Un concerto senza direttore. A proposito di anarchismo e libero accordo

 

Una visione dell’anarchismo (la via all’anarchia e il suo metodo) come etica dei patti liberamente stabiliti. Dalla rivista anarchica “i giorni e le notti”, numero 9, maggio 2019.

Qui l’articolo in formato pdf: un concerto 

UN CONCERTO SENZA DIRETTORE

A proposito di libero accordo

Lex e nomos

Qualsiasi cosa non possiamo o non decidiamo di fare da soli – foss’anche spostare un mobile – richiede comunicazione e accordo tra gli individui coinvolti. Se in due stiamo traslocando un armadio, dovremo pur decidere per quale lato farlo passare dalla porta. È evidente che in questo caso la comunicazione e l’accordo saranno molto rapidi e semplici – salvo particolari ostinazioni di uno o di entrambi… –, ma lo è altrettanto che problemi e operazioni più complesse, specie se coinvolgono più individui, richiederanno più tempo, impegno, ascolto reciproco, divisione dei compiti. La necessità di accordarsi non si sceglie: si può scegliere solo con chi, quando e soprattutto come farlo. Credo che la scommessa anarchica su una vita completamente diversa si giochi in gran parte su questo punto.

L’organizzazione autoritaria – ovvero, per come si è storicamente configurata, l’organizzazione all’interno dello Stato – si fonda sulla costrizione a essere organizzati con individui o gruppi che spesso non conosciamo e che non abbiamo mai deciso di avere come compagni di strada, sulla base di norme che non abbiamo mai sottoscritto. Perché io, che abito, poniamo, a Busto Arsizio, dovrei rispondere alle stesse leggi del signor Rossi, che invece risiede a Reggio Calabria e che non ho mai incontrato una volta nella vita? E soprattutto, che ruolo abbiamo mai avuto entrambi nell’elaborazione di quella legge? Abbiamo mai avuto la possibilità di discuterla? Quando mai abbiamo dato ad essa il nostro consenso? Qualcuno ci ha mai chiesto se volevamo rispondere a una normativa comune?

L’origine della parola “legge” è indicativa del suo carattere coercitivo. In latino, il termine lex si costruisce a partire da una radice molto caratterizzante, quella del “legare” (che ha generato, significativamente, anche la parola “re-ligione”). Solo dei paranoici della res publica come i Romani (che hanno posto, non a caso, le basi dello Stato e del Diritto per come sono intesi e applicati in tutto il mondo) potevano concepire la convivenza in un simile modo. La legge è ciò che ci unisce e ci lega al di là della nostra volontà. Essa non è una corda cui ci assicuriamo volontariamente per scalare una montagna, e che scioglieremo una volta giunti sulla cima; ma piuttosto la catena di ferro che ci tiene avvinti gli uni agli altri in un ergastolo grande come la società, e della quale nessuno – neppure i padroni – possiede la chiave.

Qualcuno potrebbe obiettare che, passati i tempi dei regimi dispotici, siamo noi a eleggere chi fa le leggi e quindi a scegliere – indirettamente – il carattere di queste. Falso. Le leggi non rispondono tanto a chi le scrive, quanto piuttosto alla tipologia di collettività che le richiede. Una comunità statale fondata sulla gestione accentrata dei mezzi di produzione, sull’oppressione e lo sfruttamento che ne derivano, sulla competizione tra i padroni di casa nostra e quelli di altrove, richiederà inevitabilmente delle leggi che tutelino questi rapporti sociali, che li rafforzino o – nel migliore dei casi – che ne limitino certi effetti particolarmente feroci; ma che non potranno mai metterli in discussione. In democrazia possiamo scegliere chi amministrerà le istituzioni, ma non potremo cambiare la loro natura: questa risponderà sempre, innanzitutto, a se stessa. Il suo carattere, prima ancora che oppressivo e coercitivo, è monolitico, ovvero non scomponibile. La società non è costituita dall’insieme degli accordi tra gli individui che la compongono, ma esiste indipendentemente da essi, dando loro la sua misura. In un mondo organizzato così, potrei io provvedere in prima persona alla mia sicurezza, armandomi insieme agli individui di cui mi fido, anziché dover sottostare alla polizia? Un gruppo umano potrebbe provvedere direttamente ai suoi bisogni, occupando e coltivando delle terre? E potrebbe prendere accordi di mutuo appoggio significativi – ovvero che incidano realmente sulla riproduzione della vita – con altri gruppi al di là delle frontiere? Ovviamente, la risposta è no.

