Il nostro Leopardi

Riprendiamo dalla rivista anarchica «i giorni e le notti» (n.12, gennaio 2021) questo piccolo saggio su Leopardi, «nostro contemporaneo». Sottratto all’accademia e alla noia scolastica, quello leopardiano si rilvela un pensiero di rara potenza, uno degli ultimi a tenere insieme etica individuale, critica sociale e visione del cosmo, nonché tra i più lucidi nel cogliere i caratteri fondamentali della modernità capitalistica.

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Il nostro Leopardi

Il nostro Leopardi

Leopardi? Quello che ci hanno fatto studiare a scuola? Quello dell’Infinito e del Sabato del villaggio? Quello del “pessimismo storico” e del “pessimismo cosmico”? E cosa c’entra con la critica rivoluzionaria?

Sì, all’anagrafe è la stessa persona, nata a Recanati nel 1798 e morta a Napoli nel 1837, ma il suo pensiero – al di là della noia scolastica, sotto e dietro la sterminata bibliografia con cui è stato smontato e rimontato secondo le tante mode storiche che segnano il rapporto fra critica letteraria, politica e costumi culturali – resta un purissimo cristallo, che fa del suo autore un combattente, nostro contemporaneo.

È davvero arduo scriverne, sia per le tante volte in cui a lui sono tornato nel corso degli anni, sia perché le sue riflessioni in poesia e in prosa rappresentano un vero e proprio labirinto. Basta prendere quello «smisurato scartafaccio» che è lo Zibaldone di pensieri, una sorta di diario intellettuale e filosofico che Leopardi ha steso per migliaia di pagine fra il 1817 e il 1832, e che contiene, come “fondale”, innumerevoli libri possibili: sulla civiltà, sulla lingua, sulla poesia, sul corpo, sulle passioni, sul piacere, sul dolore, sulla natura, sulle illusioni, sulla metafisica, sulla morale, sui tempi antichi e moderni, sulla ragione, sulla fanciullezza, sul ricordo, sul lavoro, sulla moneta, sulla materia, sullo spirito, sull’amore, sulla morte. Tra i numerosi libri che Leopardi aveva pensato e sognato di trarne, con tanto di titoli, schemi e indici, uno avrebbe dovuto chiamarsi Enciclopedia o Dizionario delle cose inutili (non a caso, come vedremo, dal momento che la tirannia dell’“utile” rappresentava ai suoi occhi il massimo concentrato della corruzione: storica, sociale, umana, poetica, linguistica…). Tranne per i centoundici Pensieri, selezionati e levigati nel 1832, e usciti postumi, quel materiale è rimasto a metà fra il sistema e la raccolta di frammenti; un vasto “magazzino” a cui attingere per un saggio, un idillio o un’operetta morale. Il corpo a corpo con quel “caos scritto” ha segnato la sua vita. Corpo a corpo nel senso autentico dell’espressione: il suo autore ha dovuto combattere con periodi di quasi cecità, con i debiti, con gli editori, con la censura, ma, soprattutto, con l’esigenza altissima di conciliare contenuto filosofico e forma poetica, temi circoscritti e trama fittissima delle loro corrispondenze possibili.

«Sono questi intrepidi esperimenti con l’esplosivo “mondo” che rendono i Pensieri così avvincenti. Sono un oracolo manuale, una arte di prudenza per i ribelli». Quello che Walter Benjamin affermò a proposito dei Pensieri (Ombre corte. Scritti 1928-1929), vale per tutta l’opera leopardiana. Ecco, per addentrarsi in quegli «intrepidi esperimenti», bisogna prima perdersi e poi far proprio il consiglio che il suo autore dava a se stesso: partire da problemi circoscritti, cioè afferrare un filo d’Arianna, una stella polare oppure, più leopardianamente, una luna.

Le note che seguono rappresentano un esercizio di gratitudine – per quella che Giorgio Manganelli, parlando delle Operette morali, chiamava «gioia teoretica», «letizia mentale» –, un invito alla lettura di un autore tanto noto quanto sconosciuto, dei frammenti per un’etica materialistica della rivolta e della solidarietà.

Una riparazione

La più precisa e dissonante, proprio perché incurante delle mode, definizione di Leopardi l’ha data nel 1959 Giorgio Colli, nelle sue tre magistrali paginette di introduzione alle Operette morali. Nei sogni della fanciullezza, Leopardi si prefiggeva una vita giocata «alla ventura», in cui realizzare attraverso condotte eroiche quella funzione che poi affiderà alla poesia: impedire, anche solo «per mezz’ora», «di ammettere un pensiero vile, e di fare un’azione indegna». Voleva attingere per tale via la gloria, la sola “immortalità” che il suo materialismo potesse contemplare. Preclusagli quella via dall’infermità del corpo, mitigò la propria infelicità con la pretesa – che i posteri giudicarono eccessiva – di essere insieme poeta e filosofo, prima di rinunciare ad ogni finzione rassicuratrice nel «deserto della vita». E Colli gli riconosce, fondendo vita e pensiero, ciò cui il giovane Leopardi ambiva: la tempra dell’uomo d’azione. «Dire la verità fu la sua azione, e come il dire la verità ha sempre qualcosa di eroico, anche nelle circostanze minime della vita, così massimamente eroica fu la sua vita, appuntata al destino stesso dell’uomo. Mentre precluse a sé l’amabilità, con la sua parola sprezzante e cristallina, agli altri offrì l’occasione di conoscere la vita, gettandoli nel bagno gelato di una ragione sana, perché si scuotessero dal torpore dei narcotici moderni». Proprio perché «è stato anzitutto un uomo grande ed eroico, e talmente fitto con la mente nelle lontananze del passato e dell’avvenire, che il tormento inappagato, l’ansia compressa del suo esistere chiedono a noi una riparazione».

Preti, sotto un nome o sotto un altro

Che il pensiero di Leopardi non contenesse solo “bei versi” da imparare a memoria, la censura lo ha capito meglio di tanti suoi contemporanei. Per questo gli impedì di dar vita, nel 1832, a “Lo Spettatore fiorentino” («giornale non letterario, non filosofico, non politico, non istorico, non di mode, non di arti e mestieri, non d’invenzioni e scoperte, e via discorrendo»; unico nome adatto a definirlo «una parola che significasse quello che in francese si direbbe le flâneur»). Curiosamente, l’elemento sovversivo veniva ravvisato dai poliziotti delle idee nella sua dichiarata inutilità. Leggiamo, infatti, nel Preambolo: «Noi non miriamo nè all’aumento dell’industria, nè al miglioramento degli ordini sociali, nè al perfezionamento dell’uomo […] Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità. E crediamo ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta stampata, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d’essere inutile». Per questo la censura fece interrompere la pubblicazione delle Operette morali nel 1836 (e le inserì nell’Indice dei libri proibiti ancora nel 1850). Per questo, anche dopo la morte del suo autore, la polizia pontificia andava alla ricerca dello Zibaldone, nascosto dall’amico Ranieri, in quanto «empio manoscritto contenente professioni di materialismo e antireligiose». Per questo il pretore di Reggio Calabria comminò una multa di mille ducati a tale Pietro Merlino, barbiere, colpevole di «detenzione di un libro proibito intitolato Canti di Giacomo Leopardi». Come Leopardi stesso scrisse a Luigi De Sinner il 22 dicembre del 1836: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali qui [a Napoli] ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Sotto un nome o sotto un altro, perché ancora più occhiuta censura è stata quella praticata dai preti liberali e progressisti, ai quali la corrosiva critica leopardiana del positivismo e delle sue «superbe fole» era sommamente indigesta.

