Note sul fronte ucraino della guerra globale

Dal numero unico “La tempesta – L’imprevisto palestinese nella guerra globale”:

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Note sul fronte ucraino della guerra globale

Guerra d’attrito, guerra civile e prospettiva disfattista

Quella che si combatte in Ucraina da due anni è la prima guerra “tradizionale” che insanguina l’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Una guerra simmetrica che vede direttamente contrapposti, per la prima volta, la NATO e la Federazione Russa, con un serio rischio di escalation nucleare. Un capitolo centrale di un più ampio scontro tra blocchi di Paesi capitalisti per la spartizione del mondo. In gioco ci sono la supremazia e la ridefinizione dei rapporti di forza all’interno degli equilibri internazionali. Le vicende palestinesi non sono autonome e indifferenti dal contesto di questo braccio di ferro internazionale, sebbene presentino una loro specificità. In questo articolo proveremo a dare uno sguardo al “fronte orientale” di questo conflitto.

Una guerra “interna”

Lo Stato che entra in guerra con un altro Stato deve in primis obbligare la propria popolazione a combattere, cioè a diventare carne da macello. Per questo Simone Weil scriveva che la guerra «costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti». Questo vale per ogni guerra tra Stati e la guerra in Ucraina non fa certo eccezione. A guerra iniziata, i soldati che muoiono vanno sostituiti con altri. Chi si rifiuta viene perseguitato, picchiato, arrestato. Lo Stato combatte nel fronte interno per mezzo di vere e proprie politiche di guerra contro la propria popolazione: siano esse politiche economiche, repressive, ideologiche ovvero di disinformazione, quando non direttamente militari.

Se questo vale in generale, per numerose ragioni specifiche quella in Ucraina appare come una guerra civile delle più cruente, certamente la più pericolosa. In primo luogo, poiché a fronteggiarsi sanguinosamente sono quelle che solo trent’anni fa erano le due principali repubbliche aderenti all’Unione Sovietica. Non solo Kiev ha un ruolo fondamentale e quasi mitologico, sin dall’Alto Medioevo, nell’epopea russa, ma molto più recentemente l’Ucraina ha espresso due presidenti sovietici e ha mantenuto, dopo la Seconda guerra mondiale, una piccola rappresentanza diplomatica indipendente nel tentativo dello stalinismo di moltiplicare i propri seggi alle Nazioni Unite e di modulare aree che fungessero da ponte per le transazioni economico-politiche coi mercati occidentali. Il combinato disposto del crollo dei regimi a Capitalismo di Stato (con la conseguente ondata di anticomunismo generata dal tramonto delle odiose dittature staliniste) e dell’espansione scriteriata della NATO in Europa Orientale (vuoi attraverso il soft power e l’adesione “volontaria”, vuoi a suon di bombe all’uranio impoverito come nell’ex Jugoslavia) ha generato il “capolavoro” geopolitico di una vera e propria balcanizzazione dell’ex URSS, con conseguenze tanto più pericolose giacché in questo caso a essere coinvolta è una superpotenza nucleare.

In secondo luogo, in Ucraina si combatte sin dal 2014 una guerra civile in senso stretto. Gli eventi di Maidan e la conquista di un’egemonia relativa da parte di forze dichiaratamente neonaziste sono all’origine della frantumazione del tessuto sociale ucraino. Ciò si è sviluppato in diverse forme. La Crimea è stata sin da subito occupata dalle forze armate russe, praticamente senza combattimenti. A Odessa le proteste di piazza contro il nuovo regime hanno avuto come risposta l’atroce pogrom anti-operaio dell’incendio della Casa dei Sindacati, da parte di gruppi di neonazisti scortati dalla polizia, e la morte di decine di manifestanti che si erano rifugiati all’interno. Nel Donbass l’insurrezione indipendentista si è protratta per otto anni, trasformandosi in una guerra aperta che ha provocato 14.000 morti. Se tutto questo fa di quella ucraina una guerra fratricida, allora solo la fraternizzazione tra i proletari dei due lati del fronte può porre fine al massacro.

L’industrializzazione della morte e le crepe nel fronte interno

Dopo il primo tentativo di invasione, le forze armate russe hanno presto virato verso l’impostazione di una logorante guerra d’attrito, scegliendo il terreno sul quale ritenevano, probabilmente a ragione, di essere più forti. La guerra in Ucraina è diventata quasi subito una guerra industriale e il confronto, con i massicci piani di aiuti militari da parte del capitalismo occidentale al governo di Kiev, si è presto spostato su un terreno più generale che contrappone la capacità di produzione bellica da parte dei due blocchi di Paesi capitalisti coinvolti.