Lo Stato strangola la nostra libertà in un senso preciso: quello dell’autonomia. Anche qui, un piccolo esercizio di etimologia potrà aiutarci a chiarire il problema. “Autonomia” proviene dai termini greci heautón, ovvero “se stesso”, e nomos, convenzionalmente tradotto come “legge”, e significa quindi “dare a se stessi la propria legge”; ma in un senso profondamente diverso da quello latino. Pare che nomos derivi da nomós, “pascolo”, a sua volta derivato dall’antico verbo nemein, “distribuire, spartire”. Spesso dietro concetti astratti c’è una storia molto materiale, fatta del modo di vivere delle genti; e non è tanto difficile immaginare come nelle antiche comunità di pastori la “legge” fondamentale sia stata quella della divisione delle terre per il pascolo. Lontani dalla paranoia unitaria dei Romani, vera radice ideologica dello Stato, i greci più antichi concepivano le regole come modalità di convivenza senza unità forzata: questo è il mio lotto di terra, quello è il tuo; io qui e tu là; a ciascuno la sua parte, il suo nomós. Se anche può irrigidirsi fino a diventare legge, il nomos è fondamentalmente una “regola” che ci unisce nel nostro rimanere distinti, ovvero che permette insieme la convivenza di tutti e l’autonomia di ciascuno.

In forma diversa, questo ragionamento è stato proposto da uno dei maggiori “classici” dell’anarchismo, L’unico e la sua proprietà di Max Stirner, nel lontano 1844. A dispetto di tante cattive interpretazioni dal sapore irrazionalistico, che concepiscono l’anarchismo individualista come libertà astratta e assoluta, Stirner distingueva in modo molto rigoroso “libertà” e “proprietà” (o “individualità”): «È ben diverso che la società limiti la mia libertà oppure la mia individualità. […] La limitazione della libertà è ovunque ineluttabile, perché non ci si può liberare, cioè sbarazzare di tutto; non si può volare come un uccello solo perché si vorrebbe, giacché non ci si può liberare dalla gravità». In altri termini, libertà e necessità, anziché elidersi, si implicano reciprocamente. La “proprietà” stirneriana è la facoltà – che il singolo dà a se stesso e ricerca nei rapporti con gli altri – di stabilire e rompere degli accordi sulla base del proprio interesse, ovvero la possibilità di raggiungere più facilmente, pienamente, soddisfacentemente i propri scopi. «Se devo lanciare un sasso posso farlo da solo, se devo sollevare un masso avrò bisogno degli altri» scriveva stirnerianamente un compagno in anni recenti. Niente, in senso assoluto, mi obbliga a spostare quel masso o a farlo con quegli individui ma il masso…c’è, e pesa quanto la Necessità. Ciò che fa la differenza è che io voglia spostarlo, che le modalità dello spostamento siano liberamente discusse e decise, e soprattutto che possa negare il mio concorso se spostarlo non mi interessa, accollandomi le conseguenze della situazione: per esempio, che il masso resterà su un sentiero che anche io utilizzo, o che magari alla prossima difficoltà non troverò quegli individui disponibili ad aiutarmi.

