Pubblichiamo questo “editoriale lungo” apparso sul mensile anarchico “Invece” più di dieci anni fa. L’inventario di cosa ci manca andrebbe senz’altro aggiornato, ma i granuli di storia e gli spunti progettuali che contiene ci paiono piuttosto attuali.

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inventario

Inventario

L’anarchismo è una tensione etica che accompagna l’umanità da quando esiste il potere e un movimento rivoluzionario nato e sviluppatosi a partire da un determinato periodo storico (la seconda metà dell’Ottocento). Nella prima accezione, ebbero venature anarchiche alcune filosofie antiche (ad esempio quelle megariche e ciniche in Grecia, quella taoista in Cina), alcune esperienze di cristianesimo radicale (nell’Antichità come nel Medioevo), certe “correnti” millenaristiche (come il movimento dei Fratelli Apostolici, quello del Libero Spirito o dei cosiddetti Anabattisti), diversi movimenti egualitari in Inghilterra tra il 1600 e il 1800 (come i Livellatori, gli Zappatori e i Luddisti), certe figure apparentemente minori (come Teodoro l’Ateo, Segalello o La Boétie) e altre che hanno segnato delle epoche (nel senso di momenti che marcano e insieme sospendono il tempo storico): Dolcino, Thomas Müntzer o gli Arrabbiati durante la Rivoluzione francese. Nella seconda accezione, l’anarchismo nasce nel solco del movimento di autoliberazione proletaria. Se l’impiego positivo del termine «anarchia» compare già nel 1840 con Proudhon; se la visione di una società senza Stato aveva ispirato pagine magistrali a un Jean Varlet, a uno Shelley o a un Godwin; è a partire dal 1870 circa che si fa luce, tra la polvere e le barricate, un movimento rivoluzionario che vuole realizzare sulla terra degli uomini (e non nel cielo della filosofia) la distruzione del capitalismo e dello Stato.

Non è un problema di mere definizioni: le due accezioni sono qui ed ora compresenti nell’anarchismo.   

L’anarchismo si è sempre caratterizzato per quello che potremmo chiamare messianismo rivoluzionario: ovunque regni l’ingiustizia, i tempi sono maturi; l’“immaturità” dei tempi deriva solo dall’ignavia e dalla codardia degli uomini. Questa caratteristica (mutuata in epoca moderna dall’ethos pisacaniano, per cui valori e realtà sono sempre in conflitto e non bisogna mai rinunciare ai primi in nome della seconda) è ciò che ha permesso all’anarchismo, unico tra le “correnti” storiche del socialismo, di non essere fagocitato dalla politica e dalla logica funesta del “male minore”. Ma l’anarchismo è anche volontà di cambiare le condizioni materiali, determinazione nel costruire e saper cogliere le occasioni propizie alla rivolta, scontro sociale, azione nella e contro la storia.

E per agire nel presente guardando all’avvenire è fondamentale conoscere la propria storia.

Per far questo dobbiamo scrollarci di dosso sia la storia monumentale che celebra un certo passato, sia quella concezione storica che consiste nel raccontare e nel documentare degli eventi “conclusi”.

Non basta studiare la Settimana rossa, la Makhnovcina o la rivoluzione spagnola del 1936; dobbiamo conoscere anche la storia degli ultimi decenni, sia quella del conflitto sociale in generale sia quella delle idee e delle esperienze a cui siamo noi stessi direttamente legati. Non siamo delle piume al vento.

Nel movimento anarchico sono sempre esistiti idee e metodi diversi e anche inconciliabili. Chiudiamo subito dunque con questa aria di famiglia. A noi interessa qui parlare di un certo anarchismo. Tenteremo non una ricostruzione storica (compito che oltrepassa sia le nostre capacità sia il nostro interesse), bensì una sorta di inventario degli ultimi trent’anni. E ci troviamo, nel farlo, nella condizione di non dover rinunciare né all’attenzione né all’urgenza, come chi è costretto a partire per un viaggio non breve, con la polizia che sta arrivando a momenti.

Questo tentativo richiede lettori non pigri. Alcune questioni saranno solo accennate, alcuni rimandi risulteranno piuttosto rapidi, e non mancheranno i vuoti.

Tornanti

In quasi tutti i Paesi, alla fine della Seconda Guerra mondiale l’anarchismo è ridotto al lumicino. Nell’Unione (sedicente) Sovietica è scomparso assieme ad ogni altra forma di dissenso. In Sudamerica, la repressione incrociata dei fronti popolari e delle dittature militari ha lasciato poche braci sotto la cenere. In Francia il movimento ha perso ogni forza propulsiva già al termine della Prima Guerra mondiale. In Spagna i suoi elementi più vivi si riorganizzano per condurre una tenacia guerriglia armata contro il regime franchista. In Italia la lotta anarchica ha raggiunto l’apice durante la Settimana e poi il Biennio rossi, senza nulla togliere al generoso contributo dato alla guerriglia contro il fascismo e contro il capitalismo che lo aveva armato.