Questo ha dato un input significativo alla ricerca scientifica, da sempre strutturalmente interconnessa con l’apparato militare. Geolocalizzazione degli obiettivi, autonomia “intelligente” dei missili in grado di sfuggire ai tentativi di intercettazione o viceversa di “inseguirli” quando si tratta di munizioni della contraerea, utilizzo massiccio dei droni. Ultimamente fonti ucraine hanno espresso la preoccupazione che la Russia stesse cominciando a utilizzare sciami di droni connessi tra loro da reti neurali, in modo da non dover venire pilotati singolarmente da remoto, ma in grado di elaborare strategie collettive per attirare la contraerea, individuarne la fonte e lanciarsi contro di essa, o sganciarsi singolarmente sugli obiettivi a terra quando vengono individuati.

Recentemente, uno studio italiano (a cura di Dario Guarascio della Sapienza, Andrea Coveri dell’Università di Urbino e Claudio Cozza di UniParthenope) ha posto l’accento sul ruolo sempre più interconnesso tra apparato militare e le cosiddette Big Tech. Se la natura leviatanica dell’apparato industriale-militare non è certo una novità, a colpire oggi è l’esiguo numero di soggetti coinvolti in cima alla piramide: un pugno di miliardari tengono in mano i cloud con i dati utilizzati dai servizi di intelligence, possiedono le infrastrutture spaziali che consentono comunicazioni e geolocalizzazioni, hanno le disponibilità economiche per investimenti massicci per la ricerca nella cosiddetta intelligenza artificiale. Questo per quanto riguarda il campo occidentale. Se a ciò aggiungiamo le grandi imprese statali o semi pubbliche dell’high tech e della ricerca militare cinese, o se pensiamo alla struttura peculiare dell’economia russa (con i cosiddetti “oligarchi”), non è una suggestione affermare che ci troviamo di fronte a una situazione che per molti aspetti ricorda quella dell’età classica dell’imperialismo: militarismo, sviluppo industriale e monopoli (a dire il vero con una differenza, oggi, di molti “zeri” nei conti correnti dei monopolisti stessi)1.

In questo contesto, la stessa ricerca scientifica ha dovuto aggiornarsi rispetto alle esigenze tattiche del conflitto. Si sono dimostrati poco efficaci quei ritrovati ad alto tasso tecnologico, ma estremamente costosi. Quello che si gioca in una guerra d’attrito è un braccio di ferro tra tecnologia, economia e industria. Bisogna produrre in quantità maggiore del proprio nemico, con un costo minore, perdere meno di quanto si è in grado di riprodurre e distruggere più di quanto il nemico sia in grado di riprodurre.

Da questo punto di vista, non è mai stata tanto drammatica la considerazione che nel capitalismo gli esseri umani sono una merce, esattamente come le altre merci. Il calcolo sulle capacità di riproduzione delle scorte di umani da mandare al fronte è uno dei campi sui quali si confronta l’attrito tra NATO e Russia in Ucraina. L’espressione “tritacarne”, utilizzata per descrivere le due principali battaglie dell’ultimo anno (Bachmut e Avdiivka) rende terribilmente l’idea. La vita e la morte dei soldati al fronte spesso dipende da un feroce calcolo economico, ovvero se il costo del materiale disponibile per distruggere un certo numero di fanti valga o non valga l’investimento. Questo sconsiglia la concentrazione delle forze e contribuisce alla relativa stabilità del fronte, prorogando la carneficina.

In genere, più aumentano le perdite sul campo, più il sentimento nazionalista lascia spazio al rifiuto di morire, che dai soldati si allarga ai loro famigliari. Renitenza, diserzione, fuga, proteste dei famigliari rendono ancora più coercitivi i mezzi del reclutamento, e sempre meno «abili» gli arruolati. È quello che sta accadendo in Ucraina, dove si moltiplicano gli episodi di diserzione e di scontri nei villaggi per impedire la cattura di un mobilitato da parte della polizia militare.

A inizio dicembre, lo stesso Zelensky ammetteva il fallimento della controffensiva. L’Ucraina è così costretta a trincerarsi su posizioni difensive nell’attesa che Europa e Stati Uniti decidano che è ora di sedersi ai negoziati, con i territori occupati dall’esercito russo. Tra l’autunno e l’inverno gli sforzi sanguinosi e inutili di spostare gli equilibri hanno determinato un peggioramento significativo del morale su entrambi i fronti, con un aumento delle diserzioni e dei rifiuti di combattere2.

In un episodio avvenuto sul lato russo del fronte, 300 soldati sono stati sequestrati per il loro rifiuto di tornare a combattere3. In molte città ucraine, sono continuate e aumentate le proteste delle donne per fare smobilitare i loro figli e mariti, che in molti casi stanno combattendo dall’inizio della guerra con dieci giorni di congedo all’anno.

