Un test chiamato Gaza – “Dal fronte umano” (III)

Riprediamo da terraeliberta.noblogs.org, il nuovo “Dal fronte umano”, dedicato al laboratorio-Israele, con uno sguardo specifico sulle collaborazioni delle università e delle fondazioni tecno-scientifiche trentine con il sistema israeliano. Ciò che si sperimenta contro la popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) peserà a fondo sulle nostre vite. In tutti i sensi.

Un test chiamato Gaza – Dal fronte umano (III)

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Il vasto movimento internazionale contro il genocidio di Gaza e in solidarietà con gli oppressi palestinesi, benché ancora insufficiente a porre fine al massacro in corso, contiene diversi aspetti positivi e alcuni caratteri in parte inediti. Il primo è senz’altro il protagonismo di immigrate e immigrati, per i quali oggi «Gaza è il cuore del mondo» e la Palestina «la patria di tutti gli sfruttati», mentre le complicità occidentali con la pulizia etnica condotta dallo Stato di Israele rappresentano qualcosa di incancellabile e senza ritorno. Da questo deriva la consapevolezza di doversi fare carico direttamente di spezzare le collaborazioni ideologiche, economiche, tecnologiche e militari con il colonialismo israeliano. Ecco allora le tante iniziative di lotta e le azioni contro multinazionali, banche, fabbriche di armi e logistica di guerra: dai blocchi ferroviari a quelli dei porti, dai picchetti fuori dalle aziende belliche alle incursioni o sabotaggi contro Amazon, McDonald’s, Carrefour, H&M, Axa Assurances. Ancora più inedita è la messa in discussione della neutralità della ricerca accademica e universitaria da parte di studentesse e studenti. La crescente indistinzione tra civile e militare, che trova nel sistema israeliano il proprio paradigma, ha reso sempre più stretti i rapporti tra i laboratori universitari, le varie fondazioni tecno-militari e l’industria bellica. «Fuori la guerra dall’università» è uno slogan che sta accompagnando occupazioni, blocchi della didattica, cortei di denuncia dentro e fuori degli Atenei. Il limite di tali importanti iniziative è la consapevolezza ancora scarsa sul fatto che l’intero apparato tecnologico è ormai una potenza di guerra (agli oppressi, alla natura, alla variabile umana e conflittuale). Un modo per avanziare nella critica teorica e pratica è quello di cogliere quanto ciò che Stati e capitalisti di mezzo mondo forniscono allo Stato d’Israele torni indietro affinato e testato sul campo, pronto all’uso per le città e le campagne smart in costruzione anche alle nostre latitudini.

Il sistema-Israele

Con le sue spese in armamenti oltre il 6 per cento del PIL, e un quinto del bilancio statale dedicato alla Difesa, lo Stato d’Israele – il quale ha un territorio grande come il Lazio – si colloca al sesto posto tra i Paesi esportatori di armi (dopo Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania, e subito prima dell’Italia). Tuttavia, se dalle armi in senso stretto ci si sposta alla tecnologia dual use, il sistema-Israele scala rapidamente le vette di questa macabra classifica, piazzandosi al secondo posto nel commercio internazionale di tecnologie e sistemi informatici, e al primo nell’esportazione di droni. Dai muri elettronici che circondano Gaza e la Cisgiordania ai mezzi a guida autonoma dotati di mitragliatrice che ne pattugliano i perimetri, passando per i velivoli senza pilota nei cieli e la fitta rete di sensori e check-point automatizzati che costellano i territori occupati, il «regime di occupazione digitale» imposto da Israele ai palestinesi dopo il “ritiro” da Gaza del 2005 è insieme una rappresentazione plastica delle conseguenze più estreme dell’informatica e un enorme campo di sperimentazione a cielo aperto, dove vengono testate tecnologie di controllo poi esportate agli eserciti e alle polizie di tutto il mondo. Ne è un esempio l’azienda israeliana Elbit, con sede ad Haifa. Prima produttrice al mondo di droni (tra i quali l’Hermes 450 e l’Hermes 900, utilizzati rispettivamente nelle operazioni Piombo Fuso e Margine Protettivo, anche per i bombardamenti indiscriminati sui palestinesi), Elbit Systems è l’artefice del sistema di sorveglianza integrato SISFRON (composto da satelliti, veicoli corazzati e droni) alle frontiere brasiliane, nonché del sistema di sorveglianza IFT (Integrated Fixed Towers) commissionato dal governo degli Stati Uniti per bloccare gli emigranti sul confine messicano. La sperimentazione permanente di queste tecnologie di morte a pochi chilometri dalle proprie frontiere mobili permette alle aziende del sistema-Israele di esibire in tutto il mondo il loro “marchio di qualità”. Gli ingenti profitti ricavati, a loro volta, ne consentono le vendite a prezzi di favore all’esercito israeliano, comportando al contempo la mobilitazione totale della società israeliana. Così come disumanizzando gli altri si finisce sempre con il disumanizzare se stessi, l’intreccio tra il colono che vive nella sua fortezza panottica e il riservista – che passa dai raid contro i ragazzini palestinesi alla scrivania di una delle infinite start-up tecno-militari – finisce con l’incarcerare i carcerieri.

