Luci da dietro la scena (XXI) – Come i bambini, ma senza innocenza
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Eravamo tutti come bambini rispetto alla situazione che si era creata, ovvero, a un tratto ci stavamo occupando di una cosa che poteva far saltare in aria il mondo.
John von Neumann
Al massimo dell’incandescenza
«Guardando con il senno di poi a quello che abbiamo fatto, la gente pensa che fossimo tutti dei mostri e dei pazzi, perché come abbiamo potuto portare quei demoni nel mondo? Come abbiamo potuto gingillarci con forze così terribili, forze che potrebbero benissimo spazzarci via dalla faccia della terra o rispedirci in un tempo antecedente alla ragione, un tempo in cui l’unico fuoco che conoscevamo era quello scaturito dai fulmini che divinità irate ci scagliavano addosso mentre noi tremavamo nelle nostre caverne? Un piccolo, sporco segreto di cui quasi tutti noi siamo al corrente, ma di cui raramente si parla, è che ad attrarci, a spingerci a progettare quelle armi non fu il desiderio di potere o di ricchezza, di fama o di gloria, ma il puro entusiasmo per l’aspetto scientifico. A questo non abbiamo saputo resistere. La pressione e la temperatura generate dalla reazione nucleare a catena, quei princìpi fisici così sublimi, il colossale rilascio di energia… tutto era diverso da qualunque altra cosa avessimo conosciuto. L’idrodinamica dell’esplosione e delle onde d’urto, o quella luce sconvolgente che per poco non ci accecò… nessun occhio umano le aveva mai viste prima. Stavamo scoprendo qualcosa che nemmeno Dio aveva creato prima di noi. Perché quelle condizioni non erano mai esistite altrove nell’universo; la fusione è un fenomeno comune nel cuore delle stelle, ma noi avevamo ottenuto la fissione all’interno di una sfera di metallo di appena un metro e mezzo di diametro, dentro la quale si annidava un nocciolo ancora più piccolo di soli sei chili di plutonio. Ancora non riusciamo a credere che ci siamo davvero riusciti. Non si trattava quindi soltanto dell’affannosa corsa per battere i nazisti (e più tardi i russi, e poi i cinesi, e così via fino alla fine del mondo), ma della gioia di pensare l’impensabile e fare l’impossibile, di spingersi oltre ogni limite umano, facendo ardere il dono di Prometeo al massimo dell’incandescenza».
E poi il mondo prende fuoco
«Se noi fisici avevamo già conosciuto il peccato, con la bomba all’idrogeno conoscemmo la dannazione. Nell’autunno del 1952, mentre negli Stati Uniti milioni di bambini innocenti si preparavano per Halloween – col sangue finto che gli colava dai denti da vampiro, le braccia coperte da bende che preservano dal passare del tempo il corpo di una mummia, le manine in fremente attesa di protendersi in avanti per partecipare all’orrore simulato della viglia di Ognisanti, la notte in cui gli spiriti dei morti tornano a vagare fra i viventi –, all’altro capo del mondo, su un’isola nell’atollo Enewetak nell’Oceano Pacifico, Ivy Mike, un mostro reale, il primo prototipo dell’arma più letale nella storia dell’umanità, esplose con una potenza cinquecento volte maggiore di quella delle bombe che avevamo usato in Giappone per massacrare duecentocinquantamila persone. Era un aggeggio orripilante, dall’aspetto diabolico: un gigantesco serbatoio d’acciaio alto quanto una casa di tre piani, pesante settantaquattro tonnellate, e pieno di deuterio – allo stato liquido, raffreddato a meno duecentocinquanta gradi. Quello era il combustibile per l’esplosione termonucleare. Ma quella bomba principale veniva innescata da un’altra bomba. C’era bisogno dei raggi X emessi da un ordigno più piccolo a fissione, simile alla bomba Fat Man che avevamo sganciato su Nagasaki. Quell’ordigno era posato in cima al serbatoio e sporgeva da lì come un’escrescenza tumorale. L’intero meccanismo, coi sistemi di sostegno, i refrigeratori, i sensori, i trasformatori, le tubazioni, i riflettori neutronici in foglia d’oro, i pannelli di piombo, il rivestimento in polietilene, l’uranio grezzo e il trizio e l’innesco al plutonio, era così grosso che sembrava più una fabbrichetta che una bomba. La tenevano in un hangar costruito sull’isola di Elugelab, che fu vaporizzata dall’esplosione. Scomparve completamente, cancellata dalla faccia della terra insieme a ottanta milioni di tonnellate di corallo e rimpiazzata da un cratere profondo come un palazzo di diciassette piani, descritto in uno dei rapporti ufficiali come “abbastanza grande da contenere all’incirca quattordici edifici della grandezza del Pentagano”. Nel primo istante della reazione termonucleare, dal punto zero si propagò un lampo luminoso, la stessa luce che avevo osservato a Trinity [riferimento al Trinity Test, avvenuto il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, nel New Mexico, nel corso del quale si testò la prima bomba atomica, chiamata Gadget, banco di prova dell’intero Progetto Manhattan e inizio vero e proprio dell’èra nucleare]. Consumati veterani che avevano combattutto ed erano rimasti feriti durante la seconda guerra mondiale caddero in ginocchio e si misero a pregare. Intuirono che stava succedendo qualcosa di indicibilmente sbagliato quando videro l’ombra delle proprie ossa attraverso la carne. Anche chi si trovava fra quattro pareti fu quasi accecato dai fasci di luce che riuscirono a penetrare da ogni minimo foro o spiraglio in porte e boccaporti ben chiusi. Il lampo fu seguìto da una tremenda palla di fuoco che comparve all’orizzonte come un sole che sorge. Rapidamente si espanse in un’enorme nuvola a forma di fungo che si sollevò nella stratosfera e continuò a crescere fino a essere cinque volte più alta dell’Everest. Le dimensioni della nube erano incomparabilmente maggiori di quella che avevo visto io nel deserto: osservatori che si trovavano a cinquanta chilometri di distanza dall’isola vaporizzata rabbrividirono quando la nube cominciò a incombere su di loro, sorretta da un gambo largo e torbido fatto di frammenti di corallo, detriti e vapore acqueo. Mentre si espandeva, la palla di fuoco raggiunse una temperatura di oltre cento milioni di gradi, maggiore di quella del Sole. […] Il calore generato dall’eslposione fu così estremo che a molti chilometri di distanza i biologi trovarono uccelli con le penne mezzo bruciate, e pesci a cui mancava la pelle da un lato come se fossero stati buttati in una padella rovente».
La distruzione è già nei calcoli
«E così quei dannati aggeggi presero vita all’interno dei circuiti digitali di un calcolatore [riferimento al calcolatore universale MANIAC concepito alla fine della seconda guerra mondiale da John von Neumann, uno dei maggiori responsabili del Progetto Manhattan] prima di esplodere nel nostro mondo. […] Una grandissima parte del mondo high-tech in cui viviamo oggi, con la conquista dello spazio e gli straordinari progressi nella biologia e nella medicina, si deve alla monomania di un uomo e al bisogno di sviluppare i calcolatori elettronici per appurare se una bomba H potesse o meno essere costruita».
(brani tratti da Benjamín Labatut, MANIAC, Adelphi, Milano, 2023)