrarsi gli uni più decisionisti degli altri. Il sentimento di far parte dei pochi resi adulti dalla scienza – o dalla politica che agisce in nome della scienza – porta immancabilmente a disprezzare e a infantilizzare tutti gli altri. Lo aveva ben capito Nietzsche: la meccanizzazione dei sotto-uomini trova il suo compimento storico e la sua giustificazione morale nel superuomo. La comunicazione mediatica, una volta imboccata a livello mondiale la strada della retorica bellica, si è allineata con zelo a quanto ordinato dal quadrante dei comandi. E questo non solo per i finanziamenti che riceve e le pressioni che subisce, ma per una potenza mimetica che si autoalimenta: quanto si sente importante, e persino moralmente superiore ai mediocri come lui, l’oscuro e provinciale giornalista nel richiamare i suoi concittadini al rispetto dei decreti governativi! Nella mobilitazione totale, quando per essere responsabili bisogna fare tutto ciò che dice l’autorità, anche il delatore si sente un agente del Bene.

Di fronte a una minaccia sufficientemente paurosa, la «totalizzazione del discorso pubblico» produce sulla società due effetti combinati: da un alto, il rafforzamento dell’unità nazional-popolare, che spinge il singolo a non percepirsi più come un insignificante «grammo», bensì come «la milionesima parte di una tonnellata» (E. I. Zamjátin, Noi); dall’altro un sentimento paralizzante di impotenza individuale: non c’è nulla, ma proprio nulla, che tu possa fare di fronte al Covid-19, né capirne qualcosa, né rafforzare le tue difese immunitarie, né tanto meno curarti all’insorgere dei sintomi. (Nelle quotidiane cronache della paura, mai che un “esperto” fornisse una minima indicazione medica che non fosse «indossate la mascherina, mantenete le distanze e lavatevi le mani», ritornello che avrebbe potuto ripetere altrettanto bene un postino oppure, secondo l’auspicio di Lenin, una cuoca.)

IX. Uomini sul ponte

Prendiamo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza varato dal governo Draghi. Se vogliamo capire il progetto di società che persegue – cosa fondamentale non solo perché ci tocca da vicino, ma perché spiega assai chiaramente le tendenze dell’epoca in cui viviamo – dobbiamo buttare alle ortiche schemi interpretativi inutili e fuorvianti. Il PNRR – che si inserisce nel più ampio Next Generation EU, a sua volta versione ingrandita del programma europeo Horizon 2020 – è un esempio esplicito di programma tecnocratico. La tecnocrazia è classista e anti-ecologica? Senz’altro – e al massimo grado. Ma non tutte le politiche classiste e anti-ecologiche – che hanno accompagnato l’intera storia del capitalismo – sono parimenti tecnocratiche. La tecnocrazia è oggi l’organizzazione politica delle tecnologie convergenti: informatica, ingegneria genetica, nanotecnologie e neurotecnologie. Dei 50 miliardi di euro rubricati alla voce “transizione energetica e digitale”, ben 25 sono finanziamenti a fondo perduto per l’industria. “Soldi pubblici ai padroni: la continuazione delle ricette neoliberali”, questo dice e si dice il militante di sinistra. È un’interpretazione completamente errata. Non solo perché tale affermazione non dice nulla sulla direzione in cui vanno quei finanziamenti – robotica, automazione, informatica quantistica, Intelligenza Artificiale, data science ecc. –, ma perché trascura il fatto che nella stessa direzione vanno i finanziamenti per ristrutturare l’amministrazione pubblica, la sanità, la scuola superiore, l’università. Far notare che l’industria (e l’agricoltura ) 4.0 i padroni la fanno con i “soldi nostri” non è certo una sciocchezza. Lo è pensare che la distinzione tra privato e pubblico sia rilevante nel giudicare un programma statale. “Soldi nostri”, sì, ma per espellerci dal mondo. Come è stato scritto, la dismisura dei tecnocrati cresce con i loro mezzi. Più possono, più vogliono. Non servono “complotti”. «Basta attraversare il ponte dopo averlo raggiunto».

Il PNRR sistematizza – con il pretesto di uscire dall’Emergenza – tutto ciò che l’Emergenza ha accelerato. Basta osservare con quale ottimismo i divulgatori scientifici (professione cui si promette un bell’avvenire, visto il repentino spuntare come funghi velenosi di appositi corsi di laurea e di master post-universitari) annunciano che l’epidemia da Covid-19 ha fatto saltare le barriere culturali che ci separavano dal mondo a distanza. Certo, ci sono ancora dei «talebani dell’esperienza fisica», ma di loro s’incaricherà la politica del fatto compiuto (detta anche della terra bruciata): o tecno-cittadini, o clandestini. Imparata la lezione di quanto la tecnologia ci abbia migliorato la vita relegata, perché non applicarla a tutto? «Non sarebbe la fine del mondo – ci assicura il professore Derrick De Kerchove –, solo quella della nostra illusoria e piacevole autonomia». Un’inezia, nel computo costi-benefici. Come avremmo fatto, durante il confinamento, senza Internet, senza il telelavoro, la telescuola, la telemedicina, le tele-consulenze psicologiche, i tele-acquisti, l’Intelligenza Artificiale, la genomica, le bio- e le nano-tecnologie? Già, come avremmo fatto?