Colpo d’occhio

Nel maneggiare Leopardi – e maneggiare è verbo quanto mai adatto per un pensiero materialista – si devono evitare due tentazioni: quella del leguleio (come diceva Sergio Solmi), che mette insieme con cura certosina pezzi e materiali per una cartografia completa, o meglio le prove per un dossier, e quella di uscire dall’universo leopardiano con qualche ossificato concetto-chiave. Ancora una volta, prezioso suggerimento può essere quello di applicare al mondo di Leopardi lo sguardo con cui egli ha osservato allo stesso tempo il sistema della natura e se stesso, l’ordine delle cose e il proprio cuore. Senza separare mai il sapere dall’esperienza e senza frazionare quest’ultima con i procedimenti fuorvianti del solo intelletto, il quale finisce con lo «strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e di trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale» (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica). Cosa serve, per andare oltre quell’esattezza che «è buona per le parti, ma non per il tutto» e per non ritrovarsi fra le mani «un sistema falsissimo di parti verissime»? Il materialismo greco di Leopardi risponde: una «forza di colpo d’occhio», un «lampo improvviso». E il colpo d’occhio è possibile quando il nostro lume è portato in alto dall’entusiasmo, che è insieme immaginazione e sentimento. Se esiste una “tessera” che nel mosaico poetico-filosofico leopardiano – con le sue oscillazioni, le sue contraddizioni, le sue stratificazioni – rimane fissamente incastonata, dai primi appunti dello Zibaldone fino alla Ginestra, è la coppia oppositiva ragione-illusione. Se il significato della parola natura si trasforma nel tempo – perché descrive più cose con lo stesso nome e si arricchisce di contrari che non si annullano a vicenda; se la conoscenza del vero distrugge ogni naturale consolazione e lascia alla fine la poesia sola in mezzo al deserto; la funzione delle illusioni non cambia mai, semmai si radicalizza. Alla forza vitale delle illusioni si collegano, come vedremo, i concetti di “mezza filosofia” e di “ultrafilosofia”, concetti fecondissimi per osservare – con un colpo d’occhio – l’azione rivoluzionaria nella storia, nell’oggi, nelle nostre vite.

Situazione-Leopardi (granuli di storia)

L’interpretazione del materialismo leopardiano contiene in nuce la storia di questo Paese. Se la conoscenza del pensiero di Leopardi è stata condizionata da elementi fattuali – come la pubblicazione della sua opera completa –, una sua attenta meditazione ha dovuto superare non pochi pregiudizi. L’esempio più noto è senz’altro il peso giocato dal giudizio di Benedetto Croce, secondo il quale la filosofia di Leopardi – dilettantesca, perché incapace di sistema – inaridisce invece di potenziare la stessa poetica leopardiana, cioè la sua estetica. Il giudizio della critica cambierà grazie al confronto con la poesia (Baudelaire, Rimbaud e Hölderlin soprattutto) e con la filosofia moderna (Schopenhauer e Nietzsche soprattutto), confronto che farà via via saltare distinzioni percepite sempre più come artificiose, e che non può essere separato, a sua volta, dai fasti e poi dal tonfo dell’idealismo razionalista e storicista. Ma interrompiamo subito qui questo discorso. Così come tralasciamo l’influenza di Leopardi nei temi, nelle parole, nello stile e negli stilemi della poesia italiana del Novecento (da Arturo Graf a Ungaretti, da Montale a Saba): si può dire che è esistito in letteratura un leopardismo – più o meno lezioso, più o meno originale – come è esistito un petrarchismo. È un’altra la storia che ci interessa: quella delle lotte (anche se poi completamente altra non è: i gusti culturali dominanti in un’epoca sono sempre i gusti della classe dominante, il cui dominio viene spezzato dal conflitto, che ne sconvolge anche le espressioni culturali). Gli slanci e, più spesso, le amare delusioni prodotti dalle lotte hanno più volta dato vita nella storia – anche al di là dei riferimenti espliciti al pensiero del poeta-filosofo – a una situazione-Leopardi.

In esilio

Si comincia presto, già nel pieno del Risorgimento. Scriveva Marco Monnier: «Con Manzoni in Chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano: – Con Leopardi alla guerra!». I maceratesi che nel 1848 si recavano a Roma per partecipare a quella che sarà l’effimera Repubblica romana fecero sosta a Recanati per leggere versi leopardiani alla sorella di Giacomo, Paolina, e proposero di dare il nome del poeta a un cannone. Non solo perché le canzoni leopardiane all’Italia ne facevano autore prediletto dai repubblicani, ma perché nei circoli e nelle congiure contro la reazione politica si scorgevano già nel suo pensiero i tratti di ciò che sarà chiamato titanismo leopardiano. Di quella pasta, ad esempio, è fatto il materialismo di Pisacane; e la spedizione di Sapri può assurgere a tragico emblema di come la forza delle «sublimi illusioni» possa spingere verso un’azione che la ragione «fredda e geometrica» sconsiglierebbe in ogni modo. Il futuro storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis scriveva che se la sorte avesse prolungato la vita del recanatese «infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto confortatore e combattitore». All’epoca De Sanctis, perseguitato dai Borboni e osteggiato negli ambienti letterari torinesi, viveva a Zurigo anni di melanconico isolamento. In quel contesto – e con una forma che richiama esplicitamente quella dialogica delle Operette morali – scrive il suo Schopenhauer e Leopardi (1859). Un testo importante, perché il materialismo leopardiano viene contrapposto al pessimismo spiritualistico di Schopenhauer. E questo sia per ragioni filosofiche – per il primo il male deriva da una materia eterna dotata di più forze misteriose, per il secondo la materia è apparenza, mentre solo la Volontà è sostanza – sia per motivi squisitamente etico-politici. Se «la vera idea del mondo, colui che la governa, è Campagna» (costui era il capo degli sbirri borbonici), il pessimismo leopardiano è rivoluzionario, quello schopenhaueriano è reazionario (non si sa se De Sanctis fosse al corrente che, durante le sommosse del Quarantotto, Schopenhauer aveva prestato il proprio cannocchiale a un ufficiale prussiano per far fuoco sugli insorti). Concludeva l’esule, con un risoluto colpo d’occhio: «Una filosofia per me è vera o falsa, benedetta o maledetta, secondo che mi accosta o mi discosta da Campagna». Anni dopo, quando era un affermato storico della letteratura, De Sanctis cominciò a distinguere la poesia e il pensiero leopardiani anticipando la lezione crociana. Ormai aveva fatto pace con il mondo: la situazione-Leopardi era finita.

Dall’altra sponda, il rivoluzionario russo, l’esule Aleksandr Herzen – fine scrittore nonché amico di Bakunin – trovava in Leopardi ampia materia per meditare sulla sconfitta dei moti parigini del Quarantotto a cui aveva preso parte. Certo in un cuore come il suo l’idea che l’azione sia possibile solo «in forza di una distrazione e di una dimenticanza» deve aver risuonato a lungo. Herzen racconta nel suo diario (Il passato e i pensieri) che quando, a Londra, lui e Aurelio Saffi nominarono il loro amato Leopardi a casa di Mazzini, quest’ultimo andò su tutte le furie per l’impossibilità di trarre dal pensiero del recanatese alcunché di utile per la causa. Commenta Herzen: «Agli uomini d’azione, agli agitatori, ai sommovitori di masse, risultano incomprensibili queste riflessioni velenose, questi dubbi distruttori. Essi vi vedono soltanto una sterile querimonia, una debole malinconia. Mazzini non poteva sentire Leopardi […], ce l’aveva con lui perché non poteva utilizzarlo per la propaganda». Bisognerà aspettare ancora del tempo perché qualcuno cominci a teorizzare il rapporto stretto fra malinconia e rivoluzione. Comunque, un materialismo che nega Dio e ogni altro essere supremo non è una buona base per costruire una grande Nazione. Su quelle pietre, magari di lava indurita, si possono erigere tutt’al più le barricate di una Comune…

Attraverso gli astri

Bucarle tutte. Si potrebbe sintetizzare in tal modo l’attività insurrezionale del rivoluzionario francese Auguste Blanqui. Sono proprio la tenacia del cospiratore e la sua infruttuosa impazienza – non certo le sue idee apertamente dittatoriali – a suscitare la nostra ammirazione. Assieme ad altri tratti decisamente romantici: la fedeltà giurata per tutta la vita durante l’esecuzione di alcuni carbonari; i guanti neri con cui nascondeva l’anello con due serpenti incrociati che portava al dito, testimone di un amore senza fine. Mentre si svolge la breve epopea della Comune di Parigi, la più storica delle sue occasioni perse, Blanqui si trova rinchiuso nella prigione di Fort du Taureau. Qui, «il seppellito vivo», come verrà chiamato per i suoi decenni passati in carcere, scrive un testo davvero singolare: L’eternità attraverso gli astri, una cosmologia insieme visionaria e meccanicistica in cui si anticipa la dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno. Un uomo che ha dedicato tutta la propria vita alla rivoluzione, si rende conto che quell’affannarsi, visto dagli astri, è poco più di niente: «Ciò che noi chiamiamo il progresso è inchiodato a ogni terra e svanisce con lei. Sempre e dovunque, sulla superficie terrestre, si svolge lo stesso dramma nello stesso scenario, e sullo stesso ristretto palcoscenico si muove un’umanità turbolenta, infatuata della propria grandezza, che crede di essere l’universo e vive nella sua prigione come se fosse un’immensità, e che presto scomparirà insieme con il globo che tanto ha disprezzato, con tutto il peso del suo orgoglio».

