Il problema non è il fuoco – Appunti libertari sugli incendi in Sicilia

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Il problema non è il fuoco

Appunti libertari sugli incendi in Sicilia

Un giorno un giornalista andò da un poeta e gli chiese: «Qualora le si incendiasse casa,

lei cosa salverebbe?»

Il poeta rispose: «Il fuoco»

Guido Celli

Questo cosmo non lo fece nessuno degli dei né degli uomini

ma sempre era, ed è, e sarà.

Fuoco sempre vivente che con misura divampa

e con misura si spegne”

Eraclito, Frammento 2

Questo scritto parte per dare conto di uno stato di scuotimento e tentare una via di uscita: quello scuotimento che ti prende quando tutta la terra, che senti tua in modo non proprietario, brucia quasi per intero (un’esperienza estiva che si ripete a cicli sempre più brevi). Come tutte le esperienze eccedenti, è caratterizzata nelle prime fasi da uno spettro di sentimenti indistinti: rabbia, sgomento, sconforto, tristezza. Quando la casa brucia si vive il dubbio radicale su quanto sia vera la conoscenza che presumiamo di avere su di essa. Questa situazione psicologica di radicale spiantamento nel caso degli incendi della settimana scorsa si è spansa su tutta l’isola, densa e spessa come il fumo nero che abbiamo respirato.
Come reazione fisiologica e giusta, da più parti stanno nascendo assemblee (alcune più a taglio territoriale/autorganizzativo, altre di taglio più generale1) che poggiano su un sano e netto rifiuto di delegare la salvaguardia del territorio e delle collettività abitanti alla politica e alle istituzioni, cercando di dotarsi di strumenti di analisi, prospettiva e intervento autonomi. Consideriamo questo scritto come un piccolo contributo in tal senso, realizzato da una prospettiva schiettamente e concretamente libertaria. Uno sguardo, quindi, animato da una tensione etica che consideri l’importanza della massima aderenza mezzi/fini e che cerchi di scorgere e costruire percorsi in cui si valorizzino soluzioni che non alienino mai dalle assemblee il potere di comprendere (il) e agire (sul) territorio. Un spirito curioso e capriccioso abita da sempre la storia delle assemblee: a seconda di come gli giri, queste possono essere occasione di incontri inauditi, di meraviglia e reinvenzione della vita (risolvendo problemi concreti e andando ben oltre) o, al contrario, volgere in aridissime imitazioni dei parlamenti con tutto il corollario di palloni gonfiati di retorica e vanagloria. Ma non ci si inganni: l’umore di questo spirito dipende direttamente dall’attenzione che tutti gli individui associati in assemblea donano ai processi e agli argomenti di vita comune che si affrontano. Quindi lunga vita a queste assemblee, che durino e fioriscano al di là del tempo e delle ragioni della cosiddetta emergenza.