Chi ritiene che il libero accordo sia costitutivamente fragile, e fa derivare da questa presunta fragilità la necessità delle leggi e dei suoi poliziotti, dovrebbe prima di tutto riflettere su come l’accordo implichi la reciprocità, ovvero un gioco di azioni e reazioni in cui, se gli individui possono avere sul momento forze e pesi differenti, nel lungo periodo uno vale uno. È questa, a mio avviso, l’unica via reale e non ideologica all’uguaglianza, intesa come libera interazione tra le differenze.

Tempo e spazio

Se nel ragionamento includiamo l’elemento del tempo, una regola in senso libertario non è altro che un accordo meno estemporaneo e di più lungo periodo, sempre rivedibile, riformabile o anche annullabile tra quanti l’hanno sottoscritto. Se il tempo è strutturalmente irreversibile, accordi e regole non lo sono per forza, e solo una deformazione autoritaria può averci convinto del contrario: che quanto è stato debba necessariamente dominare sul presente e sul futuro.

Se poi il tempo si può percorrere in una sola direzione, lo spazio è attraversabile in ogni senso, permettendo accordi e regole alle latitudini più diverse. Nei suoi scritti sul comunalismo medievale, Kropotkin notava che le gilde, le fratellanze e le corporazioni davano agli esseri umani quella dimensione internazionale che superava i confini della città. Al di là della veridicità storica, che andrebbe forse problematizzata, mi sembra comunque un ottimo spunto per pensare il libero accordo al di là del suo legame con un territorio specifico. Il germe dell’autorità non muore se questo vincolo diventa unilaterale, ovvero se gli individui non sanno pensarsi allo stesso tempo nel territorio e al di là di esso. O l’individuo rimane «un membro indipendente della società», oppure «perde il suo equilibrio, e allora il popolo si tramuta in folla […] e dove il popolo diventa folla, il tempo è favorevole per lo sviluppo del “grande uomo”, del’“uomo riconosciuto padrone”. Solo in tali periodi di disintegrazione sociale è possibile per l’“eroe” imporre la sua volontà sugli altri e forzare la folla sotto il giogo dei suoi desideri individuali» (Rudolph Rocker, Nazionalismo e cultura, corsivo mio). Eccola spiegata, l’eterna risurrezione del nazionalismo e del dispotismo. Con buona pace dei sovranisti, la reale indipendenza individuale non è affatto idiozia irresponsabile ma responsabilità radicale, perché vissuta all’interno di aggregazioni umane liberamente scelte e costruite. Viceversa, se sono i terremoti della storia, dell’economia e della tecnologia a far riemergere la putredine più autoritaria, è perché sotto ogni Stato scorre la fogna della reazione. Per sbarazzarcene definitivamente dovremo disfarci, tra le altre cose, del legame a senso unico tra popolo e suolo, con le sue folle di individui socializzati e al tempo stesso isolati.