Se il ministro della Difesa israeliano ha definito i gazawi «animali dalle sembianze umane», e il vicesindaco di Gerusalemme ha aggiunto che «non sono esseri umani e nemmeno animali, sono subumani ed è così che dovrebbero essere trattati», l’informatico transumanista Ray Kurzweil già parecchi anni orsono definiva «scimpanzé del futuro» i riluttanti alla gestione algoritmica delle vite e della società.

Trento-Haifa

Se le vite dei palestinesi sono il corpore vili su cui si esercitano i sistemi d’arma, la loro produzione non sarebbe possibile senza l’apporto delle università di mezzo mondo (da quelle del tronfio e democratico occidente alle loro comprimarie in terre più o meno remote). In prima fila troviamo proprio l’Università degli Studi di Trento e la sua Fondazione Bruno Kessler, che nel 2001 (quando la FBK si chiamava ancora Istituto Trentino di Cultura) hanno fatto da apripista alle collaborazioni tra lo Stato italiano e quello israeliano. Nel 2003, l’allora Istituto Trentino di Cultura stipula una convenzione con il Caesarea Rothschild Institute dell’Università di Haifa proprio nell’ambito dell’informatica e dell’Intelligenza Artificiale. Quanto l’apporto della Fondazione Kessler sia prezioso per il «genocidio incrementale» perpetrato dallo Stato d’Israele, ce lo dicono sia la natura che la levatura dei progetti promossi nell’università trentina: mentre i laboratori di FBK presso il polo scientifico di Povo ospitano uno dei principali centri italiani di Microsoft, presso la Facoltà di Ingegneria e Scienze Informatiche di Mesiano è attivo Eledia Group, un corso di studi in homeland security (sicurezza interna) incentrato particolarmente sulle nanotecnologie e le scienze dei materiali. Già più di dieci anni fa vi si approntavano – ad esempio – applicazioni che consentono di stanare «obiettivi in movimento» al di là dei muri delle case o individuarli in volo, tecnologie in grado di eludere i radar, o ancora i «corporative robotics», mini-robot delle dimensioni di un orecchino utili a spiare ambienti «ostili». Come per chiudere il cerchio, il rettore dell’università trentina Deflorian è membro del gabinetto scientifico di Med.Or, una fondazione di Leonardo (ex-Finmeccanica) dedicata allo sviluppo dei rapporti con le università “mediorientali” (leggi: israeliane).