Il predominio delle forze socialdemocratiche e staliniste è schiacciante. L’anarchismo d’azione diretta (autonomo dai sindacati e dalle Federazioni) non rinuncia tuttavia all’agitazione sovversiva, soprattutto in appoggio ai compagni iberici.

Bisogna aspettare il movimento internazionale del ’68 perché torni a spirare una forte ventata libertaria, la quale trova i gruppi anarchici per lo più impreparati, quando non addirittura fossilizzati in strutture organizzative che la gioventù ribelle rifiuta. Comincia a farsi largo, nelle pratiche e poi nella teoria, la distinzione fra “movimento fittizio” e “movimento reale”. Negli anni successivi al maggio ’68, non mancheranno (in Inghilterra, in Spagna, in Francia) esperienze di lotta armata libertaria basate su nuclei autonomi di compagni affini coordinati fra loro. Soprattutto nella penisola iberica, tali esperienze incontreranno (teoricamente e praticamente) le lotte di settori combattivi e autorganizzati del proletariato, creando un interessante mosaico fra assemblee di fabbrica, scioperi selvaggi, stampa clandestina di materiale rivoluzionario, espropri, sabotaggi e attacchi contro uomini e cose del potere.

In Italia – a cui d’ora in poi limiteremo il nostro sguardo – il Maggio durerà dieci anni, lasciando sedimentare una delle esperienze di scontro sociale più profonde e significative della storia recente.

Benché la spinta libertaria alla sovversione della vita quotidiana (che la teoria radicale aveva anticipato di diversi anni) sia ben presente in larghi settori del “movimento” e del proletariato giovanile, il peso dei gruppi anarchici e radicali è nell’insieme piuttosto leggero. Il neoleninismo, nelle sue varianti, impone modelli e linguaggi (e anche le esperienze più inedite e originali di lotta armata tendono a riprodurli).

A cavallo del Settantasette, comincia invece a farsi largo una teoria dell’insurrezione sociale a partire dalle (e contro le) condizioni di capitalismo maturo presenti in Italia. La storia delle insurrezione libertarie (episodi, figure, miti) viene espropriata e rimessa in movimento non solo ai danni dei poteri e delle accademie, ma anche a dispetto dei gruppi anarchici formali, chiusi per lo più nei loro sarcofagi. Si deve allo sforzo testardo e controcorrente di pochi compagni se il movimento anarchico d’azione diretta non è scomparso.

In quegli anni le questioni in ballo sono davvero molte: il passaggio dal dominio “formale” a quello “reale” del capitale; l’emergere di una forte combattività proletaria giovanile e la reazione di Stato e padroni; la critica di ogni forma di sindacalismo (compreso quello libertario); la critica delle vecchie ipotesi consiliari ormai inadeguate alla nuova struttura produttiva del capitalismo; l’autogestione delle lotte, l’autogestione della società (e il problema del “valore” in una società post-rivoluzionaria); il rapporto fra movimento reale e pratica armata.

I compagni e le compagne si muovono in questo groviglio raccogliendo non pochi spunti sia dalle esperienze in corso sia dai contributi di un certo comunismo eretico (rispetto alle cui analisi non sempre quelle anarchiche si distinguono nettamente). La discussione sui gruppi di affinità e sull’organizzazione informale (non nuova nel movimento anarchico, ma seppellita sotto tanta polvere) si inserisce in un contesto tutt’altro che pacificato e in continua trasformazione. In particolare, si registrano le differenze (e le polemiche) tra “Anarchismo” e Azione Rivoluzionaria sul modo di concepire la pratica armata: si tratta di non chiuderla in gruppi e sigle per il primo; si tratta di organizzare le forze disposte allo scontro fuori dalla logica del partito per la seconda. Due modi diversi di concepire l’insurrezione e il ruolo della minoranza anarchica. Va detto che molti degli argomenti di “Anarchismo” sulla guerra sociale contrapposta alla guerriglia sono comuni a “Insurrezione” e ad altre esperienze di critica radicale. Va anche detto che la riflessione sulle forme organizzative informali (che era stata avviata, proprio qualche tempo addietro, da gruppi post-consiliari) era calata nella situazione del nuovo movimento (e infatti anni prima, in un contesto diverso, alcuni degli stessi compagni critici verso AR avevano dato vita a “Sinistra libertaria”, esperienza in cui il problema della lotta armata era posto – a partire dal nome… – in termini ben più classici).