Fiducia, violenza, responsabilità

In un mondo fatto di accordi tra individui liberi, anziché di leggi e poliziotti, sarebbe soprattutto la fiducia a regolare le relazioni umane. Ripensiamo all’esempio del masso, con le sue conseguenze sulla mia vita e sui miei rapporti con gli altri. Per accordarmi devo fidarmi e potermi fidare. Se qualcuno, in modo più o meno sistematico, non rispetterà degli accordi liberamente presi, sarà soprattutto la fiducia che gli altri hanno nei suoi confronti a risentirne e fare giustizia, determinando piano piano la più semplice e misurata delle “punizioni”: la non-collaborazione, l’esclusione, l’isolamento. In questo modo di pensare e vivere, il ricorso alla violenza riprenderebbe il suo posto e si orienterebbe verso il suo giusto carattere: quello della difesa, della risposta e anche della vendetta di fronte a un’altra violenza. Intendiamoci, non è sempre semplice determinare quando una violenza si stia verificando; e tocca riconoscere che questo problema è, almeno in parte, oggettivamente soggettivo. In ogni caso, mi sembra largamente preferibile cercare di dare alla violenza la sua misura. Non ci vuole molto a capire che l’uso della violenza sia un affare delicato e che non si possa certo servirsene alla leggera; e soprattutto che in un mondo fondato sugli accordi, dove fosse bandita la violenza organizzata dell’autorità e delle varie mafie (legali o illegali), il ricorso alla violenza riacquisterebbe il suo peso. In genere – e diciamo “in genere” perché sappiamo che il mondo è vasto e vario – non si compie violenza in tutta tranquillità quando non si è in condizione di superiorità materiale, quando gli altri sono armati più o meno quanto lo siamo noi, quando il proprio sostentamento dipende anche dagli accordi presi, e soprattutto quando si ha altro da fare e si è in condizione di farlo (cioè non si è privati dell’accesso ai mezzi di sussistenza, com’è invece nel mondo attuale). La società capitalistico-autoritaria riesce a coniugare il massimo della violenza (quella degli apparati) con il massimo dell’irresponsabilità (degli individui spossessati). Se lo Stato si arroga il monopolio della violenza, mette anche milioni di individui nella necessità di commetterla. Se la paura della polizia e della galera, da un lato, frena la violenza individuale, dall’altro l’impersonalità dell’apparato societario la rende più a buon mercato. Possiamo macchiarci di atti abominevoli e poi, scontato quello che c’è da scontare, riprendere tranquillamente a esistere come cittadini e lavoratori. In un mondo di accordi, la commissione di atti che offendono profondamente le coscienze potrebbe comportare anche l’esclusione a vita dalla propria rete di relazioni e la difficoltà di crearsene altre, mettendo seriamente a rischio la sussistenza individuale, fino a determinare… la morte dell’escluso. Una convivenza sotto l’insegna della libertà e della Necessità potrebbe così comportare “sanzioni” anche durissime, ma non per forza crudeli. L’egoismo illuminato – quello che bada alla qualità delle proprie relazioni – sa punire senza neanche volerlo. L’utopia anarchica per me è anche questo: superare l’ossessione della punizione senza per questo rinunciare a fare giustizia, imparare a affrontare i conflitti in modo non-repressivo.

Nell’essere umano può anche manifestarsi il male radicale, che ricerca la propria soddisfazione a discapito degli altri, o addirittura nel piacere di farli soffrire. Ma la causa delle nostre mancanze, dei nostri errori, delle nostre violenze e sopraffazioni, risiede il più delle volte in accordi inadeguati. C’è una poesia di Sante Notarnicola che immagina un processo in un Tribunale del Popolo di una società comunista. La prima domanda che i giudici – una commissione di compagni – rivolgono all’imputato è: «Vuoi dirci perché hai commesso questo reato? In cosa abbiamo sbagliato?». Al di là dei concetti di tribunale popolare e di “reato”, che di certo non ci appartengono, questa poesia trasmette lo spirito con cui andrebbero affrontati i conflitti in un diverso modo di vivere. Se all’interno d’una libera unione qualcosa si è incrinato, forse è perché qualcuno non è stato ascoltato a dovere, perché delle esigenze sono state ignorate, perché sono mancate delle attenzioni. Converrebbe tornarci su, invece di allargare subito la frattura.

La chiarezza

Oltre che per immaginare una vita diversa, riflettere su questi problemi – il rapporto tra autonomia e necessità, le implicazioni degli accordi e delle regole, l’affrontamento libertario dei conflitti – ci serve soprattutto per l’oggi. Non solo perché nelle nostre piccole vite e lotte dovremmo prefigurare la vita per cui ci battiamo, ma anche perché sono convinto che buona parte dei nostri problemi di anarchici e rivoluzionari dipendano spesso da una malcomprensione di certe questioni (almeno quando non si tratta di deliberata noncuranza). Il risultato conseguente è la proliferazione degli scazzi. Che questi ci siano è inevitabile, poiché ognuno ha il suo modo di ragionare e sentire; ma che questi dilaghino, e soprattutto che tante volte si finisca a non capire nemmeno su cosa si sta polemizzando, è semplicemente sconfortante.