Il fuoco e la cornice

Può essere utile, prima di addentrarci sul terreno di come autodeterminare sguardo e azioni contro gli incendi, passare in rassegna le categorie del discorso mediatico che, anche in questo caso, costituiscono nostro malgrado un orizzonte di pensabilità dei fenomeni che rischia di diventare unico. È intanto interessante notare una dinamica: come in altri casi, anche in questo il copione mediatico è in fieri, non è cioè bello, pronto e su misura per essere usato. All’inizio, nella giornata stessa e il giorno immediatamente successivo al “giorno dei roghi” (quando il contatore della protezione civile regionale ne contava cento), tutti i media parlavano degli incendi come conseguenza del cambiamento climatico; una spiegazione passepartout e troppo celeste per potere svolgere la sua funzione ultima: di essere creduta. La macchina della formattazione dei cervelli allora si è mossa in un’altra direzione, quella divenuta immediatamente e mediaticamente vincente perché in grado di coniugare due importanti condizioni di governo del fenomeno-incendi e dei territori interessati: 1. fugare ogni dubbio sul possibile legame tra incendi e fenomeni strutturali- capitalistici e statuali- che interessano l’isola; 2. creare la figura del mostro, incarnazione del folks devil del momento, in grado di stimolare e giustificare un’ulteriore iniezione di politiche repressive.
La figura del piromane assolve queste due funzioni2. Non si possono non notare una dinamica e un canone emotivo-linguistico ricorrenti quando il quarto potere parla di sud e di Sicilia: il silenzio che accompagna l’ordinaria (e quindi giusta!) colonizzazione estrattiva-militare-carceraria deve essere di tanto in tanto squarciato col registro dello stigma e della patologizzazione (individuale e/o collettiva)3.
Col piromane su tutte le prime pagine e nei telegiornali, con una figura esumata dalla psicopatologia clinica, può avvenire la quadratura del cerchio: si dà un’ulteriore stura all’utilizzo dei droni e all’immaginario repressivo, non si discute del sottofinanziamento continuo e crescente che grava sui mezzi per lo spegnimento e sulla prevenzione.
Tornando a quello che ci sta più a cuore, cioè a quello che si muove fuori dalle istituzioni (ci auguriamo con la coscienza e la volontà di una logica diversa da queste ultime), ci pare che la nascita di assemblee così partecipate testimoni di uno scollamento tra abitanti dei territori e il sistema delle menzogne propalate dall’alto, un punto favorevole alla nascita di percorsi di autogestione e di rottura della delega. Le interpretazioni suggerite dall’apparato mediatico non solo non risolvono ma esasperano la sensazione sgradevole di non riuscire a carpire cosa succede ai nostri territori e alla nostra vita: è per questo che la battaglia si gioca tanto sul piano della conoscenza, della teoria dei territori, che di azione, delle pratiche che inverano i desideri di trasformazione.
Infatti nel documento “La nostra casa è in fiamme” citato nella nota 1, si invitano lettori e lettrici a mandare documenti di analisi sui roghi per tentare di capirci meglio. A noi pare che, come per il rapporto mezzi-fini, anche quello tra teoria e azione abbia un significato e delle conseguenze etico- sociali. È intelligente e giusto chiedersi quale soggetto possa esserci dietro una “campagna di incendi” che avviene con una regia precisa e studiata, è bene interrogarsi e adoperarsi per scoprire ciò che ancora non si sa. Quello che dovremmo sapere fin da subito – e comunicare tanto a noi stessi quanto “all’esterno” – è quello che si vorrebbe fare di una tale conoscenza, una volta prodotta. Una volta scoperto qual è il soggetto che mette a fuoco le campagne e le città (un soggetto evidentemente forte, che vive di un coordinamento organizzativo regionale e di una capacità operativa territoriale) cosa ce ne faremmo di una simile conoscenza? Quale sarebbe il suo modo d’uso? Saremmo tentati di scartare per ragioni evidenti (rapporti di forza, attitudine etc) l’ipotesi di uno confronto diretto tra minoranze militanti (tra l’altro varie e di dubbia affinità) e neo-nate assemblee da un lato e questa presunta organizzazione dall’altro. L’unico altro uso che ci viene in mente è il rivolgere una richiesta di aiuto a qualcuno di più forte, ad esempio allo Stato, e alla Magistratura in particolare, per reprimere questo soggetto brutto e cattivo così difendendo la cittadinanza linda e buona: un refrain dell’alleanza tra antimafia istituzionale e antimafia sociale, in salsa antincendio insomma. A questo approccio possono essere mosse forti critiche sia etiche che tattiche. Sul piano etico, ci risulta insopportabile l’idea di risolvere qualsivoglia conflitto col ricorso al codice penale e alle mura carcerarie; sempre e anche in questo caso, perché siamo consapevoli di come nel tritacarne della legge ci finirebbero dei poveri cristi, jurnatara del fiammifero, che rischiano la gogna e hanno come guadagno certo, oltre a pochi euro, il disprezzo degli altri (e quindi anche il proprio). Ma non meno importanti sono le considerazioni sul piano tattico (forse il più caro a chi intende solo la lingua dei risultati pratici). Cosa succederebbe se a seguito di questa ricerca/azione sul Soggetto malevolo, ne risultasse che anche in questo caso il legame con uomini delle strutture economiche legali e statuali è tutt’altro che occasionale e che, anzi, la tenuta di quella struttura si regge sulla simbiosi tra legalismo e illegalismo? Non sarebbe la prima volta che questa verità sociale salta all’occhio dell’analisi materialista, ma se quest’occhio è quello del militante di sinistra quest’ultimo sembra indaffarato a dimostrare quanta ragione avesse quell’uomo che diceva che “la Storia è sì maestra ma non ha scolari”.

Transizione energetica a mezzo incendio? Why not?