Proviamo a mettere a confronto queste amare parole con il finale del leopardiano Cantico del gallo silvestre: «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno nè fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato nè inteso, si dileguerà e perderassi».

Di rado, nella storia, sono state rivolte al narcisismo antropocentrico simile sferzate.

E se ne fecero generi letterari

Chi in una situazione-Leopardi visse tutta la sua breve esistenza, fino a far di se stesso fiamma, è stato Carlo Michelstaedter. Il titanismo leopardiano – guardare senza inganni il male di esistere, ribellarsi senza illusioni di salvezza e senza lamentele – ne attraversa tutta l’opera. Non a caso il terzo capitolo de La persuasione e la rettorica porta in epigrafe alcuni versi tratti dalla Palinodia a Gino Capponi: «Di molti/ Tristi e miseri tutti, un popol fanno/ Lieto e felice». Un’esplicita irrisione del volterriano bene comune e della volontà generale di Rousseau, gli idoli con cui la «società stretta» creata dalla borghesia cercava di ingannare e di sfruttare la «grandissima parte (e la maggiore, perché i più deboli sono sempre i più) de’ suoi individui», come si legge in un appunto dello Zibaldone del 1823. Per il filosofo goriziano, Leopardi faceva parte di una costellazione di sapienti che hanno sempre contrapposto – inascoltati o travisati – la persuasione, cioè il possesso di sé, al cieco attaccamento alla vita, condizione di ogni schiavitù. «Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su quattro sistemi. Lo disse l’Ecclesiaste […], lo proclamò trionfalmente Petrarca, lo ripeté con dolore Leopardi; ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari». Michelstaedter, con occhio fine, seppe distinguere, tra i fumi di inizio Novecento, il titanismo leopardiano dalle mode del decadentismo borghese, definendo «infame» l’etica di D’Annunzio molti anni prima che il poeta-vate si facesse cantore del nazionalismo e dell’imperialismo. (Teniamo a mente l’Ecclesiaste e D’Annunzio, perché li troveremo un poco più avanti). Ad utilizzare in senso nazionalistico la figura leopardiana della siepe era stato in precedenza Giovanni Pascoli. Nelle liriche agresti pascoliane, la siepe non è più soglia tra la finitudine dell’uomo e l’infinito dell’universo, bensì confine: di qui la pace interclassista, di là il nemico rappresentato dalle altre nazioni. Così, dalla giovanile Ode a Passannante Pascoli passerà all’esplicita giustificazione della guerra di Libia con La grande proletaria si è mossa. Di Leopardi rimangono solo i “bei versi”. Ma non basta una grande erudizione a nascondere un “pensiero vile” né a giustificare “un’azione indegna”.

Un noviziato di disperazione eroica

Si può invece dire che una prolungata e drammatica situazione-Leopardi fu rappresentata dal fascismo per gli oppositori intransigenti. D’altronde, quando lo Spirito oggettivo s’incarna nello Stato, cosa contrapporre alla “razionalità” del fatto storico se non la difesa disperata di certi valori? Leggiamo i seguenti brani di un poco più che ventenne Piero Gobetti: «Agli antifascisti che ci espongono i loro programmi di blocchi e realizzazioni possiamo chiedere sorridendo un noviziato di disperazione eroica. Forse il disinteresse sarà il migliore machiavellismo: il solo capace di sconcertare un trasformista e un domatore, di fargli sentire che ci sono dei valori contro i quali la sua abilità non conta» (Commemorazione, in “Rivoluzione liberale”, 30, X, 1923). «Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi [L’Ecclesiaste], non il pessimismo vile e letterario dei cristiani che si potrebbe definire la delusione di un ottimista. Amici miei, la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremo per un certo senso i disperati sacerdoti» (Elogio della ghigliottina, “Rivoluzione liberale”, 34, I, 1922).

Puro titanismo leopardiano. Che sembra aleggiare anche qui: «Sono socialista per un insieme di princìpi, di esperienze, per la convinzione tratta dallo studio dell’evoluzione dell’ambiente in cui vivo; sono socialista per coltura, per reazione, ma anche, lo dico forte perché mi sentano certi assoluti deterministi o incartapecoriti marxisti, per fede e per sentimento» (Carlo Rosselli, “Rivoluzione liberale”, 15, VII, 1924).

Forse non a caso qualche anno dopo sarà alla poetica leopardiana che dedicherà la propria tesi di laurea Aldo Capitini, il quale, riprendendo l’insegnamento michelstadteriano e rovesciando quello di Gentile, contrapporrà la persuasione dell’individuo alla retorica dello Stato. Amico e conterraneo del perugino Capitini era Walter Binni, in seguito uno dei più importanti leopardisti italiani (che proprio alla protesta di Leopardi si affiderà per contrastare quella restaurazione che aveva già cominciato a raggelare le illusioni vitali animate dalla lotta partigiana). Ed è sempre a Leopardi – in particolare al suo radicale antiplatonismo, alla demolizione di ogni assoluto – che farà ricorso Giuseppe Rensi nella sua disperata – e pagata di persona – battaglia contro l’idealismo dominante e contro l’assurda giustificazione filosofica dei mali della storia. Sarà svegliandosi anche grazie a un bagno gelato nell’etica leopardiana che Rensi si opporrà al fascismo regime dopo averne approvato per un breve periodo il movimento (come emerge dalla sua Filosofia dell’autorità del 1920) in quanto male minore rispetto alla sovversione sociale. L’appunto zibaldonico «l’imperio della ragione pura è quello del dispotismo» sembrava scagliato con più di un secolo d’anticipo al cuore della dottrina gentiliana…

Letture progressive e stelle nere

Una delle più durature sciagure prodotte dal fascismo – il che significa: dalle disfatte proletarie di cui il regime mussoliniano è stato insieme causa e risultante – fu lo stalinismo, che in un Paese come l’Italia ha pesato a lungo sulla cultura non meno che sulle lotte. Fu legione quella degli intellettuali passati dall’idealismo al materialismo dialettico, mantenendo intatto il servilismo delle formule (e dei posti di lavoro, e delle prebende). L’ombra di quel servilismo si estese anche a poeti e fini critici (un nome su tutti: Franco Fortini), capaci di passare come se niente fosse dalla sovversione dei versi all’applauso verso i massacratori “socialisti” delle rivolte operaie. C’è stata un’epoca in cui tutto era «progressivo»: la borghesia, la Costituzione, la democrazia… E progressivo divenne anche Leopardi (così s’intitolava un fortunato saggio di Cesare Luporini del 1947). Caduta la pregiudiziale crociana, e venuto alla luce il fondale dello Zibaldone, Leopardi era di nuovo disponibile all’uso politico e alla battaglia culturale. Così il povero Giacomo si vide cucite addosso “due ideologie”: quella della natura benigna e quella della natura matrigna, nella cui dialettica sarebbe avvenuto il suo avvicinamento progressivo alle posizioni dell’illuminismo e della democrazia (in questa luce viene letta soprattutto la Ginestra). Si tratta di una linea interpretativa attraversata da striature e da parziali ripensamenti, non priva di felici intuizioni, che accomuna un Luporini, un Binni, un Timpanaro, un Biral. Una linea non abbastanza togliattiana, secondo i neogramsciani degli anni Settanta: per costoro, se fosse stato un democratico e non un reazionario, Leopardi si sarebbe alleato con i liberali del gruppo di Vieusseux, autentici rappresentanti, all’epoca, della borghesia progressiva… Può sembrare incredibile, a un lettore anche distratto dello Zibaldone, delle Operette morali o della Palinodia, questo dibattito sul progressismo di Leopardi, cioè di un pensatore materialista che rifiuta Dio e il progresso, il razionalismo e la spiritualizzazione, il cristianesimo e il positivismo – e che considera la barbarie come un eccesso di incivilimento. D’altronde anche far credere a milioni di sfruttati che il capitalismo democratico fosse un avamposto verso il socialismo non era certo uno scherzo…

Negli stessi anni, quando ormai a Leopardi non ci si avvicina più per i “bei versi”, avvengono anche dei tentativi controcorrente di leggere il poeta-filosofo sulla scorta di Benjamin e di Adorno (autori comunque in odore, per i consulenti editoriali di stretta osservanza lukácsiana, di irrazionalismo).