X. Battute di caccia

Più di un secolo fa, il medico francese René Leriche scriveva che «la salute è la vita nel silenzio degli organi», mentre la malattia «è ciò che impedisce gli uomini nel normale svolgimento della loro vita e nelle loro occupazioni e, soprattutto, ciò che li fa soffrire».

Una quindicina di anni fa, un sociologo rilevò la tendenza dei concetti di “profilo di rischio” e di “suscettibilità” verso l’«esattezza molecolare», col che si producevano, grazie allo sviluppo dell’ingegneria genetica, milioni di «prepazienti» affetti da «protomalattie» e di «asintomaticamente malati». E questo sociologo concludeva domandandosi: «Che giudizio morale verrebbe dato di coloro che scegliessero di vivere “nel silenzio degli organi”?».

La quarantena è una pratica che precede storicamente sia lo sviluppo del capitalismo sia la nascita dello Stato moderno. Di fronte a focolai di contagio, fare in modo che questi non si estendano è stata una misura ritenuta sensata anche nelle epoche in cui la medicina non si fregiava dell’appellativo di scienza, ma era considerata molto più semplicemente un’arte (al pari della pittura, della scultura, della musica o dell’architettura). Un’arte soggetta, proprio come la scienza di oggi, alle rappresentazioni dominanti. Non furono molti i medici che ardirono sfidare le proprie congregazioni; tra questi Ippocrate e Paracelso, il primo sostenendo che l’epilessia non era una malattia di origine divina, il secondo che la peste non era diffusa dagli Ebrei; mentre, in epoca recente, vanno ricordati quanti hanno riconosciuto e denunciato per tempo la nocività dell’amianto, delle radiazioni nucleari o degli OGM in agricoltura. E anche questi sapienti e coraggiosi non si sono contati a legioni. Come noto, la peste non è stata sconfitta con particolari cure mediche, ma attraverso il miglioramento delle condizioni igieniche. Allo stesso modo, senza porre fine alla guerra industriale contro la natura e contro il vivente, il «secolo pandemico» non è né profezia di sventura né allarme sanitario, ma “danno collaterale” della tecnocrazia e insieme occasione per una sua ulteriore fuga in avanti.

In caso di contagio, in epoca pre-genomica si isolavano i malati dai sani. Non esistendo né il sequenziamento dei virus né i test molecolari, non esistevano nemmeno i “casi”, i “positivi”, gli “asintomatici”. Nell’esperienza, vissuta a livello sociale e non diagnosticata su scala molecolare, c’erano il silenzio degli organi oppure la sofferenza e la morte. Cosa ha fatto, invece, questa prodigiosa civiltà tecnologica di fronte a un’epidemia che non è né la peste né l’ebola? Ha ascoltato tempestivamente la voce degli organi con gli strumenti perfezionati grazie alle proprie innovazioni? No. Ha trattato milioni di individui – che vivevano per lo più «nel silenzio degli organi» – come potenzialmente infetti, gli infetti come già malati, i malati come quasi-morti che soltanto una eroica medicina di guerra avrebbe potuto strappare a un infausto destino. Non solo. Non ha isolato i malati dai sani nelle RSA, né ha separato negli accessi ospedalieri i malati di Covid dai pazienti affetti da altre patologie; ha scoraggiato in ogni modo l’intervento dell’assai prosaica e poco innovativa medicina del territorio, ha rinnovato confinamenti a scadenza e coprifuochi – anche dopo che il virus circolava da un anno e aveva già contagiato milioni di persone –, continuando a lasciare che i malati finissero in ospedale attaccati all’ossigeno. Panico, impreparazione, peso delle politiche neoliberali? Anche questo, certo. Ma in misura minore. L’apparato ha fatto ciò per cui è stato programmato: non applicare l’innovazione alla salute, ma fare della malattia un’occasione per aumentare l’innovazione. Grazie all’ingegneria genetica si è sequenziata una prima variante del virus (quella di Wuhan). Su quel sequenziamento, già un paio di mesi dopo, si sono sviluppati – grazie all’Intelligenza Artificiale, alla bio-informatica, alla biologia molecolare e alle nanotecnologie – dei vaccini. Non essendo interessata a capire come il virus attecchisce (per via respiratoria o per infezione intestinale: non si sa nemmeno questo) né a come favorire la risposta naturale dell’organismo, ha applicato su scala di massa il paradigma cibernetico attorno al quale si è sviluppata: l’individuo è riducibile all’informazione che le sue cellule scambiano con l’ambiente. La suscettibilità alla malattia – indipendentemente dall’età, dallo stato di salute psico-fisico ecc. – ha giustificato il confinamento di massa, in attesa del Rimedio, altrettanto di massa (da applicare a prescindere dagli anticorpi naturali già sviluppati dai soggetti). Perché? Per i giganteschi profitti dell’industria farmaceutica, senz’altro. Ma anche per la convinzione che le “informazioni genetiche” introdotte nell’organismo grazie alle nanotecnologie siano più performanti della risposta spontanea del corpo. Ma anche perché la geno-industria è fatta di «cacciatori di corpi» (The body hunters venivano definiti i genetisti sul “Washington Post” nel 2000), ai quali non è parso vero di allargare a livello planetario la battuta di caccia. Ma anche perché la vaccinazione di massa – ben più di cure domiciliari senza clamore, senza generali e senza eroi – permette allo Stato di presentarsi come salvatore e garante della salute pubblica; cioè di aumentare la propria potenza e di rovesciarla sulla società, prima come misura di polizia e poi come estensione programmatica alla “normalità” di ciò che ha sperimentato nella “emergenza”.