Tutto questo sta avendo ripercussioni politiche all’interno della classe dirigente ucraina. L’episodio più clamoroso e potenzialmente gravido di conseguenze è stata la sostituzione del carismatico comandante in capo Valery Zaluzhny dopo mesi di polemiche e dissapori tra questi e il presidente Zelensky. Alla base delle divergenze, le scelte strategiche su come proseguire la guerra. Zaluzhny (che non è certo un moderato e si è più volte fotografato in compagnia dei leader di Pravyj Sektor) in talune situazioni specifiche avrebbe preferito ritirare le forze e collocarle su posizioni più difendibili. Contemporaneamente, Zaluzhny ha insistito nella richiesta di una nuova mobilitazione di 500.000 uomini. Le posizioni del generale di scuola sovietica derivano dalla conoscenza tecnica sul come dovrebbe essere condotta una guerra d’attrito, cercando, da un lato, di non sprecare tutto il materiale in battaglie perse (compreso il materiale in carne umana), e dall’altro acquisirne di nuovo. Lo scacco nel quale si trova Zelensky al contrario è tutto politico, temendo le conseguenze sociali di una nuova mobilitazione e al contempo non osando annunciare ritirate alla propria opinione pubblica e soprattutto ai sostenitori internazionali.

È invece passata una proposta di legge che prevede, tra le altre cose, il reclutamento di cittadini ucraini residenti all’estero (pena l’invalidamento del passaporto) e il reclutamento online (via e-mail, già usato dall’esercito russo), grazie alla recente digitalizzazione dei registri militari. Con questi tentativi, ormai sempre più disperati, di procurarsi carne da cannone, mentre aumentano le pene detentive per i renitenti alla leva e i carcerati vengono mandati a sostituire i minatori impegnati al fronte, la necessità di difendersi dall’occupazione russa lascia il passo per molti ucraini alla necessità di difendersi dal proprio esercito4. In risposta, durante l’autunno si è registrata un’ondata di attacchi a case e macchine di magistrati, uffici di polizia e, su entrambi i lati del fronte, di attacchi incendiari ai centri di reclutamento.

Una guerra globale

Da quando è stato realizzato il cosiddetto “raddoppio” del Canale di Suez, è cominciata ad andare di moda negli ambienti finanziari, diplomatici e militari, la categoria geopolitica di “Mediterraneo allargato”: si intende con essa la regione mondiale costituita dal Mediterraneo e dai mari che con esso confinano direttamente (il Mar Rosso e il Mar Nero), quale unico flusso logistico e finanziario. Dalla Crimea allo Yemen, passando per la Palestina, senza dimenticare la crisi migratoria del nord Africa e quella della rotta balcanica, vediamo che è l’intera area a essere in fiamme. Siamo già in una Grande Guerra. Se si pensa che la sola base cinese all’estero si trova a Gibuti e che il Sudan è uno di quei Paesi africani passati recentemente sotto l’influenza russa, ci rendiamo conto di quale pazzesco attrito di forze attraversa l’area.

La guerra in Ucraina, così come il conflitto in Asia Occidentale (definizione che ci pare decisamente meno eurocentrica del cosiddetto Medio Oriente), sono capitoli, per certi aspetti fronti diversi, di un conflitto globale sempre più acceso, che vede in prospettiva lo scontro diretto tra USA e Cina, e che si colloca nell’orizzonte strategico della lenta perdita di egemonia da parte del capitalismo occidentale, il quale comunque resta per ora largamente predominante.

Non bisogna con ciò trascurare, però, le enormi differenze che pur ci sono tra la situazione ucraina e la questione palestinese. In Ucraina si combatte una guerra fratricida tra due Stati, a Gaza diversamente è in corso un genocidio da parte di una potenza regionale supportata dagli Stati Uniti e i suoi alleati contro la residua popolazione palestinese già decimata da 70 anni di occupazione militare e deportazioni di massa. Lungi dal formarsi una contrapposizione, locale e internazionale, fra forze simmetriche, i palestinesi sono stati abbandonati da tutti i Paesi arabi. Questi ultimi si sono finanche rifiutati di impedire, nella maggior parte dei casi, il sorvolo del proprio spazio aereo o la navigazione del proprio spazio marino ai mezzi occidentali carichi di aiuti militari per Israele. La stessa Russia di Putin ha mantenuto, storicamente, nei confronti di Israele una solida alleanza (anche dettata dal fatto che l’ultima generazione di coloni proviene per la gran parte da popolazioni ebraiche residenti in Unione Sovietica). Solo di recente questa alleanza è stata incrinata dalle critiche moderate agitate dal governo russo alla politica militare sionista, definita «sproporzionata».

Resta ovunque valido il principio disfattista, per cui la lotta degli sfruttati durante una guerra deve essere indirizzata innanzitutto nei confronti del proprio Stato. Ma se per gli ucraini e i russi questo significa rovesciare i loro rispettivi governi, l’unico Stato che i palestinesi hanno conosciuto durante la loro vita è lo Stato sionista e il suo regime di occupazione militare (o tutt’al più la burocrazia collaborazionista dell’ANP).