Nell’avanzare questa ipotesi, non stiamo suggerendo che le altre cause presunte, che sono ampiamente segnalate tanto dai media, quanto dalla letteratura di settore (di naturalisti e botanici) e dalla vox populi, non siano plausibilmente parti in causa nel problema. Giova forse, per lettori e lettrici non siciliani o meridionali, un rapido elenco di queste figure criminologiche e dei loro supposti moventi: 1. mandriani (soprattutto di bovini) hanno (presumono di avere) l’interesse a bruciare per limitare l’espansione del bosco a scapito del pascolo; 2. cercatori/raccoglitori/venditori di asparagi selvatici: per quanto a noi risulti ridicola la citazione di questa figura, essa viene citata anche in letteratura – il fuoco garantisce alle prime piogge una germinazione ricca dei giovani steli edibili della pianta; 3. operai forestali anti-incendio precari userebbero l’incendio come “arma sindacale”: essendo queste figure da assumere con contratti annuali, l’incendio fornisce, nella cornice della loro condizione lavorativa, la giustificazione della loro assunzione. Si nota in questo, una analogia con la figura dell’estorsore mafioso, che l’esercente paga per garantirsi la sicurezza dai suoi atti violenti. Mentre però nel caso del pizzo la relazione è di natura privata, nel caso degli operai forestali è di natura pubblica. Questo folk devil è particolarmente doloroso a sinistra, in quanto denota una continuità culturale mafiosa tra oppressi e oppressori. Il meccanismo del folk devil in questo caso è particolarmente efficace: il discredito non necessita di prove a favore della tesi, è più che sufficiente la mancanza di prove a sfavore di essa e l’equazione operaio forestale- possibile appicciatore è fatta. Quel che è certo è che sono tutt’altro che realistiche le prospettive di stabilizzazione o l’assunzione secondo il modello Perna sperimentato in Calabria (basato sulla premialità, assunzioni confermate in assenza di incendi): evidentemente lo spaventapasseri è utile perché non parla e ci si possono lanciare pietre sopra a piacimento. 4. Un’altra ipotesi è quella dell’organizzazione degli incendi sostenuta dalla lobby delle società e dei piloti di canadair ed elicotteri. Il fondamento di fatto di questa tesi è la sparizione delle flotte aeree pubbliche seguita all’accorpamento della Guardia Forestale all’arma dei Carabinieri (tutti gli elicotteri antincendio sono andati all’Arma e nessuno ai Vigili del Fuoco… chissà perché!), e la privatizzazione del servizio canadair (con il divieto per le giunte regionali di dotarsi di mezzi con le proprie finanze). Entrambe queste mosse sono state realizzate dal governo Renzi e hanno fatto schizzare il costo degli interventi aerei per la Regione Sicilia a 15 mln di € all’anno4: una cifra che basterebbe per comprare diversi mezzi ogni anno.
Alle quattro ipotesi causali ampiamente divulgate se ne possono aggiungere altre: l’incendio come pratica agronomica che “sfugge” (dalla bruciatura delle stoppe dopo la mietitura del grano al contenimento di biotipi della macchia mediterranea particolarmente invasivi); l’incendio come pratica “tipica” usata nelle faide tra vicini (nelle culture patriarcali/proprietarie, il danneggiamento della proprietà è una sorta di pratica vodoo contro il proprietario…fatta da altri patriarco-proprietari).
Non siamo ricercatori (semmai più spesso ricercati) e quindi non possiamo dire nulla di definitivo – come non può dirlo nessuno, anche se siede alla destra del santo padre Stato – su quale sia l’intricata rete di interessi che si muove dietro la realizzazione degli incendi; siamo però degli abitanti di questi territori devastati e non siamo sprovveduti. Innanzitutto, tanto la “scala geografica” degli incendi degli ultimi anni quanto la loro dinamica sono difficili da attribuire a una qualsiasi (a una soltanto) delle categorie elencate sopra, anche se questo non toglie che alcune convergenze di interessi possano localmente crearsi e gettare le condizioni per una messa in pratica. In secondo luogo perché dietro l’attribuzione della colpa ai vaccari, agli asparaciari, ai contadini o agli operai, c’è un’operazione di colpevolizzazione etnica e di classe neanche troppo celata. Essa olia e mette in moto il meccanismo di auto-razzializzazione che tanto fa mostra di sé sui social: “questa terra bellissima non ce la meritiamo”, “Esercito Italiano salvaci tu!”(da noi stessi, magari sterminandoci), e così via5. Mentre nel caso dei piloti, è come dare la colpa agli alieni: nessuno ne conosce uno.
La ragione più forte è però che non pochi racconti e aneddoti sono giunte alle nostre orecchie su ambigui personaggi che si recano dai proprietari dei fondi appena incendiati proponendo affitti e accordi vantaggiosi per l’installazione di selve fotovoltaiche e grattacieli eolici. “Tanto, una volta che sono incendiati…”