La malattia «è ciò che impedisce gli uomini nel normale svolgimento della loro vita e nelle loro occupazioni», scriveva il sopraccitato Leriche, e questa sua definizione non si attaglia forse perfettamente al modo in cui lo Stato ha gestito l’epidemia? Quanto al carico supplementare di sofferenza, che dire degli anziani lasciati morire senza nemmeno un ultimo saluto ai propri cari? Che dire dell’impossibilità di condividere ed elaborare il lutto? Che dire del sovrappiù di violenze domestiche contro le donne? Che dire dei suicidi? E dei tanti adolescenti e giovani tuttora impanicati all’idea d’uscire di casa? Soltanto una civiltà che separa il corpo dallo spirito, e l’individuo dalle sue relazioni, può pensare che l’isolamento e la profusione a piene mani di paura non contribuiscano ad abbassare le difese immunitarie degli esseri umani, producendo così malattia («l’idea e i modi della salute sono variabili e dipendono in via diretta dalla cosmovisione nella quale trovano posto»).

Nel mondo in costruzione di diagnosi genetiche, screening predittivi e di nanosensori ingeribili con cui controllare da remoto le “protomalattie”, «che giudizio morale verrebbe dato di coloro che scegliessero di vivere “nel silenzio degli organi”?».

Possiamo già rispondere pensando a coloro che – in piena pandemia! – si sono fidati più dei sintomi che dei tamponi o a coloro che rifiutano i vaccini del bricolage biotecnologico. Degli irresponsabili, dei complottisti, dei negazionisti, dei talebani dell’esperienza fisica, degli antinazionali, dei disertori di fronte al nemico nell’ora del pericolo.

XI. Disumani d’avanguardia

I manifesti lanciati dalle avanguardie (artistiche, politiche, scientifiche) generalmente ne enunciavano gli scopi programmatici. Quasi sempre chi pretende di interpretare lo spirito del tempo in cui vive e di anticipare quello a venire si trova a esaltare il movimento storico che ha prodotto la propria esistenza in quanto avanguardia e le leggi storiche che ne giustificano il ruolo. Progressismo e futurologia si integrano assai bene fra loro. (È un gesto etico e “politico” tutt’altro che casuale il fatto che gli anarchici si siano considerati minoranza agente e non avanguardia; è un gesto etico e “politico” tutt’altro che casuale l’invito benjaminiano a riscattare le ingiustizie del passato con l’azione rivoluzionarie invece di guardare fiduciosi verso un futuro radioso; non è affatto casuale che un poeta come Iosif Brodskij – imprigionato per «parassitismo sociale» dal regime “sovietico”, sotto il quale «non si sapeva mai cosa ci avrebbe riservato il passato» – abbia potuto scrivere: «L’avvenire, nella sua totalità, è menzogna».)

Anche lo sviluppo storico delle tecno-scienze ha l’avanguardia che gli si confà: il movimento transumanista. I transumanisti affermano in modo programmatico ciò che l’apparato tecnologico realizza in modo muto. In quanto avanguardia, il transumanesimo sostiene che il proprio ruolo è quello di superare tutte le barriere che impediscono di compiere consapevolmente ciò che l’umanità – ovviamente quella occidentale, che vale per tutta l’umanità – ha finora perseguìto in modo per lo più inconsapevole. Non ha essa sempre modificato la materia e il proprio ambiente? La sua religione non le ha forse presentato come frutti della Colpa la maledizione di vivere: “mangerai il pane col sudore del tuo volto” e “con dolore partorirai figli”? I suoi più illustri filosofi non le hanno insegnato che il corpo è la tomba dell’anima? Non ha sempre cercato di vincere la paura della morte con la promessa del Paradiso? Ecco: grazie allo sviluppo tecnologico, quelle maledizioni si possono sconfiggere e quelle promesse si possono finalmente realizzare. I processi vitali si possono ricombinare in laboratorio. L’automazione generalizzata può abolire la pena fisica del lavoro. La riproduzione può diventare artificiale. Le prestazioni e le percezioni possono essere aumentate. Gli arti e il cervello si possono ibridare con le macchine. La morte può essere sconfitta. I mezzi per questo programma integrale ci sono già: la realtà aumentata, l’ingegneria genetica, le neurotecnologie, le nanotecnologie, la biologia di sintesi. Per funzionare adeguatamente hanno però bisogno di essere implementate senza limiti e soprattutto connesse in un Pianeta intelligente.