Bisognerà aspettare la fine di quel decennio e gli inizi degli anni Ottanta – soprattutto grazie ai lavori di Rigoni, di Cesare Galimberti e di Prete, preceduti in questo da Sergio Solmi – perché si smontasse pezzo per pezzo l’immagine di un Leopardi progressivo. Solo che, strada facendo, nel generale riflusso delle lotte e nel discredito in cui comincia a cadere ogni ipotesi di emancipazione, evapora anche il titanismo leopardiano, e rimane solo il pensoso riflettere sul moderno, sul nulla, sul linguaggio. Ormai, dopo la definitiva riabilitazione di Nietzsche e le letture di sinistra di Heidegger, a criticare il razionalismo e il progresso non si rischia un granché (certo non di essere allontanati dall’insegnamento, come era successo a Giuseppe Rensi). Anzi. «La messa in scena della possibile fine del mondo trasfigura la impotenza politica in una oggettiva insensatezza dell’iniziativa storica. La regressione psichica degli agenti potenziali della trasformazione si manifesta così da un lato come euforia del nichilismo, dall’altra come catarsi, o purificazione drammatica, dei propri oscuri sensi di colpa» (Leonardo Ceppa, Schopenhauer diseducatore, 1983). Insomma, un boccone ghiotto, già abbondantemente masticato, per pessimisti dai palati facili.

Non si può concludere senza citare un’ultima, autentica situazione-Leopardi. Quella di un uomo mite, di uno scrittore che – a differenza del poeta-filosofo, il quale leniva con la finzione del verso quell’infinito dolore che la sua ragione gli mostrava come immedicabile – affidava alle poesie quel senso del nulla che il suo intelletto si rifiutava di accettare. Da quella situazione escono Le stelle nere di Primo Levi, partigiano improvvisato per dignità, deportato, sopravvissuto, chimico, suicida:

Nessuno canti più d’amore o di guerra.

L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto;

le legioni celesti sono un groviglio di mostri,

l’universo ci assedia cieco, violento e strano.

Il sereno è cosparso d’orribili soli morti,

Sedimenti densissimi d’atomi stritolati.

Da loro non emana che disperata gravezza,

Non energia, non messaggi, non particelle, non luce;

La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso,

E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla,

E i cieli si convolgono perpetuamente invano.

Sarà il caso ora di riprendere qualche filo d’Arianna per ritrovare il nostro Leopardi, dove nostro – come spero sia emerso da questi granuli di storia – non ha il significato di un’“appropriazione privatistica”, bensì quello di un dialogo lungo un sottile filo di lava che attraversa le epoche.

L’illuminazione e l’incendio

Nel 1947, scrivevano Horkheimer e Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’illuminismo: «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura».

Quasi centotrent’anni prima, in un pensiero annotato nello Zibaldone, scriveva il giovanissimo Leopardi: «La ragione è un lume: la natura vuole essere illuminata dalla ragione non incendiata».

Per Leopardi questo incendio non è un accidente della storia, bensì il modo stesso di procedere di una ragione «non mescolata» con l’immaginazione e con il sentimento, cioè di una ragione «geometrica». Se, più in generale, per il poeta-filosofo l’«arido vero» allontana gli esseri umani dalle illusioni vitali che la natura distilla – distraendoli dalla loro costitutiva finitudine –, la sua è anche una critica a un metodo conoscitivo, impostosi storicamente, che porta a visioni e conclusioni false. Come Leopardi scriverà anni dopo, siffatta ragione è propriamente «delirante», e questo «a ogni tratto e all’ingrosso», perché essa riesce a provare, «colla più squisita esattezza», «cose falsissime». Una ragione insieme causa e prodotto di «tempi matematici», in cui si vuole «geometrizzare tutta la vita». Un ragione che è essa stessa illusione – ma non illusione naturale, bensì «intellettuale», «fattizia», cioè «barbara» –, quindi «artefice di mitologia», per altro «bruttissima e acerbissima». Il motivo di fondo è che ragione e natura non sono fatte della stessa materia.

Leggiamo questo brano straordinario che fa pensare a un moderno Lucrezio, e che testimonia quanto in Leopardi osservazione della “natura delle cose”, forza poetica e tensione etica siano mirabilmente fuse tra loro:

«Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione nè del sentimento, nè dar loro alcun luogo, ch’è il procedere di molti tedeschi nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla… Si può con certezza affermare che la natura, e vogliam dire l’università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata ad un effetto poetico generale … Nulla di poetico si scorge nelle sue parti, separandole l’una dall’altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne’ suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne’ suoi processi in questo modo disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun’altra forza o agente impiega nelle sue speculazioni, ne’ suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione … Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose … Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla loro efficace invenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle cose…» (Zib., 22 agosto 1823).

Come si può notare, siamo ben lontani dalla romantica contrapposizione fra ragione e sentimento – e condotti dentro quella che è stata opportunamente definita una fisica poetica, in cui ogni cosa «quasi mostrasse di volerci favellare». Per Leopardi, come già per l’atomismo greco, tutto è materia – anche la noia, come vedremo –, ma non tutte le determinazioni della materia sono uguali. (Lo dice esplicitamente: al di là degli atomi, «non troverete mica lo spirito, ma il nulla»). La loro natura o consistenza, tuttavia, non conferma bensì rovescia le abituali gerarchie. Ciò che Leopardi chiama spirituale è proprio l’elemento più vicino ai sensi, al corpo, mentre il più materiale è anche il più astratto, perché strascina la nostra esperienza dalle cose alle idee, cioè dal tutto alle sue parti, calcolabili (e sfruttabili) proprio perché separate e sezionate, come suggerisce con forza l’immagine del coltello anatomico. Vediamo già all’opera, in quel «fornello chimico», le future tecno-scienze.

Ora, per Leopardi, scoprire che «non c’è cosa più spirituale del sentimento, né più materiale della ragione», porta a delle precise conclusioni storiche, etiche, sociali. Vediamone alcune.

La società più corrotta è quella che più ci allontana dal sentimento e più ci avvicina alla ragione. Quest’ultima, insegnando all’uomo il proprio utile – e calcolandolo pure male, separando le parti dal tutto – crea una “società stretta”, in cui l’amor proprio si trasforma in “egoismo” e tutto costringe «all’oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre» (Zib., 16 giugno 1821). Viceversa, l’uguaglianza tra gli uomini – condizione che può mitigare ma non cancellare la loro infelicità – nasce da un sentimento, cioè dal vigore del corpo e dalla forza dell’immaginazione, possibile soltanto in una società “scarsa” e “larga”; essa è fatta, insomma, della stessa materia di cui è fatta la poesia. E infatti gli aggettivi e gli avverbi con cui nei suoi canti Leopardi raffigura il piacere, la rimembranza, l’amore, la dolce dimenticanza di sé sono gli stessi con cui raffigura nelle sue riflessioni le forme dei tempi antichi, della fanciullezza, della «parità scambievole degli individui»: lontano, vago, infinito, smisurato, altissima, profondissima, per sempre, mai più… Formule che «allucinano il limite e aboliscono la soglia». Se la ragione, «facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone», l’utopia leopardiana – non nel senso di cartografia del possibile, ma in quello di fantasia sull’impossibile – è quella di una società che realizza consapevolmente le più sublimi – cioè le più corporee, immaginative e poetiche – illusioni. Ancora una volta, rovesciando le formule della politica moderna, Leopardi sostiene che la società più feroce e più indurita è proprio quella che è insieme più stretta e più sciolta: perché ad entrare in rapporto obbligato non sono esseri umani intieri, ma il loro utile, cioè il calcolato della loro ragione.