Non possiamo esserne certi ma un sospetto sulla reale natura dello Stato dovrebbe venire a chi cova una sincera sensibilità anticapitalista. Il rischio altrimenti potrebbe essere quello di rivolgersi, per risolvere il problema incendi, allo stesso soggetto che gestendo il PNRR e stanziando i miliardi di euro per la colonizzazione energetica green, ne è origine e cagione in ultima istanza.
Fantascienza? Psicopolitica? Forse… o forse è giunto il momento, a queste latitudini e non solo, di seppellire il cadavere di Togliatti, la sua eredità, e sputare su entrambi. Sarebbe lo sputo più antincendio della storia.

Ma quale potrebbe essere una cornice nostra – di un “noi” che comprende gli amanti della libertà, gli abitanti e i difensori della vita dei territori, i critici della metastasi del profitto, categorie di umani che in questo frangente si intersecano come non mai?

Pensiamo che la cornice che può dare senso è quella di un’autorganizzazione popolare che non si pensa come un intervallo eccezionale tra un sogno di pace privata e l’altro, che è cosciente del suo potenziale e della sua alterità rispetto ai rapporti di dominio, che ha la capacità creativa di andare avanti nel proprio processo di trasformazione e quindi non smobilita di fronte alla Politica perché vede nei rappresentanti di quest’ultima i nemici più nocivi della riappropriazione della vita. Ma, si dirà, avanti dove? Verso la radice dei problemi, e di noi stessi di fronte ai problemi.

Insieme a queste ragioni, è esperienza di chiunque faccia parte di reti antincendio autorganizzate (come chi scrive) che queste funzionano anche e soprattutto rispetto allo scopo immediato.
E allora, piuttosto che risposte facili, ecco qualche domanda difficile. Quali sono le precondizioni dell’autorganizzazione, perché in alcuni posti è più facile e in altri meno, e cosa ci insegna l’osservazione di dove gli incendi hanno colpito più duro sul modo in cui viviamo? Domande verso cui tenteremo risposte parziali nei paragrafi che seguono: non esaustive, né definitive o buone per ogni palato quindi, proprio perché piantate sulla terra dell’esperienza e delle visioni di chi le scrive.

1000 sfumature di nero

Come l’ostrica la perla, così ogni catastrofe tiene in bocca una verità.6

Ci è capitato di attraversare in macchina alcuni dei territori interessati dagli incendi subito dopo le grandi giornate dei fuochi, con ancora davanti agli occhi le immagini dei video del fuoco ripreso dai telefonini delle periferie di Messina e Palermo. Questo sguardo veloce ci ha confermato come ci sia una relazione circolare tra la rappresentazione e il fatto della catastrofe: si può documentare, telefono in mano, la catastrofe proprio perché un’altra, silente quanto letale, si è già compiuta: l’alienazione totale tra umani e l’ambiente sovra-artificializzato in cui vivono, le grandi città. Spiegandoci meglio: riprendere da un secondo o terzo piano di un palazzo che si trova a poche decine di metri dal fronte del fuoco è un fatto per nulla banale. Quanta sovra-socializzazione ci vuole per soffocare l’istinto di darsi da fare (magari non da solo/a) oppure quello che ti dice semplicemente di scappare? Eppure questa condizione passiva non piove certo dal cielo: ha come credo la certezza che qualcuno arriverà per salvarti, mandato dall’amministrazione dell’esistente, e come terreno materiale-esistenziale il deserto di relazioni. Quando non ci si saluta nemmeno col vicino di casa, è più difficile mettersi la vita reciprocamente in mano per salvarsi. Ci sembra questa una spiegazione convincente del fatto che l’ombra nera sia tutta intorno alle città di Palermo e Messina. Darci questa spiegazione non è per noi di nessun conforto, miliardi di esseri umani sulla terra vivono proprio in questa condizione di radicale alienazione che li mette di fatto in pericolo. E allora come si fa a tenere separati il fatto specifico, gli incendi, dalle condizioni socio-esistenziali che rendono quel fatto catastrofico?
Il rovescio positivo della medaglia è che a fare meno (o per nulla) notizia è in questo mondo “tutto ciò che non è inferno”. Non tutti gli incendi di quelle giornate torride sono andati allo stesso modo.
Non è stato così, a quanto ci risulta, in provincia di Siracusa: nella valle di Noto è infatti attivo da anni un coordinamento contro gli incendi che conta centinaia di abitanti che si autorganizzano ogni estate; risultato: è stata la provincia con meno roghi. Anche a Polizzi Generosa, dove abitiamo, le cose sono andate diversamente negli ultimi due anni. Raccontiamo brevemente questa storia, se non altro perché è quella che conosciamo meglio.