Perché le misure con cui è stata affrontata l’epidemia di Sars-Cov-2 e i programmi con cui si annuncia la Ripresa somigliano sinistramente a quanto il transumanesimo si prefigge? Una risposta la si può trovare nella conferenza – dal titolo Nanotecnologie per l’essere umano – tenuta da Roberto Cingolani nel 2014 all’Università degli Studi di Milano (disponibile su Internet). Ciò che oggi si occupa di finanziare e organizzare come ministro alla “transizione ecologica” sono esattamente quei progetti di ricerca che in modo tanto ispirato promuoveva all’epoca come direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia. La conferenza, un commento di trentacinque minuti ad un video-spot di Microsoft proiettato negli stadi, spiega in modo limpido che l’avvenire (transumano) appartiene allo sviluppo intrecciato di informatica e bio-nano-neuro-tecnologie. All’uditorio di quel caffè delle tecno-scienze, il futuro ministro non nasconde che la strada per una completa interconnessione uomo-macchina è ancora lunga, ma gli ricorda anche che «l’appetito vien mangiando».

La biopolitica nazista è stata, nel Novecento, all’avanguardia nel realizzare le teorie sulla “degenerazione razziale” elaborate dal movimento eugenista anglosassone dell’Ottocento, le quali affondavano a loro volta le proprie radici nelle pratiche sul campo del colonialismo britannico. Senza la guerra di potenza tra gli Stati, certi esperimenti non sarebbero usciti dai laboratori (né da quelli di Berlino né da quelli di Los Alamos).

Con la sua ben nota tecnica dell’esagerazione (vòlta a far cogliere il “sovraliminare”, cioè qualcosa i cui effetti sono troppo smisurati perché i sensi e l’immaginazione li possano percepire), Günther Anders definiva il sistema tecnologico come «la comunità nazional-socialista degli apparecchi». Intendendo che gli apparecchi vanno considerati nei loro effetti combinati complessivi, ma anche che, se prestiamo orecchio al rumore che proviene «dalle labbra d’acciaio delle macchine», possiamo udire lo stesso slogan delle camicie brune («… e domani il mondo intero!»).

Grazie a cosa il transumanesimo – il cui primo Manifesto viene lanciato da Natascha Vita-More nel 1983, lo stesso anno in cui si realizza il primo stoccaggio di dati informatici – ha smesso di essere un esercizio di futurologia anti-umanista per diventare un vero e proprio centro direzionale? Ancora una volta, grazie alla guerra di potenza tra gli Stati. È dopo l’11 settembre 2001, infatti, che si realizza la fusione tra le start up della Silicon Valley – create dai più brillanti nerds usciti dal MIT –, la CIA e i Dipartimenti di ricerca del Pentagono. Il primo balzo in avanti – in senso finanziario e quindi come infrastruttura (macchine più intelligenti perché nutrite con più dati, server più potenti ecc.) – i fondatori di Google lo fanno rilevando una società controllata dalla CIA, Keyhole, per trasformarla in Google Earth. Realtà aumentata, 5G, Internet delle cose, droni, riconoscimento facciale, software di intrusione, crittografia quantistica, i primi vaccini m-RNA… sono tutte meraviglie nate dalla collaborazione tra le società del digitale, i laboratori bio- e nano-tecnologici e il complesso militar-industriale. Lo stesso vale per il Progetto Genoma Umano, per deCode in Islanda, UmanGenomics in Svezia, UKBiobank in Gran Bretagna o CeleraDiagnostics negli USA. “Socialismo di mercato” invece di “liberal-democrazia”, non diverso è il processo di fusione avvenuto in Cina.

Quando, già nell’aprile dell’anno scorso, qualche professore del MIT – Istituto che è un vero e proprio incubatore di transumanisti – profetizzava che non ci sarebbe stato alcun “post-pandemia” e che avremmo dovuto abituarci ai lasciapassare digitali per aver accesso a certi locali o servizi, cosa faceva se non informarci di ciò intorno a cui erano impegnati i suoi colleghi nel laboratorio di fianco? Lo stesso vale per le “profezie” di Bill Gates, i progetti di Amazon o gli annunci di IBM.

«Se il transumanesimo progredisce senza intoppi, è perché la tecnocrazia lo vende sotto i colori della razionalità economica» (e, potremmo aggiungere, della speranza medica). «Il progetto transumanista è l’altro nome della crescita».

XII. Il grande arsenale

Quando, nel 2003, il neo-conservatore George Bush Jr. e il neo-laburista Tony Blair dichiararono guerra all’Iraq con il pretesto delle armi di distruzione di massa possedute dal regime di Saddam Hussein, e la “Coalizione dei Volenterosi” partecipò ai bombardamenti dell’operazione Enduring Freedom con l’appoggio dei media occidentali, il movimento di opposizione nelle strade e nelle piazze parlò di una menzogna per mascherare gli obiettivi reali della guerra e di una strategia mediatica pianificata a livello internazionale. Per tutti era una sensata e materialistica spiegazione. Nessuno parlò di “complotto” e a nessun oppositore della guerra venne dato del “complottista”. Lo stesso è accaduto qualche mese fa con la sollevazione palestinese contro la politica israeliana di apartheid. Che tutti i mass media presentassero i bombardamenti di Gaza come una risposta ai razzi di Hamas – bombardamenti di cui discutere semmai la natura proporzionata o meno –, e che le manifestazioni di massa in mezzo mondo in solidarietà con la lotta palestinese siano state ampiamente silenziate non è apparso certo un “complotto”, né “complottista” è stato definito chi ha denunciato una strategia politico-mediatica ben precisa. Nessuno ha pensato a una sorta di cupola oscura che mette a libro paga governi, politici e giornalisti. Ma a una convergenza di interessi.