Queste riflessioni – nate nella solitudine della “prigione” di Recanati – Leopardi le mette alla prova della storia. Il materialista Giacomo – fuggiasco in casa rispetto alle idee politiche reazionarie del padre Monaldo – dà un giudizio positivo della rivoluzione francese, ma per ragioni diametralmente opposte a quelle accampate dalla borghesia progressista. L’azione eroica e lo scatenarsi dell’entusiasmo sono forze di rigenerazione perché provocano le grandi passioni e le grandi virtù – il coraggio, la capacità di sacrificio, la solidarietà, la magnanimità ecc. –, allontanando gli uomini dalla civiltà e avvicinandoli alla natura. Sembra quasi di ascoltare Bakunin quando parlerà della rivoluzione sociale come scatenamento delle passioni, come “barbarie popolare”… Ma la rivoluzione francese ha contemporaneamente dato inizio a quella «geometrizzazione della vita sociale» che per Leopardi non può che condurre a un nuovo dispotismo. Allo stesso tempo, ha consolidato – istituzionalizzandosi – quella filosofia che per lui è incompatibile con l’azione: «l’intiera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione [anzi, «sarebbe il più piccolo e codardo del mondo»]. In questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna rivoluzione […]. Ma la mezza filosofia è compatibile coll’azione». Se una filosofia ancora «mezza» ha reso possibile la rivoluzione, il successivo “secolo dei lumi” ha “spiritualizzato” il mondo, contribuendo a far decadere i corpi e la forza vitale delle illusioni. Ancora una volta, con un guizzo che spariglia gli schemi, per Leopardi spiritualizzazione e meccanizzazione della vita e della società procedono di pari passo. Se a Dio sostituiamo l’idolo del progresso, avremmo solo rimpiazzato una “follia” con un’altra. È vero, come dicevano i progressivi, che dopo il 1824 Leopardi ha anche elogiato la filosofia e «i lumi straordinari di questo secolo». Ma dell’illuminismo apprezzava e faceva propria soltanto la carica negativa, cioè la capacità di distruggere gli errori precedenti e, soprattutto, le superstizioni religiose, mentre ne attaccava le costruzioni, cioè il suo «forsennato orgoglio» (proprio per la sua distruttività si caratterizza quella che Colli chiamava «ragione sana»). Se una ragione basata sull’utile e sul calcolo si trasforma in «scelleraggine ragionata», in «verissima pazzia», quando essa s’incorpora nelle macchine mette a rischio lo stesso genere umano, facendo splendere l’intera terra «all’insegna di trionfale sventura». Con acuto colpo d’occhio, Leopardi vide le conseguenze già nelle premesse: «in computisteria si decidono le sorti del mondo. […] In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza. […] risulta che oggi in luogo del fare, si debba computare […]; aspettando di fare effettivamente e per conseguenza di vivere, quando saremo morti. Giacché ora una tal vita non si può distinguere dalla morte» (Zib., 1° maggio 1821).

Lavori in corso

Proprio alle macchine e alla meccanizzazione dell’uomo è dedicata una delle più sarcastiche Operette morali, la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (degli scrittori satirici e grotteschi, appunto), nella quale il Nostro riprende e trasfigura pensieri già sviluppati nello Zibaldone. L’Accademia – prefigurazione dei ben reali ma non meno grotteschi comitati tecno-scientifici attuali – «ha tolto a considerare diligentemente le qualità e l’indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo esame si è risoluta di poterlo chiamare l’età delle macchine, non solo perchè gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita»; per cui si può ipotizzare che in futuro «gli uffici e gli usi delle macchine» potranno «comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali». E porre fine così a un millenario inconveniente: «… disperando la maggior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i quali, come si crede, sono assai maggiori e in più numero delle virtù; e tenendosi per certo che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in suo luogo un altro, che di emendarlo», l’Accademia «reputa essere espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio».

«Ho descritto il sottouomo – chi mi seguirà?»

Così si conclude un aforisma di Karl Kraus. Si può dire che Leopardi il “sottouomo” lo abbia descritto davvero. Nel mezzo di un secolo – che è ancora il nostro – di «forsennato orgoglio», egli ha contrapposto all’uomo che fugge la propria finitudine e mortalità, e che «d’eternità s’arroga il vanto» (con le sue «macchine al cielo emulatrici»), l’uomo reale, caduco e mortale, «di povero stato e membra inferme», che sa riconoscersi «senza vergogna» «di forza e di tesor mendico». Un uomo ben diverso e lontano dall’ideale della perfettibilità (religiosa o tecnologica), che non si paragona a un Dio, bensì a un fiore, a una ginestra, «d’afflitte fortune ognor compagna», eppur «contenta dei deserti». Ecco, quella fragile e odorosa ginestra, che rifiuta tanto le promesse di salvezza quanto le suppliche codarde alla «crudel possanza» e al «futur oppressor» (la morte), è la più potente antitesi che si possa immaginare al narcisismo antropocentrico e al mito del superuomo (oggi transgenico). A sottolineare una radicale, abissale differenza fra Leopardi e Nietzsche.

Come noto, il filosofo tedesco ha ammirato a lungo il poeta-filologo di Recanati – che definiva «il più grande prosatore del secolo» – e da lui ha succhiato non poco latte (Vincenzo Cardarelli, esagerando, scriveva che le idee nietzscheane non erano che «poche briciole cadute dalla mensa di Leopardi»). Al di là dei riferimenti espliciti – in varie parti dell’epistolario e nella considerazione Sull’utilità e il danno della storia per la vita (dove Nietzsche non solo riprende l’immagine della greggia libera dall’infelicità perché priva di memoria del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ma sviluppa una riflessione sull’oblio necessario all’azione che è di chiara intonazione leopardiana) – le assonanze sono molteplici e significative. Quello che i critici non hanno però spiegato a fondo è perché l’ammirazione nietzscheana si trasforma prima in esplicita riserva (a partire da Umano, troppo umano) e poi (nei Frammenti postumi 1888-1889) nella più meschina delle vendette: il “pessimismo” di Leopardi come espressione di un malato e di un tarato, di uno di quei deboli che è necessario, per il comandamento dell’amore e per il bene della società (il grosso animale di Platone!), castrare. Dopo aver fatto propri non pochi elementi della critica leopardiana del cristianesimo (in quanto negatore della vita, dispregiatore del corpo, nemico delle grandi passioni e dell’azione), Nietzsche mistifica ad arte il “nichilismo” di Leopardi presentandolo come religioso («il nulla, come fine ultimo, come sommo bene, come Dio»). Non si tratta di un problema filosofico o letterario. È molto di più. Per capirlo non bisogna però farsi incantare da una sirena con un nome ben preciso: moda culturale. Dopo l’uso di Nietzsche da parte dei nazisti – contestato all’epoca da poche e coraggiose eccezioni (come Bataille e Benjamin o, in ambito anarchico, Rudolf Rocker) – è cominciata la Nietzsche-rénaissance, durante la quale si è sottolineata fino alla nausea la natura impolitica del pensiero nietzscheano. Il superuomo è diventato, così, un mito in senso platonico, una figura allegorica. Ora, se riprendere in senso rivoluzionario le critiche del progresso e della civiltà condotte da autori conservatori (o anche reazionari) è un gesto intelligente – soprattutto di fronte a un pensiero stalinizzato che scomunicava ogni dissenso in quanto irrazionalista… – sarebbe poi anche il caso di non mistificare a propria volta nella foga di “riabilitare”: Nietzsche resta comunque quello che tremava d’angoscia alla notizia che Parigi era in mano ai comunardi. Quando riprendeva l’attacco leopardiano al cristianesimo, ad esempio, ne lasciava fuori un pezzo decisivo: il rifiuto del sostegno cristiano al dispotismo. Per il cristianesimo come illusione che spinge gli schiavi a liberarsi, Leopardi aveva parole di elogio, mentre per Nietzsche l’aspetto più destabile di Cristo era proprio quello di aver fondato una religione degli schiavi, cioè di aver santificato la rivolta dei deboli. La differenza è etica, non filosofica. Il “nichilismo” leopardiano non giustifica mai il dolore e l’ingiustizia nel mondo e nella storia (neanche quando, nella finzione poetica, li riconduce direttamente ai disegni di un Dio del male). Nietzsche non si limita a demolire, ma, ahinoi, costruisce; e nel farlo ammette come storicamente necessario ciò che trasvaluta; la sfera di vita al di là del bene e del male, prodiga, artistica, libera dal lavoro, non è per tutti: è solo per i padroni. La selezione di questa nuova stirpe di dominatori non avviene su basi razziali (che bassezza il razzismo!), ma come eccedenza nel processo – che egli vuole accelerare, non interrompere – di meccanizzazione dell’umanità. Così come è indecente e vile liquidare il pensiero leopardiano riconducendolo al corpo dolente e deforme del suo autore, non si può fare il torto a Nietzsche di “spiegare” le sue ultime riflessione come espressioni di una incipiente follia. Usciamo dai labirinti dell’esegesi infinita, e guardiamo la realtà. Il superuomo non è un mito, bensì una tendenza. I brani che seguono rivelano, con impressionante anticipo, la verità sugli attuali progetti transumanisti. Il ruolo che vi avrebbero miliardi di individui è presto detto: quello di sottouomini, di scimpanzé meccanizzati.