Molto dell’armamentario teorico e metodologico di oggi è stato elaborato nei primi anni Ottanta, cioè in un contesto diverso da quello del Settantasette: in una fase di pieno riflusso. Il doppio movimento del capitale – ristrutturazione telematica della produzione e repressione feroce del movimento rivoluzionario – pone ora problemi diversi. Non si tratta più di criticare nella teoria e nell’azione il “partito”, bensì di salvare l’ipotesi armata sia dai modelli leninisti e stalinisti sia dalle abiure e dalle dissociazioni. Si tratta di ripensare il sabotaggio a fronte della diffusione capillare della tecnologia capitalista, nervo fondamentale del nuovo dominio. E si tratta di elaborare e praticare tentativi insurrezionali anche in una fase di riflusso delle lotte. Per questo l’esperienza delle “leghe autogestite” contro la base missilistica di Comiso; per questo l’approfondimento su gruppi di affinità, nuclei di base e organizzazione informale; per questo un’analisi “snellita”, il mensile “Provoc-azione”, i disegni su come segare i tralicci dell’alta tensione, l’impegno cocciuto per andare – a proposito di nucleare, di militarismo o di nuova produzione – «dal centro alla periferia», cioè verso l’attacco anonimo e diffuso attraverso azioni facilmente riproducibili. Merito non da poco aver soffiato sulle braci in anni senza vento. Per accorgersene, basta guardare cos’era rimasto nei primi anni Novanta dell’anarchismo rivoluzionario in tanti altri Paesi: poco o nulla.

Ma quei compagni e quelle compagne non volevano solo dimostrare che la rivolta e l’azione diretta sono sempre possibili: per far questo non c’era bisogno di riviste, giornali, libri, convegni. Volevano di più: pensare e praticare un’ipotesi insurrezionale per l’ora presente, studiando il nemico, la classe e le proprie possibilità – e traendo da tutto ciò un concetto qualitativo di forza.

Non ci interessano inutili querelle su eredità e tradizioni. La lezione preziosa che vogliamo trarne per l’ora presente è quella di interrogarci – nel mentre stesso delle lotte – su ciò di cui abbiamo bisogno nella teoria e nella pratica. Per fare un esempio, i nuclei di base – cioè le strutture di lotta formate da compagni e altri sfruttati con un obiettivo specifico, basate sull’autogestione, sulla conflittualità permanente e sull’attacco – oggi non hanno attorno lo stesso contesto che all’epoca di Comiso né davanti lo stesso nemico. Una scintilla di conflitto può spegnersi o generalizzarsi in maniera molto più imprevedibile, perché la pace sociale costa e oggi il potere non sembra potersela comprare. Se la proposta «dal centro alla periferia» non ha perso nulla della sua validità, è semplicemente grottesco trarne la conclusione – buona per tutte le stagioni – che gli anarchici debbano sempre essere altrove – persino quando il prender parte a certi conflitti sociali potrebbero fornire un contributo significativo per la loro radicalizzazione. Anche il problema del recupero politico-sindacale delle lotte si pone oggi in maniera molto diversa. E di conseguenza quello dello scontro sociale – anche armato – nel suo insieme. Anche qui si tratta di passare dall’inventario al progetto.

Ci sono almeno due modi di concepire la critica: come giudizio di fatti compiuti; come continuazione di un incompiuto, cioè come esperienza in corso. La prospettiva insurrezionale si pone per noi nel secondo solco. Un metodo è ben altra cosa che la ripetizione pappagallesca e scheletrica di alcuni concetti.

L’internazionalismo delle lotte è di nuovo all’ordine del giorno e per tanti aspetti le ipotesi autoritarie – dominanti in passato – sono oggi decisamente malconce. Quale può essere il contributo di un movimento anarchico vivo e combattivo è ben rappresentato dal caso greco.                   

                       

Cosa ci manca?

A livello di analisi, non poco. Ci manca una lettura autonoma della ristrutturazione del dominio in corso. Conoscere lo stato di salute del nemico non è esattamente un dettaglio. Ci manca un’analisi di cos’è, di come viene emesso e di come circola il denaro oggi. Ci manca un’analisi di cos’è, oggi, lo Stato. Manca un’analisi nostra del concetto di classe. Ci manca una riflessione attuale sul rapporto di implicazione reciproca tra insurrezione e autogestione, riflessione che presuppone un’attenta topografia del conflitto sociale. Ci manca la capacità di studiare situazioni anche vicine a noi molto istruttive sia per quanto riguarda possibili sbocchi insurrezionali sia per le forme della reazione. Pensiamo alla Grecia. Il materiale circolato al riguardo in Italia è del tutto insufficiente e la sua qualità è carente. Per spronare all’azione potrebbero bastare immagini di scontri e di attacchi. Per contribuire allo sviluppo di un movimento rivoluzionario, no. Non studiare ciò che accade attorno a noi significa non pensare davvero l’insurrezione come fatto possibile oggi. Nella migliore delle ipotesi, significa ritenere che il nostro contributo si esaurisca nell’agitazione sovversiva, come venti o dieci anni fa.