Quando l’oggetto del contendere è chiaro, la polemica è sana e rappresenta un’occasione di crescita individuale e collettiva. Il problema c’è, viceversa, quando nelle questioni – dalle più minute e quotidiane fino ai “massimi sistemi” – manca lo sforzo della chiarificazione: la capacità di capire cosa gli altri stiano dicendo, di non attribuire loro malevolmente ciò che non stanno dicendo, di aver chiaro di fronte a se stessi che cosa si intende dire. Capita spesso di trovarsi in discussioni in cui qualcuno avversa la tua posizione senza averla capita, contrapponendole magari l’interpretazione sballata delle tesi di qualcun altro. Quando si è costretti a rettificare continuamente i fraintendimenti altrui, discutere diventa impossibile. Che questo tante volte accada, è indice per lo meno di pigrizia e sciatteria, oltre che di irresponsabilità. L’abitudine a vivere in una società già organizzata e la tecnologia della comunicazione determinano un continuo impoverimento e perdita di senso del linguaggio; ciononostante, pensieri e parole continuano ad avere un loro peso e determinare effetti. Farsi portatori di concetti imprecisi può avere conseguenze anche devastanti, perché i ragionamenti cambiano le categorie con cui interpretiamo la realtà, le lenti con cui la guardiamo, il modo di figurarsela e “sentirla”. Se un pensiero preciso, quando ci coglie, ha un effetto rischiaratore, le sparate irriflessive tendono ad offuscare la percezione. Il problema non è solo l’ingiustizia che si compie verso questo o quel compagno, ma soprattutto il danno che facciamo alle nostre idee e ai nostri rapporti quando alimentiamo la confusione generale, dando così il nostro contributo a creare un ambiente di merda. Non sostengo affatto, qui, che “tra compagni” non bisogna mai attaccare niente e nessuno. Tutt’altro. Dico solo che prima di farlo bisognerebbe per lo meno prendere bene la mira, chiedendosi dove e perché si vuole colpire. Condizione dell’accordo è anche capire in cosa si è in disaccordo. Ma per farlo bisogna anche disfarsi d’un bel po’ di ideologia, emotività e orgoglio cieco, a vantaggio d’un maggiore sforzo di comprensione e rigore argomentativo.

Il senso della distanza

Altra condizione fondamentale per degli accordi degni di questo nome è il giusto senso delle vicinanze e delle distanze, altro aspetto dell’autonomia individuale e collettiva. Non ha molto senso rivolgere le stesse critiche e avanzare le stesse pretese verso compagni e compagne con cui si hanno rapporti di complicità differenziati. Ci sono compagni con i quali portiamo avanti progetti precisi, sulla base di accordi espliciti di cui bisogna pretendere il rispetto. Ce ne sono altri con i quali le complicità maturate in anni di interventi comuni implicano tutta una serie di patti sottintesi (e quindi, per esempio, certe assenze in certi momenti possono deludere, ferire, pretendere spiegazioni). Ce ne sono altri ancora ai quali non ci accomuna molto più del riferimento alle ragioni dell’avvenire o a una stessa tradizione storica (l’etichetta anarchica, potremmo dire banalizzando). Ci sono alcuni che, nel corso degli anni, si sono assunti implicitamente determinati impegni a partire da certe posizioni, che hanno creato in noi delle aspettative, e altri che non l’hanno fatto. In linea di massima, si può pretendere da qualcuno solo ciò che questo si è assunto, più o meno esplicitamente.