«Non appena avremo in mano la gestione assoluta dell’economia della terra, come inevitabilmente accadrà, allora l’umanità potrà trovare il suo senso migliore quale macchina al servizio di questa economia: come un enorme ingranaggio di ruote sempre più fini, sempre più sottilmente “adattate”; come un divenire-superfluo sempre maggiore di tutti gli elementi che dominano e comandano, come una totalità di forze e di valori minimi. Di fronte alla diminuzione e all’adattamento degli esseri umani a un’utilità specializzata, è necessario un movimento inverso, la creazione di un essere umano che sintetizza, totalizza e giustifica, per il quale questa trasformazione dell’umanità in macchina è una condizione preliminare di esistenza, come supporto a partire dal quale egli possa inventare la propria forma superiore di essere.

[…]

Questo sarebbe il compito da porsi, una volta capito in che senso la forma attuale della società si trovi impegnata in una poderosa trasformazione che la condurrà a non poter più esistere per se stessa, ma soltanto come mezzo in possesso di una razza più forte.

La mediocrità crescente dell’essere umano è appunto la forza che ci induce a pensare all’addestramento di una razza più forte, la quale troverebbe il suo eccedente proprio nella sfera in cui la specie mediocre s’indebolisce sempre di più (volontà, responsabilità, potersi-prefiggere-degli-scopi).

[…]

Il livellamento dell’uomo europeo è attualmente il grande processo irreversibile, e si dovrebbe anche accelerarlo.

Da ciò, la necessità di scavare una fossa, di creare una distanza, una gerarchia, e non la necessità di rallentare il processo.

Questa specie livellata, una volta che si sia realizzata, esigerà una giustificazione, che consiste nel servire a una specie sovrana, la quale si fonda su quella che l’ha preceduta e solo così può innalzarsi al proprio compito. Non solo una razza di padroni che si limitano a governare, bensì una razza che abbia la propria sfera di vita, un eccedente di forza per la bellezza, il coraggio, la cultura, le maniere anche in quello che vi è di più spirituale; una razza affermativa che può concedersi qualsiasi lusso … al di là del bene e del male: che formi una serra di piante rare e singolari». (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888).

In quella serra non c’è posto per la ginestra.

Scriveva Leopardi a Pietro Giordani il 9 giugno 1820: «Mi pare che la condizione dei buoni sia migliore di quella de’ cattivi, perché le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente; sì che ristretti alla verità e nudità delle cose, che altro si debbono aspettare se non un tedio infinito ed eterno?».

Dialogo tra la Noia e l’Illusione

Uno dei tratti che rendono uniche le Operette morali è l’intreccio – reso possibile dalla convergenza-divergenza tra contenuto filosofico e forma poetica – di tragedia e di ilarità. Aveva ragione Nietzsche: lo spirito che demolisce ogni idolo ha anche bisogno di crearsi dei folletti – perché lo spirito vuole ridere. Leopardi, acuto filologo e visionario della lingua, sapeva che le parole sono «non la veste, ma il corpo de’ pensieri». Che abbia scelto quel corpo per i suoi pensieri più ultimativi non è casuale. Solo nella finzione si possono far parlare un gallo, la natura, uno gnomo, il sole, un cavallo, oppure risvegliare dalle tombe un Torquato Tasso, un Sallustio o un Plotino. Solo la moltiplicazione delle figure può dire l’irrisolvibile contraddittorietà della vita, del mondo, dei nostri cuori.

Una delle intuizioni più sorprendenti che Leopardi mette in scena è l’alleanza eterna fra la Moda e la Morte – in quanto forme, opposte e solidali, della Caducità. Non è allora un caso che Walter Benjamin anteponesse un’epigrafe leopardiana («Moda: Madama morte! Madama morte!») ai suoi pensieri sulla moda, annotando: «Essa è in conflitto con l’organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al proprio servizio».

Leopardi, come sempre, parte dal corpo. Il dispotismo moderno è ai suoi occhi tirannia dell’utile e spiritualizzazione; per questo la poesia non può essere contemporanea di un secolo «egoista e metafisico». Allora la forma più transitoria e storica dell’alienazione umana può indossare l’aureola di una cattiva eternità. La paccottiglia tecnologia che ci tiene oggi seduti e fissi sugli schermi conferisce al dialogo leopardiano una luce ancora più sinistra.

«MODA. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerevoli che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità il secolo della morte» (Dialogo della Moda e della Morte).

Non meno ilare e percepibile dai sensi è l’indimenticabile definizione della noia che l’atomismo poetico di Leopardi presta a un Torquato Tasso «recluso e demente» (Giorgio Manganelli): «A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia» (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare). Le due forze che si contendono la nostra vita – cioè i nostri corpi, capaci sia di cognizione sia di passione – sono, per il nostro materialista, la Noia e l’Illusione. Un agone che si svolge sotto la luce di una luna ignara e lontana. Davvero, non si sa se piangerne o riderne. Il gesto estremo dell’ultimo Leopardi è dire le lacrime con il riso. Un riso con le lacrime negli occhi è quello della commozione, del ricordo sognante, della disperata speranza: «un crepuscolo, un raggio, un barlume d’allegrezza». Alla fine a vincere, morendo mentre dice l’ultima parola, è l’Illusione.

Un materialista gnostico

Come ha còlto, con il suo sperimentato intuito di critico, Cesare Galimberti (a cui si deve un insuperato commento delle Operette morali), in Leopardi troviamo un radicale e originalissimo rovesciamento del platonismo, cioè di quell’ordine perfetto delle idee eterne sul cui calco sarebbe formato il mondo di quaggiù:

«[il mio sistema] distrugge l’idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto e imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo ch’essi ponno essere diversi e contrari fra loro; laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente buono o cattivo, restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a’ soli relativi, e loro idee» (Zib., 25 settembre 1821).

È il rovesciamento del mondo alla rovescia perseguìto da tutte le utopie egualitarie, che nelle loro espressioni più alte e radicali hanno sempre concepito il potere e la proprietà come forze che corrompono una perfezione che c’è già, e che va riconquistata. Per questo i fratelli del Libero Spirito definivano celeste la comune carnalità. Per questo l’unico di Stirner potrà affermare, scrollandosi di dosso il regno del pensiero e della fede: siamo tutti perfetti. L’antiplatonismo di Leopardi, che moltiplica gli assoluti e li fa coesistere nella loro contrarietà, anticipa anche la nietzscheana riabilitazione delle apparenze, innalzando a unico reale quel mondo dei sensi che lo spiritualismo ha fatto diventare favola.