Perché affermare che il modo in cui è stata gestita da quasi tutti i governi l’epidemia di Covid-19 risponde non solo a elementi funzionali, ma anche a una strategia ben precisa sarebbe, in questo caso, “complottismo”?

Il programma di vaccinare qualche miliardo di persone – programma che implica l’inoculazione in dosi massicce dell’idea che sia l’unica soluzione per “vincere la guerra contro il virus” – nasce dalla stessa convergenza di poteri che ha lanciato la “guerra al terrorismo” per giustificare i bombardamenti. Bombe o vaccini, si tratta di due mosse dello stesso quadrante dei comandi. La dichiarazione fatta da Joe Biden al recente G7 non avrebbe potuto essere più chiara: «Siamo il più grande arsenale che ci permetterà di vincere la battaglia mondiale contro il virus». Una battaglia di cui la “miope concorrenza” tra le diverse multinazionali farmaceutiche e lo scontro geopolitico tra gli Stati tendono, tuttavia, a compromettere il valore. Ecco cosa hanno scritto al riguardo i redattori di “The Economist”: «Immaginate un investimento che potrebbe fruttare un guadagno del 17.900% in quattro anni. Non solo, con un investimento di partenza assolutamente accessibile. Chi mai sulla Terra avrebbe potuto perdersi una tale opportunità? La risposta, a quanto sembra, sono i leader del gruppo dei Sette (G7), un club di democrazie ricche che ha tenuto il suo vertice annuale di questa settimana in Gran Bretagna. Non riuscendo ad agire abbastanza velocemente da inoculare il mondo contro il covid-19, si stanno perdendo l’affare del secolo».

Il tempo trascorso dal 2003 a oggi, evidentemente, il nemico «non lo ha né dormito né giuocato». La macchinizzazione del potere decisionale – raccolta informatica dei dati, elaborazione degli algoritmi ed esecuzione automatizzata dei comandi – comporta un’inevitabile riduzione del numero dei decisori. «Ce lo ordina la scienza» significa principalmente questo. Il fatto è talmente notorio che persino dei pallidi burocrati dell’Unione Europea sono riusciti a scrivere: «Lo sviluppo della robotica può avere come conseguenza quella di concentrare in modo significativo le ricchezze e il potere nelle mani di una minoranza» (Risoluzione del Parlamento europeo sulla robotica, 16 febbraio 2017).

Certi nomi – su tutti la Bill & Melinda Gates Foundation – o certe entità – Big Pharma – sembrano allora circolare apposta per mescolare elementi di verità e allo stesso tempo suggerire un’occulta regia privata dietro l’Emergenza. A presentare la tesi di un Gates grande manovratore – tesi che fa breccia, indubbiamente – come un “delirio complottista” sono gli stessi capi di governo che invitano il fondatore di Microsoft quale consulente esterno ai loro G20 sulla salute e sui vaccini… Parlare di Gates può essere un ottimo modo per evitare di riconoscere i piccoli e concreti distruttori dell’umano all’opera nei dipartimenti universitari dedicati all’Intelligenza Artificiale o nei laboratori di bio- e nano-tecnologie finanziati con soldi rigorosamente pubblici.

Se qualcuno ha voglia di consultare l’imponente The Palgrave Encyclopedia of Imperialism and Anti-Imperialism, potrà osservare che la critica dell’«imperialismo della salute e dei vaccini» – soprattutto mediante i LARC, gli “anticoncezionali” a lento rilascio il cui scopo è impedire per anni la gravidanza alle donne povere – praticato dalla Bill & Melinda Gates Foundation è stata condotta già parecchi anni fa da intellettuali e storici sia accademici che militanti. La stessa Vandana Shiva non ha certo aspettato il Covid-19 per denunciare l’imperialismo “benefattore” che mira a fare dei nostri corpi le nuove colonie per l’industria digitale e farmaceutica.

Eppure, basta dire Bill Gates e il militante di sinistra – compreso qualche compagno – aggrotta le ciglia, sempre che non arrivi il brillante teorico con il suo sarcasmo sui piani di Satana… Se non è guerra comunicativa questa!

Ora, è innegabile l’impegno dichiarato del padrone di Microsoft in senso neo-malthusiano (guarda caso gli esseri di troppo su questo Pianeta sono quelli di colore, come di colore sono le donne da sterilizzare…); è innegabile il suo finanziamento di tutte le aziende impegnate nello sviluppo dei vaccini di ultima generazione; è innegabile il suo programma ID2020 finalizzato ad attribuire a ogni essere umano un’identità digitale mediante i cosiddetti tatuaggi quantici; innegabili i suoi progetti di trasformare le attività corporali in proprietà brevettabili; innegabile quanto le sue “profezie” – che sono in realtà lavori in corso – assomiglino sorprendentemente alle misure “anti-Covid” prese dagli Stati membri della NATO.

Queste sono delle verità, nel senso di Orwell (2+2=4), qualunque cosa affermino al riguardo i tecnocrati dell’Ovest e dell’Est.

Quando queste verità parziali diventano delle totali menzogne? Quando si separa l’intenzionalità di alcuni centri di potere dalla funzionalità – per tutti i poteri – della fuga in avanti tecnologica. Quando gli Stati vengono visti come pedine della tecnocrazia, laddove ne sono sia gli incubatori storici sia gli organizzatori politici e militari.