La vicenda palestinese è sicuramente inquadrabile all’interno del conflitto mondiale in corso, ma la forma con la quale si presenta è quella dell’imprevisto. La stessa solidarietà internazionale che si è sviluppata e gli importanti episodi di lotta di classe che molti lavoratori del mondo hanno messo in campo contro il genocidio (il blocco dei porti, gli scioperi internazionali di solidarietà, le azioni dirette) stanno dando nuova linfa ed energia alla lotta internazionalista contro tutte le guerre.

Disertare la guerra globale inchiodando i nostri governanti alle loro responsabilità

Per quanto ci riguarda, noi continueremo a considerare il “nostro” Stato il nemico principale. Non soltanto per una questione di principio e di coerenza internazionalista: l’Italia è gravemente compromessa nella carneficina mondiale in corso. I nostri governi stanno sostenendo militarmente ed economicamente il regime di Kiev, stanno addestrando i militari ucraini sul territorio italiano, partecipano alla guerra commerciale attraverso una politica delle sanzioni che impoverisce soprattutto i proletari del nostro Paese. Contemporaneamente, il governo italiano è impegnato in un’azione diplomatica di supporto al genocidio dei palestinesi, per molti aspetti in maniera ancora più sfacciata di altri governi occidentali (si vedano i voti di astensione all’ONU). Mentre prosegue il massacro, continua a fornire armi e collaborazione scientifica a Israele. Non manca la collaborazione ideologica, con un sistema di comunicazione monopolizzato dalla propaganda sionista, a partire dalla TV di Stato. Un protagonismo infine premiato col comando militare italiano alla missione navale europea nel Mar Rosso contro gli Huthi.

Porre l’accento sulle responsabilità dello Stato italiano permette inoltre di chiarificare la posizione degli anarchici nei confronti di possibili tentazioni opportuniste di varia provenienza, comprese quelle di una certa opposizione alle guerre della NATO che tende a ridurre le colpe delle classi dirigenti italiane a una mera servitù coloniale nei confronti del cosiddetto «Impero» a stelle e strisce. Il ruolo di leadership militare assegnata a un ammiraglio italiano nella missione Aspides contro gli Huthi conferma al contrario una responsabilità diretta del militarismo tricolore in quella che è una sporca operazione di deterrenza a sostegno del genocidio dei palestinesi e, più in generale, un impegno di primissimo piano lungo la linea di faglia che dal Mar Rosso porta al Mar Nero di cui si è accennato. D’altro canto, da basi militari collocate nel suolo italiano (in particolare da Sigonella) partono gli aerei-spia della NATO che sorvolano la Crimea e forniscono preziose indicazioni per i bombardamenti ucraini.

Tutto questo viene premiato attraverso ricche quote nel bottino coloniale. In tal senso, è semplicemente vergognoso l’accordo stipulato tra l’ENI e il ministero dell’energia e delle infrastrutture israeliano per l’assegnazione di sei licenze finalizzate all’estrazione di gas al largo di Gaza (nella cosiddetta «Zona G», al 62% palestinese secondo i trattati internazionali). Semplicemente, un accordo di rapina. Ciò avviene mentre entrambe le guerre fanno segnare profitti vertiginosi alle industrie italiane delle armi, con la Leonardo che anche nel 2023 segna un +82% di capitalizzazione in Borsa.

Tanto più urgente per noi opporci alla guerra inchiodando le classi dirigenti del nostro Paese alle loro responsabilità. La devono pagare – che non sia un’affermazione retorica.

1. Giovanna Branca, “Due facce della stessa medaglia: Big Tech e industria militare”, intervista a Dario Guarascio, “Il manifesto”, 14 febbraio 2024 (online in https://ilmanifesto.it/due-facce-della-stessa-medaglia-big-tech-e-industria-militare).

2. “‘War, Prison or Disability’: Russian Military Desertions Surge”, “The Moscow Times”, 5 dicembre 2023 (https://www.themoscowtimes.com/2023/12/05/war-prison-or-disability-russian-military-desertions-surge-a83319).

3. Tim Lister, Katharina Krebs e Anastasia Graham-Yooll, “Anger on the front lines and anxiety at home as Russia’s mobilization is mired in problems”, CNN, 17 novembre 2022 (https://edition.cnn.com/2022/11/17/europe/russia-soldiers-desert-battlefield-intl-cmd/index.html).

4. “Strike at a military airfield and other refusals to fight in Russia and Ukraine. Mid-autumn 2023”, riportato in libcom.org, 26 ottobre 2023 (https://libcom.org/article/strike-military-airfield-and-other-refusals-fight-russia-and-ukraine-mid-autumn-2023)