Ma in Leopardi esiste anche – e si fa sempre più marcata, fino all’incompiuto inno Ad Arimane («Re delle cose, autor del mondo, arcana/ Malvagità») – una vena gnostica. Si tratta, come è stato notato, di una gnosi interamente secolarizzata e del tutto negativa: se mantiene l’idea del male costitutivo del mondo, l’incompatibilità degli spiriti puri con le ingiustizie che i più commettono o assecondano, le vie non razionali della conoscenza, ne rifiuta con fierezza ogni idea di salvezza (per pochi soltanto, oltretutto). Per Leopardi i diversi, gli stranieri nel mondo, in lotta contro la lega dei malvagi, sono «quasi creature d’altra specie». La loro «nobil natura», quella «che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato», quella che parla «con franca lingua/ nulla al ver detraendo», quella che «forte sé mostra nel soffrir» (La ginestra o il fiore del deserto), li rende consapevoli che alla finitudine non c’è scampo, né che dura l’ombra fuggevole del piacere; ma infonde loro anche lo spirito di riconoscere che la giustizia è la sfida più altra contro l’ordine del male. Per realizzarla, allo scopo ben poco altisonante di «compiere nel miglior modo questa fatica della vita», bisogna affidarsi «al senso dell’animo» e non all’intelletto. Quel senso dell’animo che si sveglia solo con l’ebbrezza dell’immaginazione, con il fuoco del sentimento. Anche quando l’ultrafilosofica «quiete altissima» del Cantico del gallo silvestre trasforma in apocalittica assenza dell’uomo quell’infinito nel quale il poeta trovava, anni prima, dolce il naufragare; e a quel cosmico, solido nulla può ormai contrapporre unicamente la propria disperata quiete; anche allora, Leopardi sa che senza quel senso dell’animo, svegliato, sedotto, eccitato, “illuso” dalla forza di un rifiuto, sprofonderebbe in una noia ben peggiore della morte. Con le parole di René Char: «Non è una assalto, quel che noi sosteniamo, è molto di più: una paziente immaginazione in armi ci fa entrare in questo stato di paradossale rifiuto».

A proposito di gnosi secolarizzata – e di un’altra, nascosta, situazione-Leopardi: cos’è la giustizia che, in Smisurata preghiera, Fabrizio De André invoca per i «servi disobbedienti alle leggi del branco»? È «una distrazione», «un’anomalia», «un dovere». Una distrazione di chi? e da cosa? Di che natura è questa entità sovrannaturale a cui il poeta-cantante intona la propria preghiera, se la giustizia può avvenire nel mondo solo se Essa si distrae? Della stessa natura di Arimane, quell’arcana Malvagità che «con diversi nomi il volgo appella Fato, natura o Dio»? Oppure la distrazione che rende possibile la giustizia è tutta umana? In questo caso, da cosa si deve distrarre l’uomo perché essa abbia luogo? Dalla ragione, dalla storia, dal quieto vivere, dalle sue assuefazioni e dai suoi calcoli? È comunque necessario che intervenga qualcosa di diverso, di estraneo, di straniero; la giustizia, insomma, ha il volto dell’anomalia – è una rottura, una macchia, un’infrazione all’ordine delle cose. Una imperfezione, in quel regno del dolore e del male che è ovunque, anche in un bel giardino a primavera («là quella rosa è offesa dal sole … là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape … quell’albero è infestato da un formicaio … questo è ferito nella scorza … intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi, le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi …»). La giustizia è, infine, un dovere. Proprio perché essa non è nell’ordine delle cose, dobbiamo essere giusti.

In uno dei suoi Pensieri Leopardi ci dice che essere “onesti” per paura della legge non è giustizia: è semplicemente codardia. E ci sprona alla solidarietà, per non aggiungere anche gli evitabili mali sociali a quell’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale». «Per lui la realizzazione di ciò che è giusto in questo mondo pessimo non è soltanto qualcosa di eroico, ma richiede costanza e sagacia, scaltrezza e curiosità» (Benjamin).

Arrivato a una tale soglia, il suo disperato titanismo, insieme gnostico e materialistico, non sa che farsene di supereroi. Perché quelli come ha scritto un compagno qualche decennio fa – «non muoiono mai. Noi sì, e comunque».

Fumo e fango

Se è vero che «dall’unghia profetica di Qohélet, tutto Leopardi è segnato» (Guido Ceronetti), sarà forse seguendo quel tipo di saggezza – sfiorata ma non trattenuta dal senso greco della misura – che il poeta-filosofo arriverà fino al deserto. Polvere, fango, fumo… il lessico leopardiano si allontana dagli antichi Greci e si avvicina all’Ecclesiaste. O meglio, si muove ad anello, visto che in anni recenti è stato smascherato un «equivoco millenario» (quando Giovanni Semerano ha dimostrato che l’àpeiron di Anassimandro, da sempre tradotto con “infinito”, “ indeterminato”, “illimitato”, significa invece “polvere” o “fango”…). La desertica cognizione della vanità e nullità di tutte le cose incenerisce anche i giovanili desideri di gloria («Né di un sapiente né di un idiota/ Avrà memoria il tempo/ Pochi giorni e di loro/ Tutto è dimenticanza», dice Qohélet). Ogni speranza è fumo di fumo. Solo si sparge, da questa vertiginosa etica della finitudine, un profumo di ginestra.

Il tempo nelle membra

Se la rottura rivoluzionaria è sia un’esperienza diversa del tempo storico sia l’esperienza di un tempo diverso, il rivoluzionario potrà trovare in Leopardi pensieri, forme e figure di grande potenza. La sua poesia – come ogni poesia autentica – è una continua meditazione sul trascorrere del tempo, su come trattenerlo, densificarlo, sospenderlo, dimenticarlo, ricordarlo. Da quella dimora e carcassa che è il tempo, il materialista Leopardi vuole estrarre l’unico bene che abbia per lui valore: il piacere. Ed è proprio dentro la sua teoria del piacere che vanno collocate le coppie oppositive che ne attraversano l’opera: ragione-natura, uomo-animale, verità-illusione, tempi antichi-tempi moderni, fanciullezza-età adulta, finitudine-infinito, barbarie-civiltà, virtù-assuefazione, società larga-società stretta…. L’esperienza del piacere è ciò che rivela la tragica, insolubile contraddizione umana, gettata tra la natura finita della propria condizione e la natura illimitata del proprio desiderio. Se l’essere umano potesse consistere in una perfetta felicità, cioè in un desiderio che si appaga nella quiete, non ci sarebbe propriamente storia. La storia – con i suoi cicli di nascita, sviluppo e morte delle civiltà – è per lui la prova che il perfetto benessere è impossibile. Il tempo del piacere è dunque costitutivamente paradossale, doppio, stretto tra un non-ancora e un non-più, tra l’attesa e il ricordo, tra la speranza e la nostalgia. Di questo parlano tutti gli idilli leopardiani, se nella donzelletta che vien dalla campagna, nell’artigiano sull’uscio della bottega, negli abitanti del villaggio al sabato o nel di’ di festa, nel passero solitario, nella siepe e nei sovrumani silenzi, nel pastore dell’Asia e nella luna non si cercano “bei versi”, ma si scorgono figure del tempo (subìto, allentato, evaso, trasfigurato). La noia, suprema nemica dell’uomo, sarà allora pura esperienza del tempo, reazione «ragionevolissima, anzi la sola ragionevole» di fronte alla solida nullità della sua presenza. Per il materialista Leopardi la sospensione del tempo – cioè l’estasi – è ciò che porta il corpo in una dimensione diversa. Le virtù degli antichi, l’azione eroica, la brama d’amore, la fanciullezza, le passioni messe in campo dalla rivoluzione francese… sono anch’esse figure dell’estasi. È stato scritto che se «veder le stelle dal punto di vista dello spazio vuoto» è l’esperienza dell’estasi (Elvio Facchinelli, La mente estatica), allora la visione leopardiana ha una componente estatica. Ma non è solo vedendo e quasi toccando la «quiete altissima» dell’infinita materia ch’egli sperimenta, cerca, intravede l’uscita da sé. La propria fanciullezza, gli occhi di Silvia, gli Antichi, gli indiani d’America, il lavoro contadino (e non l’ozio «parassitario» dei proprietari terrieri!), gli uccelli, la tensione poetica sono altrettanti attimi, età, popoli, creature, creazioni, miti di un tempo felice, di un tempo fuori del Tempo (e della civiltà). Si può anzi dire che la vera poesia non è solo visione estatica, ma anche metodo dell’estasi: «Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigore febbrile e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilmente corporale) e quasi di ubriachezza?». Troviamo qui il lessico tipico – direi quasi “tecnico” – dell’esperienza estatica.