Ma la situazione sociale non è più la stessa, perché non è più la stessa la composizione del capitale. Le classi medie, ad esempio, sono assai instabili, tra impoverimento, protesta e pulsioni reazionarie. Un’instabilità che la tendenza mondiale alla compressione dei salari, allo smantellamento delle pensioni, alla privatizzazione di scuole e ospedali non farà che accrescere.

Le modalità informali sono sempre più spesso la caratteristica delle lotte, nella cui radicalizzazione (e ben difficilmente prima) è possibile individuare un “referente di classe”.

Altro concetto importante elaborato trent’anni fa: intellegibile di ritorno – un modo un po’ legnoso per indicare la capacità di capire quello che gli altri sfruttati capiscono di ciò che facciamo. Una comprensione di ritorno per la quale servono dei “ponti” tra movimento specifico (i compagni) e movimento reale (la dimensione viva e mutevole degli esclusi in lotta). Senza simili “ponti” ciò che chiamiamo realtà rimane qualcosa di opaco e di filtrato dalla comunicazione gestita dal potere. Senza simili “ponti” è difficile sapere se un’azione risulta “azzeccata”, se è in anticipo o in ritardo rispetto al “fronte di lotta”. Le strutture di base che le lotte si dànno sul territorio sono questi “ponti”. Non è dai giornali o dalla televisione che possiamo sapere ciò che accade nei territori in cui viviamo. Non è una barzelletta quella secondo cui i rivoluzionari sono spesso gli ultimi ad accorgersi che la tempesta è già arrivata.       

Se siamo sempre contro il potere in tutte le sue forme, le possibilità di abbatterlo non sono sempre uguali nella storia; di conseguenza non è sempre uguale ciò che ci aspettiamo dalle nostre azioni, dall’impiego di questo o quel metodo.   

Per fare un esempio, Malatesta nel 1876 tentò una sollevazione insurrezionale nel Matese come potente mezzo di propaganda (non essendoci le condizioni per cui il tentativo si generalizzasse); durante la Settimana e poi il Biennio rossi mise anima e corpo per un’insurrezione che abbattesse la monarchia in Italia – ma questa volta per fare la rivoluzione. Di fronte alla reazione montante del fascismo, quando il campo proletario era vinto, approvò (qualcuno dice collaborò con) la pratica dell’attentato individuale contro il Duce. Invarianti i princìpi, invariato il «fuoco sacro» della rivolta, diversi i contesti e le possibilità. (Abbiamo preso l’esempio di Malatesta perché è calzante qui, non perché condividiamo le sue idee sull’organizzazione o sulle alleanze rivoluzionarie).

Capire in quale contesto ci troviamo oggi non è faccenda secondaria. Dobbiamo uscire dalla logica dei generici appelli alla ribellione, e darci dei progetti, se vogliamo far tornare l’anarchismo una minaccia.

Colmate certe lacune, saremmo solo all’inizio.

«Cos’è un movimento?» – ecco una domanda urgente. Simboli e aggettivi comuni non creano di per sé l’affinità; anzi, spesso la confondono. La disponibilità a battersi è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Bisogna conoscersi realmente – e conoscersi nei momenti difficili, quando sia le azioni sia il non agire sono gravidi di conseguenze.

Durante una sommossa sfasciare una banca in più o in meno non cambia la sostanza (intendiamoci, meglio una in più che una in meno). Ma se una sommossa dura diverse settimane, non sapere dove espropriare ciò che serve per continuare la lotta può essere fatale. E se questa sommossa si generalizza in diverse città, non possiamo metterci in fretta e furia a leggere Bakunin o Kropotkin per avere un’idea minimamente chiara di cosa potrebbe essere oggi la libera federazione delle Comuni insorte, o di come collegare le città alle campagne. Sarà che rifiutiamo per principio la pigrizia immaginativa, ma a noi sembrano questioni urgenti. E ci pare semplicemente assurdo non approfittare del tempo ancora a disposizione per approfondirle. Quello che sta accadendo in Grecia è solo qualche passo al di qua di tali “problemi utopici”.

Fuori dalle etichette, dobbiamo sapere dove vogliamo andare, e con chi.   

dal mensile anarchico “Invece”, n. 21, febbraio 2013 (editoriale)