Il grande trauma e il suo affrontamento pratico

Non tutte le ferite sono traumi, non tutti i traumi sono destinati a rimanere tali. Nell’estate del 2021, forse la più calda prima di questa, a Polizzi (Madonie) e sulla vallata circostante si sono verificati, in diverse ondate, degli incendi devastanti. Se n’è avuto un primo avviso a fine luglio quando una prima vampata aveva minacciato alcune case in campagna, in una zona che negli ultimi anni si sta ripopolando di abitanti stanziali. È stata l’occasione lì di un primo embrione autorganizzativo, scarsissimo di mezzi e di metodo. Il teatro terribile del fuoco ha raggiunto il suo momento apicale verso la metà di agosto quando, con la complicità dello scirocco fortissimo e di temperature oltre i 45 gradi da settimane, il fuoco appiccato in diversi punti, nella stessa zona di campagna della volta precedente e, questa volta, anche in tre punti attorno al paese sul cucuzzolo, si è trasformato in apocalisse. La gestione e lo spegnimento tanto in campagna quanto in paese sono state, a livello di intervento di terra (esclusi quindi i canadair e gli elicotteri), completamente autodeterminati dagli abitanti, soprattutto giovani e giovanissimi. Se in campagna l’autorganizzazione poteva già contare sull’esperienza pregressa maturata in episodi minori, in paese la paura, la furia e la determinazione popolare hanno dovuto trovare la loro via improvvisando. Qui, infatti, la cecità e idiozia burocratica dei dirigenti delle squadre di pompieri e dei forestali aveva prodotto una situazione di non-intervento da parte degli uomini. Solo la fortissima determinazione di chi “non lo fa per lo stipendio” e la coscienza disseppellita del legame con i propri luoghi ha fatto in modo che si evitasse il peggio: con la forza e le minacce molti ragazzi hanno strappato le manichette e i mezzi di mano agli impiegati, salvando non metaforicamente capre, cavoli e case.
Quelli sono stati gli ultimi incendi devastanti. Cosa è successo poi? Nel caso della campagna si è dato avvio ad un’autorganizzazione più strutturata e progettata; niente di sovra-umano, l’acquisto di un’autopompa (molto costosa per un nucleo, per nulla se si è in 20 nuclei), l’auto-costruzione di diversi flabelli e una serie di discussioni su metodi collettivi di spegnimento e organizzazione logistica: è nato un gruppo di messaggistica per segnalarsi e comunicare sui fuochi e sugli interventi. Nel 2022, abbiamo fatto una dozzina di spegnimenti immediati, con la soddisfazione di vedere la frustrazione delle guardie forestali che giungevano solo per constatare l’inutilità operativa del loro stipendio. Anche questa frustrazione ha avuto un effetto positivo: mezzi e squadre anti-incendio7 dall’estate scorsa presidiano la zona ogni giorno. Questa estate abbiamo fatto soltanto quattro spegnimenti. La stessa cosa è avvenuta anche in paese, senza assemblee, con le reti di vicinato che funzionano da collettori e garantiscono, poggiando sulla quotidianità condivisa degli abitanti, la “presa” sul territorio abitato.
Cosa ci suggerisce questa storia? Che bisogna abbandonare tutti le città per trasferirsi in zone spopolate? Ovviamente no, perché non è certo ribaltando semplicemente le gerarchie di valore di questa società che si aprono nuove vie. C’è però qualcosa, un intreccio di variabili che fa la differenza. Qualcosa di difficile da descrivere, ma che potremmo immaginare come una dialettica tra il katà metron dei greci e la dismisura delle società tecnoindustriali descritta da Günther Anders; una dimensione che ha conseguenze vitali nella lotta tra autodeterminazione (libertà) e eterodirezione (autorità) perché il modo – e lo spirito, gli spiriti – in cui è organizzato l’ambiente in cui viviamo ha conseguenze morali sugli abitanti: dalla percezione al mantenimento della capacità di agire e pensare il mondo, a partire dalla porzione che occupiamo di esso. Per fare un esempio: tra il senso di vita solidale e orizzontale che aleggia nei rioni popolari dei quartieri e dei paesi anticamente abitati – con la possibilità dei bambini di giocare per strada, delle classi povere extralegali di sparire dagli occhi della legge infilandosi ora in un vicolo ora in una casa complice – e l’alienazione ammassata nei ghetti delle città post-industriali coi vialoni a misura di eroina e polizia, c’è un abisso. Un abisso che i rivoluzionari hanno saputo leggere, e su cui sono talvolta intervenuti, inquadrandolo nell’orizzonte della lotta di liberazione8. La questione ora si pone in termini diversi: se i rivoluzionari di ieri potevano immaginare una trasformazione radicale del modo di abitare il mondo a valle del processo di rivoluzionamento (l’autodeterminazione delle forme di vita dopo l’insurrezione) ora lo stesso desiderio esagerato di libertà oltre che la vita stessa rischiano di deperire senza esempi viventi che resistano alla presa totale del mondo e dell’immaginazione. Un panorama sconfinato di questioni si potrebbe aprire, che esulano da questo testo, dato che sono lo sfondo su cui l’immaginazione utopica/rivoluzionaria si esercita e si eserciterà in questi tempi di apocalisse culturale e dominio totalitario.
Più sul concreto però, quale indicazione pratica trarre da queste considerazioni? Se è troppo complicato pensare la misura, i modi e i versi metodologici dell’autorganizzazione in relazione ad una città di 1 milione di abitanti, allora occorre cercare di farlo in un quartiere (magari quello in cui viviamo noi e altri amici, affini, compagni), in una unità geo-antropica più piccola e “abbracciabile”.