Mentre scriviamo queste righe, a Trento è ancora attivo (e dovrebbe restarlo fino al 30 aprile 2025) il progetto Precrisis. Si tratta di uno dei tanti progetti di «sicurezza integrata» inseriti nell’Internal Security Fund Police (ISFP) dell’Unione Europea, e raccoglie i frutti delle precedenti sperimentazioni: Marvel (gennaio 2021-dicembre 2023), finanziato con i fondi europei del dispositivo per lo sviluppo tecnolgico Horizon 2020, e Protector (marzo 2021-marzo 2023), una piattaforma digitale dipendente dal medesimo ISFP e concentrata particolarmente sullo spionaggio di comunicazioni e navigazione internet. Si tratta, come accade anche in altre città, dei primi passi in direzione della smart city e della polizia predittiva. Per quasi tre anni Marvel ha spiato «on edge» (sul posto) i cittadini di Trento, con telecamere smart e microfoni piazzati in cinque aree particolarmente frequentate della città (Piazza Dante, Duomo, Piazza Santa Maria, Piazza Fiera e Parcheggio Zuffo), col fine dichiarato di «allenare» sistemi di intelligenza artificiale – il cosiddetto machine learning – ma anche di allertare la Questura in caso di pericolo presunto. Insieme a una ventina di soggetti pubblici e privati (tra i quali cinque polizie europee) e a una collaborazione speciale con la Grecia (il Ministero dello Sviluppo, la Fondazione per la Ricerca e la Tecnologia e l’Istituto per la Tecnologia e l’Informazione ellenici), la triade Marvel-Protector-Precrisis vede come partner il Comune di Trento e la Fondazione Bruno Kessler: il primo come titolare dei dati raccolti, la seconda come «responsabile» del loro «trattamento». In altre parole: il Comune fa cassa vendendo i dati alle imprese tecnologiche; FBK li elabora, fornendo a imprese e Stati i prodotti finiti (come gli algoritmi che avvisano la polizia). Con la sua circolarità tra controllo e profitto, il «colonialismo digitale» del sistema-Israele si avvicina. Nel frattempo, ci giunge una notizia buona a metà: dopo mesi di proteste in città, i microfoni (ma non le telecamere) di Marvel sono stati rimossi.

L’orrore automatizzato

È stato lo stesso esercito israeliano a confermare l’uso dell’intelligenza artificiale per individuare gli obiettivi da bombardare a Gaza. Chiamato Hasbora («Vangelo» in ebraico), si tratta di un «sistema che consente l’uso di strumenti automatici per produrre target a ritmo rapido, che funziona migliorando il materiale di intelligence». Sebbene i dettagli del suo funzionamento siano mantenuti segreti, le informazioni pubblicate sono inequivocabili: il sistema «si ciba dell’enorme quantità di dati contenuti nei database creati negli ultimi anni dall’intelligence israeliana tramite la raccolta dei dati personali e biometrici dei cittadini palestinesi. The Gospel traduce questi dati in obiettivi da attaccare, la decisione è poi dell’Idf». Tra i dati utilizzati, ci sarebbero «le riprese di droni, le chiamate intercettate, il monitoraggio di movimenti e i dati di sorveglianza». «Una macchina che produce grandi quantità di dati in modo più efficace di qualsiasi essere umano e li traduce in obiettivi di attacco»: così lo descrive l’ex comandante dell’esercito israeliano Aviv Kochavi, che riferisce come «in passato producevamo 50 target a Gaza in un anno. Ora questa macchina produce 100 bersagli al giorno, di cui il 50% viene attaccato». Da quanto riportano fonti militari – riprese dal “Corriere della Sera”, ad ognuno di questi bersagli un algoritmo assegnerebbe anche un «punteggio di danno collaterale», cioè di probabili vittime civili – che serve a tutt’altro che a limitarle, visto il crescente numero di civili uccisi, il che ha fatto guadagnare a Hasbora la definizione di «fabbrica di omicidi di massa». E a quanto racconta un soldato che ha lavorato nella divisione che si occupa di individuare i bersagli, «è davvero come una fabbrica. Lavoriamo rapidamente e non c’è tempo per approfondire l’obiettivo. Veniamo giudicati in base a quanti target riusciamo a generare».

Ormai da anni, nella cosiddetta guerra al terrore, per individuare gli obiettivi delle esecuzioni “chirurgiche” – con abbondante contorno di danni collaterali – portate a termine dai loro droni, gli Stati Uniti utilizzano sistemi automatici, noti come analisi dei pattern di vita, che consistono nell’elabaorazione delle immagini e degli altri dati per rilevare qualsiasi comportamento che si distingua dalla trama delle attività abituali in un dato territorio, considerato una potenziale minaccia. Sistemi che – insieme ai «robot capaci di esercitare la forza letale senza controllo o intervento umano» – comportano tra l’altro, come nota Grégoire Chamayou in Teoria del drone, una smisurata «centralizzazione del comando», poiché impostare i parametri del software equivale a «decidere in una sola volta dello svolgimento di un’indefinita miriade di azioni future», firmando «una condanna a morte replicabile all’infinito». Anche dal punto di vista psicologico, negli effetti sulla popolazione palestinese risuonano le testimonianze degli abitanti del Pakistan nord-occidentale («Tutti hanno continuamente paura. Quando ci riuniamo per fare una riunione abbiamo sempre paura di essere colpiti. Quando si sente un drone girare in cielo, tutti sanno che può colpire. Abbiamo sempre paura, come un chiodo fisso»). La differenza è che in Palestina queste tecnologie vengono utilizzate per la liquidazione pianificata dell’intera popolazione di un territorio occupato.