Chi amministra l’Internet delle cose, governa gli uomini. Chi governa gli uomini, amministra l’Internet delle cose.

XIII. Piccola novità

Un capitolo a sé – al quale possiamo qui solo accennare – è quello relativo alla teoria rivoluzionaria in tempi di Emergenza. Chi aveva delle griglie interpretative “etico-politico” radicali, vi ha fatto rientrare senza grandi sforzi quella piccola novità che è stata la carcerazione sociale di qualche miliardo di persone. In fondo l’epidemia di Sars-CoV-2 ha solo esacerbato la crisi del modo di produzione capitalistico e del suo ricambio anti-ecologico con la natura; la gestione tecnocratica non è che un epifenomeno della guerra del capitale ai salariati e all’ecosistema… Per tanta “gente comune”, che non ha filtri teorici precostituiti, quest’esperienza è stata invece uno shock – e non solo per le preoccupazioni legate alla sopravvivenza economica. Non tutti hanno introiettato senza resistenze le misure imposte dalla “dura necessità”. Per migliaia di persone, che lo Stato impedisse loro di uscire di casa e di vedere i propri amici e i propri cari, imponesse di giustificare burocraticamente normali gesti quotidiani o prescrivesse tramite decreti d’urgenza con quanti si poteva pranzare e in quali case entrare, è stato una prova di “fascismo”, una “dittatura sanitaria”. Che l’uso delle categorie dipenda da quanto queste persone siano esposte alla propaganda politico-mediatica oppure più orientate verso le “contro-narrazioni” diffuse su Internet, è piuttosto evidente. Così come è chiaro che il modo di reagire a una situazione inedita dipende da diversi fattori: collocazione di classe, strumenti culturali a disposizione, precedenti esperienze di protesta, rete relazionale ecc. Quello che possiamo osservare è che ad adeguarsi con più convinzione ai provvedimenti governativi sono state soprattutto le persone di media cultura e di sinistra. Probabilmente perché più sensibili verso i richiami istituzionali al senso di responsabilità e all’argomento martellante “facciamolo per i più fragili”. Ma anche per l’idea introiettata che lo Stato esprima l’interesse generale o che comunque sia l’unica forza – per quanto indebolita e intralciata dagli interessi economici di parte – in grado di imporlo. La paura – di ammalarsi o di prendere una multa – spiega solo in parte ciò che è accaduto, tant’è che divergenze e conflitti non hanno risparmiato nemmeno gli ambienti abituati alla lotta e alla repressione. La frattura, cominciata con il confinamento, si è allargata, più o meno secondo le stesse linee, di fronte alla vaccinazione. Per qualcuno il solco era già tracciato. Tante famiglie – spesso di classe media e di media cultura, attente all’alimentazione dei figli e alla medicina alternativa, ambientaliste, aderenti a modelli nonviolenti ecc. – chiedevano in fondo allo Stato solo di non intromettersi in materia di educazione e di cura. La “legge Lorenzin”, che nel 2017 ha introdotto l’obbligo vaccinale per conto della Glaxo, è stata per loro una sorta di corso accelerato di dottrina dello Stato. O hanno capitolato di fronte alla logica del fatto compiuto (cioè della forza), oppure hanno dato vita a scuole alternative, rinsaldando legami ai margini dei loro contemporanei ormai integrati. L’Emergenza Covid-19 ha allargato quei solchi. Il rifiuto della Didattica a Distanza ha fornito un’ulteriore occasione di protesta e di creazione di micro-comunità. Il paradosso è che queste persone, piuttosto informate sui vaccini, sugli OGM, sulle cure domiciliari negate, sugli impatti sanitari della rete 5G, trovano gli ambienti antagonisti fin troppo allineati con la medicina dominante e considerano chi non si è schierato contro il confinamento e contro il nuovo obbligo vaccinale succube del “fascismo sanitario”. Proprio perché le misure governative hanno sfruttato a proprio favore quell’«immaginario apocalittico che giace nell’inconscio sociale già da decenni» – il sentimento di qualcosa che incombe è il modo in cui i corpi reagiscono al disastro ecologico in corso –, l’esperienza di quest’anno e mezzo ha fatto da spartiacque.

Migliaia di proletari e di poveri si stanno ribellando a un mondo in cui non c’è posto per loro. Altri, più privilegiati e dalle pretese fino a ieri modeste, non vogliono più stare al posto che è stato loro assegnato nel mondo. Una parte della teoria rivoluzionaria, preparata idealmente al disastro, ha agito da tranquillante (le cause strutturali dell’epidemia, la crisi del capitale… tutto previsto) invece che da detonatore della vita offesa e diminuita.

Su una cosa hanno ragione i tecnocrati: domani non si ricomincia daccapo.

XIV. Misure ecologiche

Riprendiamo a modo nostro la felice intuizione di Chesterton. Quando “niente funziona”, non serve l’inventario delle soluzioni più efficaci. Serve cambiare la definizione stessa dei problemi. Serve l’utopia.

Così, di fronte all’Emergenza, gruppi e movimenti hanno cominciato a dichiarare i loro programmi, prima lasciati sullo sfondo delle lotte immediate. Ed è qui che è emersa la questione decisiva: la questione dello Stato.