Territori contesi

Si tratta insomma di toccare terra. Se è vero che la rivolta è sempre possibile in una fase storica in cui il Sistema, proprio per i suoi piani di dominio, precipita il mondo in un disordine difficile da governare, chi sente il ticchettio della catastrofe non si può accontentare di aspettare l’avvento millenaristico del grande evento risolutore (anche perché se la storia dimostra un’intelligenza, è quella che si ritorce contro i suoi credenti). D’altro canto richiudersi nel recinto delle lotte specifiche, oltre a risultare angusto, taglia fuori il senso diffuso di apocalisse: lo scricchiolio di un mondo che annuncia di crollarci addosso. Si tratta allora di organizzarsi su ambiti concreti, facendo risuonare in essi lo spirito di questo tempo e di quello che di contraddittorio e potenziale vi circola: l’affiorare delle ferite antiche e di quelle nuovissime, l’emergere di una necessità di guarigione che non è disgiunta dalla lotta di liberazione, il lavoro “nuovo” sulle capacità che la cura richiede.
Se c’è qualcosa che lega la “colonizzazione di ieri” agli incendi di oggi, è questo accartocciarsi impaurito della coscienza dei colonizzati, è questo rinnovarsi di paura e ubbidienza.
Le assemblee possono essere allora dei polmoni collettivi in cui respirare l’aria pulita della rivolta, del riscatto e della festa (per curarsi dalla compressione delle molte paure e dei fumi neri), inceppando i meccanismi nemici. Il rifiuto della delega, il ricordare le responsabilità del Sistema per le nostre sciagure, la disponibilità ad affrontare solo questioni alla portata dell’azione diretta o del controllo diretto dei singoli e delle assemblee abitanti, una pratica interna in cui tutti siano sia pensatori che agenti del percorso (rompendo il circuito chiuso e scisso della militanza), incrinare il rapporto di forza tra decisori e condannati (all’evacuazione, all’emigrazione, all’umiliazione) – tutte queste attività insieme potrebbero rappresentare un farmaco collettivo. Anzi, di nuovo con i greci, un pharmakon: medicina per gli oppressi e veleno per gli oppressori.
Un ragionamento va fatto anche sulla questione delle rivendicazioni. Il sotto-finanziamento e la fatiscenza dei mezzi di soccorso e spegnimento sono chiaramente un problema e una spia di come l’organizzazione sociale si stia avvitando in una spirale psicotico/distruttiva (col piccolo problema che anche chi si dichiara suo nemico ne fa parte). Tuttavia quando rivendichiamo più mezzi e più uomini, dovremmo anche serbare qualche idea su come conciliare, o far cozzare, la logica gerarchica attuale delle strutture che li gestirebbero (Guardia Forestale, Vigili del Fuoco) e la logica orizzontale, autogestionaria e anti-autoritaria, delle assemblee territoriali cui vogliamo dare vita.