Se di fronte ai nostri occhi si spalanca l’orrore della vera e propria automazione dell’omicidio di massa, sulla popolazione palestinese vengono da sempre sperimentati tutti i dispositivi di controllo e disciplinamento degli esclusi, a partire dalla stessa pianificazione urbanistica: dalla rete di autostrade che fungono allo stesso tempo da connessioni sicure e veloci per i coloni e da barriere per gli abitanti dei villaggi palestinesi, al sistema di varchi permeabili in modo differenziato per diverse categorie di persone – e in diversi momenti, secondo una logica di bastone e carota. La fortezza-Israele e il suo modello di gestione dell’umanità eccedente vengono già replicati nelle città e lungo le frontiere degli Stati occidentali. La digitalizzazione – oltre a nascondere in sé la dualità propria di tutte le tecnologie nella sua forma più pura: gli stessi dati raccolti per fare profitti sulle nostre attività online addestrano anche i sistemi che servono a bombardare gli abitanti di Gaza, e viceversa – non fa che rendere questo modello di organizzazione del territorio e di controllo dei movimenti – esportato in tutto il resto del mondo – sempre più pervasivo, automatizzato e facilmente modulabile, sulla base sia delle linee di razza e di classe, sia dell’adesione o meno dei singoli individui agli schemi di comportamento suggeriti.

«Una positiva bomba atomica»

«Stiamo lanciando la Nakba 2023». Così tuona il ministro dell’agricoltura israeliano, ex capo del Shin Bet, Avi Dichter. Il massacro in corso a Gaza è accompagnato da parole e fatti che non lasciano nulla all’immaginazione, nemmeno sulla “soluzione finale” riservata ai palestinesi. Non si tratta “solo” di una guerra guerreggiata, quella che lo Stato d’Israele sta portando avanti, ma di un vero e proprio terricidio, un attacco pianificato e dichiarato a qualsiasi forma di riproduzione del vivente.

Un apparato di siffatta violenza ha bisogno però anche di un processo di normalizzazione per potersi sostenere. I settori in campo “civile” come l’agricoltura 4.0, le biotecnologie agrarie e il cibo sintetico attirano molti investimenti e contribuiscono a far emergere a livello internazionale Israele non solo come una potenza militare-sicuritaria.

Lo sviluppo in questi campi si afferma da un lato con l’esclusione dei palestinesi (infatti la maggior parte dei prodotti agricoli esportati con l’etichetta made in Israel proviene dalle terre sottratte ai palestinesi) e dall’altro con la costruzione di un mondo nuovo che prevede il controllo e la gestione industriale del cibo del futuro.

Le tecnologie agricole vanno inoltre considerate nel contesto dell’occupazione israeliana, dove acquisiscono un carattere politico oppressivo e rafforzano le strutture di repressione e di accaparramento delle terre nella Cisgiordania e nel Golan siriano in supporto agli insediamenti.