Dal momento che il capitalismo non cambierà mai la propria rotta apertamente ecocida, che fare?

Impiegare la potenza dello Stato per fermare quell’estrattivismo che la transizione energetica ed “ecologica” non potrà che aggravare. Verso questo punto programmatico convergono decrescenti, stalinisti e leninisti, non appena le circostanze li costringono a parlar chiaro. Mentre i meno radicali s’illudono che sia possibile insufflare dal basso una direzione “benecomunista” alla pianificazione statale – e qui le scuole si dividono: lo sviluppo va fermato o nazionalizzato? –, i più conseguenti puntano al «leninismo ecologico». Solo se interamente spogliata della sua natura capitalistica, la potenza dello Stato può fermate il profitto privato e imporre piani realmente ecologici. Lasciamo perdere quel piccolo dettaglio che è la conquista rivoluzionaria del potere politico (armamento proletario, insurrezione, collegamento tra i moti rivoluzionari nei diversi Paesi ecc.); tralasciamo anche di immaginare quali misure avrebbero preso questi rivoluzionari se fossero stati al potere durante l’attuale epidemia… e andiamo al nocciolo della questione. Chi vuole la potenza, vuole i mezzi della potenza. La macchina tecnologica – accentramento del sapere, divisione gerarchica e funzionale dei ruoli, efficacia come valore in sé, competizione nella ricerca delle soluzioni più efficienti ecc. – si sviluppa perché aumenta la forza coercitiva di chi governa sulla società. Quella forza, come la storia del Novecento illustra generosamente, sfrutta gli umani nella misura in cui depreda la natura, e viceversa. Serve a ben poco dichiararsi anti-colonialisti e riprendere qualche motto indigeno perché va di moda, se non si smonta nel proprio spirito la storia del colonialismo. Le comunità indigene viventi in un rapporto di equilibrio con ciò che le circonda sono state e sono comunità senza Stato.

Così come non si è mai realizzata la favola dell’uso temporaneo e transitorio del potere politico, una rivoluzione che non distrugga nel suo stesso svolgersi le cause del disastro ecologico affiderebbe allo Stato sia i mezzi per interrompere lo slancio rivoluzionario, sia le leve di una macchina estrattivista necessaria ad assicurare la nuova divisione sociale tra dirigenti ed esecutori. Risultato: una tecnocrazia tinta di verde.

La distruzione dello Stato è la misura ecologica che rende possibili tutte le altre.

XV. Linea di principio

Probabilmente, l’inadeguatezza teorica nella comprensione della trasformazione storica in corso – dentro la quale si colloca l’accelerazione chiamata Emergenza – dipende sia da schemi interpretativi obsoleti, sia da un residuo di credenze che la consapevolezza teorica non riesce da sola a oltrepassare. Sappiamo – osservando l’azione dello Stato nel corso della storia o negli attuali scenari di guerra e di dominio neocoloniale – che non esiste alcun limite etico, politico o giuridico alla sua politica di potenza (oggi tecnocratica). Eppure certe conclusioni ci sembrano esagerate. Possibile che si siano sacrificati nell’immediato così tanti interessi economici per apparecchiare le condizioni della Grande Transizione? Possibile che si siano lasciate morire così tante persone per imporre la convinzione pubblica che il Covid-19 fosse incurabile, condizionando le “riaperture”, la “ripresa” e il “ritorno alla normalità” alla vaccinazione biotecnologica di massa? Le pratiche di ingegneria sociale e di sterminio che gli Stati hanno realizzato nel corso del Novecento (media degli assassinati: 30 mila persone al giorno) non hanno forse già risposto: «Sì, è possibile»? E i mezzi a loro disposizione non hanno fatto che moltiplicarsi e radicalizzarsi.

Se, negli anni Ottanta, un gruppo come le Rote Zora – espressione di un più ampio movimento rivoluzionario e femminista radicale – attaccava, fra gli altri obiettivi, i centri scientifici e i laboratori di ingegneria genetica, è perché vedeva in quei ricercatori e in quegli istituti la continuazione dell’eugenetica nazista. Continuità che non era solo biografica (tra i dirigenti si trovavano figure di punta dei programmi scientifici nazional-socialisti), ma anche progettuale. Per cogliere la continuità dei progetti, tuttavia, l’antifascismo era un’arma spuntata. Oltre alla storia, occorreva guardare alle dinamiche geografiche del dominio. Solo così si poteva afferrare il collegamento tra le biotecnologie applicate all’agricoltura e l’ingegneria genetica applicata agli esseri umani, tra i programmi di sterilizzazione forzata delle donne povere a Porto Rico, in Brasile o in Africa e la Procreazione Medicalmente Assistita per le donne dei Paesi a capitalismo avanzato, tra l’imperialismo delle bombe e l’imperialismo dei vaccini. La convinzione che quei progetti disumani fossero ben reali non dipendeva solo dalla documentazione raccolta, ma anche dal fatto che i Mengele e il programma Aktion T4 erano esempi scientifico-statali di fresca memoria. L’attacco e il sabotaggio di un’ingegneria genetica che avanzava ora in nome del benessere democratico e della salute delle popolazioni erano una concreta resistenza contro i nuovi orrori in preparazione e insieme un posizionamento etico contro gli ordini che erano già stati eseguiti: cioè un atto di rottura con i nonni e le nonne, i padri e le madri che vi avevano collaborato o che li avevano lasciati passare in silenzio. Il messaggio di quei congegni esplosivi e di quegli ordigni incendiari era anche: Mai più.