Tabula rasa elettrificata? Ultimi spunti a mo’ di conclusione.

È inutile negarlo: la situazione in cui versiamo non è delle migliori. Nel momento in cui scriviamo, altri compagni e compagne vengono poste agli arresti per terrorismo per avere diffuso tramite un giornale le loro idee anarchiche, la terra continua a bruciare, i diseredati delle guerre e dei colonialismi partono e molti cadono vittime di quei mattatoi chiamati frontiere, detenuti in sciopero della fame muoiono in un silenzio assordante, mentre tra caserma e scuola le porte non sono mai state così girevoli (a segnalare l’onnipresenza sociale della Guerra). Se i nostri nemici avanzano nei loro piani di morte, terrore e ubbidienza totale, dal nostro lato della barricata la frantumazione e la de-solidarizzazione sono a dei livelli inimmaginabili e, cosa peggiore, l’acuirsi delle piaghe sociali sembra aumentare l’atomizzazione piuttosto che combatterla.
Eppure…
Non tutto è preso in questo vortice, qualcosa resiste, qualcosa in noi resiste, qualcosa che non è solamente “noi”: è l’urlo soffocato delle foreste bruciate e abbattute per il granaio dell’impero (non tramontato coi romani) e le loro navi da guerra, sono i lamenti di chi è partito e di chi è stato deportato o fucilato per avere alzato la testa, è la dignità dei pescatori che pescano i vivi che vengono dalle altre sponde e li aiutano nel silenzio che impone la legge del mare, infischiandone della legge degli stati.
Tutto questo qualcosa “ci chiama” e ci dà forza. Siamo pochi, sbandati dai venti e dalle maree, ma abbiamo piedi ben piantati e sguardi che sanno andare a fondo; sanno vedere come la tabula rasa dei romani che è servita a spezzare le radici di popolazioni bellicose (sanno i militaristi di ogni età che la macchia e il bosco sono amici dei banditi, dei partigiani, delle teste di legno che non si piegano), torna utile anche ora agli estrattivisti dell’energia del sole e del vento. E, lo ribadiamo di passaggio, a unire gli sfruttatori di ieri e di oggi potrebbe esserci anche l’uso del fuoco come mezzo di persuasione coloniale.

Non ci servono le moderne ideologie ecologiche per sapere che la civiltà occidentale prospera sui disastri: quei disastri ce li portiamo addosso, negli sguardi tristi e nel come ci ammaliamo, sono nel dentro dei corpi e degli spiriti. Ma ci portiamo addosso anche la memoria del come sarebbe potuto essere – del come potrebbe essere: nel piacere tutto contadino del convivio e del racconto salace, nella tavola sempre pronta anche per chi non non si aspetta (e non si sa se passerà). Piccoli segni, tracce e codici che i poveri hanno sviluppato per resistere nei secoli e comprensibili solo da chi dei poveri vuole essere compagno/a, ereditando sguardo, storie, memorie; e le lotte, e i sogni e i canti di libertà.
È il momento di fare confluire nel nostro sguardo il senso di due parole che la lingua italiana distingue: radicamento e radicalità. È radicandosi che gli alberi puntano il cielo; è puntando il cielo che fanno ombra agli amanti della libertà; tutta una vita, sontuosa e gratuita, si sviluppa nel sottobosco, accessibile solo a chi cammina con “cuore slegato dall’onnipotenza del visibile”. Difendere questa vita significa difendersi e attaccare chi (e cosa) questa vita la minaccia. E non si confonda il radicamento con la chiusura escludente: perché la vita botanica ci insegna che i semi viaggiano, attraversano mari e continenti, non conoscono frontiere e hanno per amici quei migranti del regno animale che sono gli uccelli. Nella vita non alienata – nella vita tra aria e terra – non ci sono radici senza ali e non ci sono ali senza radici.