La potenza tecnologica dello Stato israeliano è anche determinata dalla condizione di cavie umane imposta ai palestinesi all’interno di un enorme laboratorio a cielo aperto. Qui non vengono solo testate in combattimento le tecnologie di guerra, ma anche provati e implementati i prodotti ad uso “civile”. L’uso duale delle tecnologie non è mai stato così evidente: in Israele, infatti, lo sviluppo di innovazioni che dal militare passano anche nella sfera civile diventa un motivo di vanto. Di fatto se si osservano le più avanzate tecnologie israeliane risulta impossibile separarne gli usi. Perché è proprio dalla condizione di eterno conflitto e quindi dall’esperienza maturata che si sviluppano le capacità di Israele. Come riporta l’organizzazione no-profit Start-Up Nation Central, in prima linea per l’innovazione israeliana, «una combinazione di background agrario, istituzioni agronomiche di livello mondiale e ingegneria meccanica sviluppatasi in seno all’élite dell’esercito israeliano, guida la scena tecnologica agroalimentare di Israele. Alcune delle tecnologie aeree, di elaborazione dati e imaging più avanzate che hanno attirato i maggiori investimenti negli ultimi anni si basano proprio sulla formazione militare degli imprenditori israeliani, che hanno riproposto queste innovazioni applicandole all’agricoltura». Secondo il report di Who profits?, che indaga sull’industria israeliana delloccupazione, le aziende agroalimentari come Israel Chemicals e Netafilm utilizzano le terre occupate per sperimentare i loro prodotti in collaborazione con gli istituti di ricerca. L’irrigazione “intelligente” è un adattamento del sistema d’arma Iron Dome, la mappatura dei campi coltivati è una applicazione testata dai droni militari dell’Israel Aerospace Industries. Elbit Systems, ovvero la più grande azienda privata di armi che a seguito di ogni operazione militare vede aumentare vertiginosamente i propri profitti, ha sviluppato insieme alle principali università israeliane un sistema per monitorare il fenotipo delle piante con una tecnologia implementata nella repressione della popolazione. Vayyar, una start-up che con il suo mini radar 3D promette di rivoluzionare settori come quello dell’automazione in agricoltura, utilizza una tecnologia di derivazione militare. L’Organizzazione per la Ricerca Agricola (ARO), l’Università Ebraica di Gerusalemme, il Technion di Haifa e molti altri sono direttamente coinvolti in ricerche effettuate nei territori occupati. Vi sono poi dei fondi del Ministero della Scienza e della Tecnologia destinati ai centri di ricerca israeliani situati nelle terre palestinesi perché esclusi dai finanziamenti internazionali a causa della loro collocazione in territori occupati. L’intreccio tra la ricerca delle principali università israeliane, veri e propri centri di pianificazione culturale, scientifica e tecnologica dell’oppressione, istituti di ricerca privati e numerosissime start-up permette ad Israele di essere all’avanguardia sul mercato. È quindi dallo stato di guerra permanente che si sviluppa il know-how necessario all’industria agritech, e lo sviluppo in campo civile è un modo per ripulire le mani sporche di sangue del settore tecnologico.

Tutto ciò mentre, come afferma l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, dal 2007 nella striscia di Gaza Israele ha vietato l’importazione di materiale considerato dual use (civile e militare). Con questo pretesto ai palestinesi viene impedito addirittura l’accesso ai materiali per costruirsi le case come il cemento e il ferro.

Il modello Israeliano si sta globalizzando e con esso tutte quelle tecnologie che incorporano di fatto anche i rapporti tra oppressore ed oppresso, lo sradicamento dei palestinesi e l’affermarsi di un Apparato che si sostituisce all’umano.

Israele si avvale di numerose collaborazioni e finanziamenti europei. L’Italia è uno dei suoi principali partner, a tal punto che l’ex ambasciatore israeliano Dror Eydar ha definito l’alleanza tra i due Paesi come «una positiva bomba atomica». L’agritech in particolare risulta essere il settore più promettente nelle politiche di interscambio tra lo Stato italiano e Israele. Le ricerche svolte dalla Fondazione Bruno Kessler (già partner con Israele per altri progetti) nel campo dell’«agricoltura di domani» riguardano vari progetti: AgrifoodTef, AgriDataSpace, Sapience, Irritre e diversi altri in collaborazione con la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Trento). L’uso e l’implementazione dell’intelligenza artificiale, la robotica, l’Internet delle cose non puntano alla sostenibilità ambientale, come viene platealmente dichiarato, ma ad un’agricoltura sempre più legata all’industria e a una frattura sempre più radicale tra produzione di cibo e possibilità di accesso ai mezzi per ottenerlo.

Spezzare le collaborazioni con il sistema genocidario israeliano, dunque, non è solo una forma di solidarietà concreta al popolo-classe palestinese, ma anche un sussulto in difesa della nostra stessa umanità.

Mangiare un cibo che venga dalla terra e non dai laboratori; restare variabili umane e non algoritmi bio-chimici – ecco due modeste pretese che il tecnototalitarismo sta rendendo rivoluzionarie.

Rovereto, dicembre 2023

Collettivo Terra e Libertà

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