Perché, oggi, la documentazione sul fatto che i padroni delle principali multinazionali informatiche sono transumanisti dichiarati e attivi ci sembra poco più di un lemma della voce profitto? Perché la notizia che il capo-sviluppatore del vaccino di Oxford-AstraZeneca sia un noto eugenista, fautore della sterilizzazione delle donne in Africa, appare dubbia oppure esagerata? Senz’altro perché il profluvio di informazioni che circolano in rete ci ha reso, oltre che maggiormente passivi, anche più diffidenti. Ma soprattutto per il relativo comfort in cui siamo stati allevati, anestetico di ogni coscienza storica.

Meno anestetizzati per via della loro esperienza diretta, ecco che parole estreme sono riusciti a scrivere nel 1980 due storici non particolarmente estremisti:

«Entro certi limiti fissati da considerazioni di carattere politico o militare, lo Stato moderno può fare qualsiasi cosa voglia di coloro che sono sottoposti al suo controllo. Non esiste nessun limite etico-morale che lo Stato non possa trascendere se desidera farlo, perché non esiste alcun potere etico-morale al di sopra dello Stato. Sul piano dell’etica e della moralità la situazione dell’individuo nello Stato moderno è, in linea di principio, grosso modo equivalente a quella degli internati ad Auschwitz» (George M. Krent, Leon Rappoport, The Holocaust and the Crisis of Human Behavior).

XVI. Lasciare la presa

«La medicina costituisce uno dei momenti di attacco più evidenti al corpo umano. Il capitale si esplicita attraverso i suoi dottori e scienziati, esercito in prima linea nella guerra, vera risoluzione finale, che il capitale muove all’essere vivente.

Malattia, questa sì, terminale.

Ancora una volta, e non ci stancheremo mai di sussurrarlo e gridarlo, siamo di fronte ad un aut aut: o con l’uomo o con il capitale.

O con l’uomo o con la medicina».

Così scrivevano, trent’anni fa, in Medicina maledetta ed assassina, Simone Peruzzi e il mio amico Riccardo d’Este.

Medicina di guerra non è solo una metafora bellica con cui si è giustificata la militarizzazione sociale e la nomina di un generale NATO a Commissario straordinario per l’Emergenza, ma è la descrizione di una realtà effettiva.

Le metafore con cui si rappresentano i corpi e le malattie sono da sempre un importante indicatore sociale. Se esse non ci dicono cosa accade concretamente ai corpi vivi, ci informano assai bene su come cambiano i modi di produzione e i paradigmi scientifici. Dentro alcune costanti – il virus-malattia come nemico, i corpi come fortezze sotto assedio, il sistema immunitario come organo poliziesco di controllo e di repressione; dentro una cosmovisione che separa l’essere umano dalla natura, l’uomo dalla donna, l’adulto dal bambino, il corpo dallo spirito, le rappresentazioni dominanti si aggiornano e si stratificano. La visione del corpo come macchina e dei suoi organi come valvole, pistoni, pompe ecc. segna l’ascesa del capitalismo industriale. L’idea che gli organi siano pezzi ricambiabili accompagna tanto il fordismo quanto la nascita della scienza dei trapianti. Cosa diventerà il corpo nella società digitale, se non un flusso di informazioni? Il paradigma fordista non scompare dentro quello informatico: si radicalizza. A essere rimuovibili, sostituibili e ricombinabili sono ora i tessuti, i liquidi, le molecole, i geni, le cellule. E siccome tutta la realtà è un flusso di informazioni, il vivente può non solo essere ricombinato (biotecnologie), ma anche connesso (terapie digitali) grazie a dei ponti (nanotecnologie). L’obiettivo – perseguìto già nel 2004, attraverso la sensoristica tecno-medica, dal progetto Ubimon dell’Imperial College di Londra – è presto detto: «il monitoraggio universale per l’assistenza sanitaria nella comunità». Corpi-macchina in una società-macchina. Oppure, se si preferiscono metafore più organiche: polli da vaccinare periodicamente perché possano sopravvivere e produrre in un mondo-allevamento.

Ecco il più anti-programmatico dei programmi: invece di realizzare l’ennesima Grande Opera (politica, economica, tecnologica, medica), lasciare la presa. Su noi stessi, sui nostri simili, sugli animali, sulle piante, sulla Terra.

Sabotare gli obiettivi della potenza per non soccombere sotto i suoi mezzi.

Distruggere la distruzione dell’umano, fermando i suoi avanguardisti e smascherando i loro servitori.

Pianeta Terra,

inizi di giugno 2021

Nota

Oltre ai riferimenti menzionati nel testo, spunti e citazioni per la stesura di queste tesi sono stati ricavati dai seguenti libri:

– Nikolas Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino, 2008

– Pièces et main d’œuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, Service compris, Paris, 2017

– Adam Greenfield, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana, Einaudi, Torino, 2017

Il testo in pdf:

Tesi sul Covid-1984definitivo