Passare al bosco: dietro questa espressione non si nasconde un idillio. Il lettore si prepari piuttosto a un’escursione perigliosa, non solo fuori dai sentieri tracciati (…) Il luogo della libertà è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. Noi a questo luogo abbiamo dato nome di bosco”

Chissà che la libertà non consista invece in un continuo movimento. Nell’avvicendarsi appassionato e imprevisto di conflitto e riparo, di strade e di boschi, di furore e di sospiri, di individuale e collettivo, di azioni e di rielaborazioni, di humus e di luce; e che più che risiedere in un bosco essa corra, imprendibile, nel sentiero scosceso che li collega.

da un luogo tra le montagne di Sicilia, 13/08/2023

2  Si legga a proposito del mostro Piromane, come costruzione mitica tecno-mediaticamente assistita, queste intelligenti note scritte a caldo https://www.antudo.info/piromane-anatomia-mostro-siciliano/

3  Ad esempio, facendo un balzo in un passato recente che non è mai fuori luogo ricordare, qualcosa di simile è avvenuto all’indomani della strage di Stato nelle carceri in seguito alle rivolte di marzo 2020. Si legga qui: https://sciroccomadonie.noblogs.org/files/2020/06/colonmafia.pdf

4 Cfr.https://www.conapo.it/archive/2017/20170704_rassegna_stampa_incendi_cfs.pdf; https://www.lecodelsud.it/sicilia-brucia-costo-canadair-15mila-euro-lora-ecco-chi-ci-guadagna#:~:text=“La%20Regione%20Siciliana%20spende%20mediamente,%27anno%2C%20puliti-puliti.; utile, per una panoramica delle cause, da parte di una voce accademica “autorevole”: http://www.sssn.it/PDF/PDF_45/EDITORIALE_TLaMantia.pdf

5  https://www.monrealepress.it/2023/07/26/gli-incendi-in-sicilia-legambiente-serve-lintervento-dellesercito/

6  Citazione tratta da un volantino attacchinato a Polizzi Generosa un paio di anni fa, in cui si ricorda l’incendio e il coraggioso, autogestito e per nulla eroico, intervento di spegnimento da parte degli abitanti sotto gli occhi passivi delle squadre professionali di soccorso. Erano gli anni della vigile attesa. https://sciroccomadonie.noblogs.org/post/2022/04/24/torri-e-territori-in-tempo-di-catastrofi/

7  In Sicilia si distinguono le Guardie Forestali dalle Squadre di operai forestali antincendio. Le prime sono un corpo armato (anche se qui, come in Sardegna, non ancora accorpato ai Carabinieri) di polizia ambientale/forestale, le seconde sono delle squadre di operai agricoli/forestali assunti annualmente con contratto di lavoro dipendente agricolo a tempo determinato (stagionale) dall’assessorato regionale Agricoltura e Foreste. I mezzi che utilizzano le squadre forestali sono comunque delle Guardie Forestali, un ingarbugliamento organizzativo perfettamente riuscito che rende facilissimo l’ostruzionismo tra strutture di comando con ottimi risultati di propagazione del fuoco.

8“  «Per quanto riguarda le nostre comunità, esse sono irrimediabilmente e sconsolatamente dipendenti, proprio come noi esseri umani, salvo quella piccola parte di persone in costante diminuzione, ancora impegnate in agricoltura, anche se persino loro sono schiavi dei mutui. Tra le nostre città, probabilmente non ne esiste una che resisterebbe una settimana con la propria forza e nessuna riuscirebbe a evitare la più disperata bancarotta se fosse costretta ad autoprodursi il cibo. In risposta a questa condizione e alla correlata politica, l’anarchismo sostiene un’economia della sussistenza, la disintegrazione delle grandi comunità e il riutilizzo della terra». Così scriveva su ‘Mother Earth’ nel 1909, l’americana anarchica Voltarine de Cleyre. Sono parole di sorprendente attualità, che confermano quanto gli spiriti meno incantanti dalle sirene del progressismo avessero còlto con largo anticipo la tendenza del capitalismo a sradicare ogni forma di autonomia materiale della vita individuale e collettivo.” e, passando all’oggi, “(…) Forse mai il federalismo anarchico è stato così necessario e insieme ostacolato da un accentramento di potere – ben più tecnico che politico – che si è incorporato negli ambienti materiali stessi.” Dal numero 11 della rivista anarchica “I giorni e le notti”, La parola e la cosa. A proposito di progetto rivoluzionario, pag. 104