Se c’è un verbo leopardiano che esprime sensorialmente il rapporto fra tempo e corpo questo è senz’altro rimembrare. L’esperienza passata – immaginata felice proprio perché vaga e lontana – può farsi presente quando l’immaginazione la riporta nel corpo, nelle membra. Se la ragione parte dall’idea e ci imprigiona nel finito – perché, come abbiamo visto, per analizzare le cose le separa e le rimpicciolisce; l’immaginazione, viceversa, parte dal materiale e dal corporeo e proprio per questo ci regala barlumi d’infinito. Non in un al di là celeste, ma qui, nelle nostre membra.

«La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago» (Zib., 1829). Non diversamente dalla poesia opera – nelle visioni e nel metodo – la rottura rivoluzionaria, che fa rimembrare agli individui resi ebbri dalla libertà i precedenti tentativi egualitari rimasti incompiuti: quelle irrealizzate promesse di felicità che riemergono dal passato grazie alla sospensione del tempo storico, cioè grazie a una forma collettiva di estasi.

«L’uomo di immaginazione in un momento di straordinario vigore scopre molte verità che alla pura e geometrica ragione non bastano secoli per scoprire». Non a caso, allora, le rivoluzioni, rotture storiche che svelano in pochi giorni secoli d’ingiustizia, «sono fatte per tre quarti di immaginazione e per un quarto di realtà» (Bakunin).

Ma chi ha scelto di caratterizzare la propria vita nel senso della lotta, spinto da una costante tensione ideale, vive, anche nei periodi dell’inerzia storica (tutt’uno, oggi, con il rapidissimo roteare dei suoi movimenti), una diversa esperienza del tempo. Anzi, la fedeltà a un ideale può essere solo superficialmente e ingannevolmente confusa con lo spirito di sacrificio, essendo invece tutt’uno con l’attrazione verso una temporalità qualitativamente differente. Il tempo accelerato e quasi sospeso dell’azione, quello più lungo della preparazione, quello rarefatto dell’attesa, quello prolungato del ricordo complice, quello umbratile della nostalgia, quello nero – ma di un nero che nutre – della malinconia, quello vago della speranza, quello amaro della disillusione, quello doloroso del proprio transigere… Una temporalità quasi doppia rispetto alla vita quotidiana, ai suoi momenti più intensi (l’orgasmo, le lacrime, il riso) come a quelle più abituali (il lavoro, le incombenze domestiche, le conversazioni senza coinvolgimento…), perché il rivoluzionario trasfigura la stessa quotidianità sentendosi come diviso dentro il suo svolgersi. Anche l’azione del nemico segna, ovviamente, la sua esperienza del tempo. Il carcere, gli arresti domiciliari, i soggiorni obbligati o vietati, la latitanza, l’esilio, la scarcerazione, il ritorno agiscono sui rapporti, sui sentimenti, sulla parola. Dalla lontananza del recluso, ad esempio, il mondo sembra migliore (proprio perché più vago e indeterminato), più preziosi ancora i propri compagni e i propri affetti, più intense le parole che scrive o legge – la cui magia consiste proprio nella loro capacità di nominare un’assenza… Per il rivoluzionario, la stessa rimembranza del passato è intensificata da una comune appartenenza: egli dialoga con i ribelli morti, ne rievoca le opere e i giorni, chiede consigli, coglie suggerimenti, si fa forza nei momenti difficili, popola la sua solitudine. Per questo, come aveva capito Benjamin, verso il futuro procede quasi di spalle, impegnato com’è a risvegliare la speranza delle rivolte di ieri. Vive, insomma, di illuminazioni profane. D’altronde, «all’uomo immaginoso […] il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi» (Zib.).

Dopo l’incendio

L’impasse in cui si trovava, per Leopardi, la filosofia nella sua epoca si è fatta oggi, per ogni teoria critica, ancora più profonda.

Per Leopardi il pensiero illuministico avrebbe dovuto far cadere gli «errori barbari» senza prosciugare le «illusioni naturali dell’anima». Invece, la forza corruttrice della civiltà e della sua ragione geometrica ha creato una condizione tale di assuefazione che la filosofia, se non vuole assecondare le moderne «superbe fole», deve «rimediare a se stessa». Dal suo apparato strumentale non si torna più indietro («se non per un miracolo»). Ecco perché «la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose ci ravvicini alla natura»; di un modo della conoscenza, cioè, superiore alla ragione, che tenga assieme la verità analitica delle parti con la verità poetica del tutto, l’«arido vero» con il sentimento e l’immaginazione. Non è una banale spartizione dei compiti – alla filosofia il contenuto, alla poesia la forma –, ma una nuova corrispondenza basata sulla consapevolezza che per conoscere la natura bisogna sentirla e non estraniarsi da essa. Leopardi è forse l’ultimo pensatore della modernità nella cui tela visione del cosmo, fisica dei piaceri e meditazione etica siano strettamente e poeticamente intrecciate. La sua critica del progresso è in qualche modo l’equivalente poetico-filosofico di ciò che è stata, nella storia del salariato moderno, l’insurrezione luddista. Di entrambe si può dire che il seguito ha illustrato con generosità le ragioni e la lucidità.

«In un tempo dove tutto è civiltà e ragione e scienza e pratica e artifizi» (Zib.), la critica radicale deve trovare un punto d’appoggio fuori – in una diversa cosmovisione, in una diversa fisica poetica, che sappia tanto spronare quanto trattenere. Noi arriviamo a incendio avvenuto. Spezzatosi quel processo che il giovane Marx definiva di «umanizzazione della natura e di naturalizzazione dell’uomo», naufragato per l’autoinganno di avere le forze dello sviluppo tecnico dalla propria parte, ci troviamo con una ragione soggettiva che propriamente delira di fronte a un’oggettività naturale reificata. Il tavolo anatomico è diventato un laboratorio di sevizie.

Ecco allora emergere pensieri come questo:

«Quando la Natura era protetta dal “sacro”, gli uomini la maltrattavano e la insozzavano meno; la sua sacralizzazione è dunque più razionale della scienza moderna, e non meno; ed è anche più vicina al bisogno vitale che vuole considerare il cosmo come qualcosa di non riducibile a un magazzino da gestire, di quanto lo sia il modo utilitaristico con cui l’ecologismo parla di “risorse” e di “equilibri”» (Piero Coppo, Critica radicale e rivoluzione. Un aggiornamento). Per il popolo Yanomami salvaguardare l’ambiente in cui vive è il solo modo di evitare che il cielo gli cada sulla testa, evento che nei suoi miti cosmologici un tempo è già accaduto. Leopardianamente, l’umanità yanomami è protetta da una potente, benefica illusione. Noi viviamo dopo l’«arido vero». E la ragione non può risacralizzare la natura perché riconosce che, a conti fatti, la sua sacralizzazione è più razionale del suo forsennato sfruttamento. Finirebbe per tecnicizzare un mito, cioè per produrre una illusione artificiale.

Può la libertà, materiata di natura e della propria storia, emancipata da ogni determinismo naturalistico e storico, stabilire limiti consapevolmente profani nell’uso del mondo? Il suo gioco assomiglierebbe allora a quello poetico di un’umanità che si lancia e si trattiene per la meraviglia delle immagini, dei ricordi e delle parole – cioè in virtù di forze più potenti di ogni legge. Forse all’utopia di una società larga, formata da «quelli che, giovani o vecchi, sono condannati … ad esser più che uomini e parer sempre fanciulli» (Pensieri).

Qui finisce questo viaggio. Il mio Leopardi, intanto, mi tiene compagnia, e mi dà forza, in questa paradossale «segregata felicità».