Se ragionassimo così, dunque, potremmo pretendere (tanto per fare un esempio) delle “prese di posizione” più o meno lottarmatiste da anarchici che si impegnano esclusivamente in comitati popolari di lotta? Se le prese di distanza da propositi o azioni vanno sempre contrastate, non vale affatto il contrario: pretendere che qualcuno propugni ciò che (almeno per il momento) non ha intenzione di praticare, è fuorviante. Il suo effetto più perverso è che tanti cercheranno di cautelarsi dalle accuse parandosi dietro un estremismo del tutto parolaio e inconseguente (“prendendo posizione”, come si suol dire). Si alimenta così l’ideologia a più alto contenuto spettacolare: il presaposizionismo, sorta di psicosi che nelle sue forme più acute scambia l’intervento sulla realtà con il parlare di essa, a colpi di dichiarazioni roboanti su cosa bisognerebbe dire e come bisognerebbe intervenire. Ne seguono analoghe allucinazioni, come ad esempio credere che “allargare” le lotte o “unirle” significhi più o meno…accozzarle alla boia d’un dio su un volantino.

Fare una critica complessiva, anche dura, d’un certo approccio o d’un certo progetto di chi ci è distante, è cosa legittima, ci mancherebbe. Ma può dare un buon contributo, a mio avviso, solo se la critica ha un ampio respiro, se s’alimenta dello sforzo d’una lettura completamente diversa e alternativa del presente, e se è tesa nel contempo a una progettualità seria e riflettuta (il che non implica solo la pura disponibilità al rischio). Appuntarsi su un dettaglio astratto dal contesto tanto per saltare addosso all’interlocutore, viceversa, può far bene al proprio ego, ma fa solo danni alla lotta per la libertà.

Superare i limiti

A complicare ulteriormente le cose, si è aggiunto ultimamente un anarchismo postmoderno e piagnone, per il quale i principali oppressori sarebbero…i compagni. Se già da tempo le assemblee erano concepite come il vivaio ideale di leaderini e capetti, adesso vi prolifererebbe la sopraffazione pura, con le sue subdole micro-oppressioni e le sue occulte gerarchie informali. Per quanto mi riguarda, non sono contrario a una riflessione sui nostri rapporti (anche assembleari) e penso che degli sforzi per permettere l’espressione di più persone vadano fatti, così come vadano individuati e contrastati gli autoritarismi, più o meno involontari, più o meno furbeschi. Ma anche certi tentativi non possono prescindere da un rapporto con la necessità delle cose, ovvero che per accordarsi bisogna parlarsi; e che in questa dimensione, come in tante altre, esistono per forza delle disuguaglianze. Se queste risaltano di più quando si è in tanti (e magari non solo tra amici), non sono per forza assenti quando si è in pochi intimi. L’uguaglianza e la reciprocità non possono esistere se non come tensioni, che vivono tanto della dimensione collettiva quanto (e soprattutto) degli sforzi individuali. Ascoltiamo ancora Stirner: «La società sussiste grazie alla mia rassegnazione, al mio rinnegamento di me, alla mia viltà chiamata umiltà. La mia umiltà, il mio scoraggiamento costituiscono il suo coraggio, sulla mia sudditanza si fonda il suo dominio».

Che le nostre libere unioni non diventino una riproduzione in piccolo della società, quindi, dipende innanzitutto dai singoli, dal loro superamento della viltà, da quel coraggio che serve anche per prender parola, dal non rassegnarsi al proprio linguaggio limitato o a un bagaglio culturale modesto. Ci sono stati nella storia (e ci sono tuttora) compagni di scarsa o nessuna istruzione che sono arrivati a redigere giornali, tenere dibattiti, stampare libri, gestire biblioteche sociali, tessere reti organizzative, e che hanno conseguito a volte risultati notevoli (pensiamo, per dirne uno, a Renzo Novatore, un figlio di contadini con la terza elementare). Se sono diventati se stessi, è perché non hanno accettato i propri limiti, perché non si sono rassegnati. Chissà se avrebbero fatto lo stesso, in ambienti sovversivi completamente protetti e assolutamente infantilizzanti, in cui l’uguaglianza diventa livellamento verso il basso.

Le assemblee

Sembra a qualcuno che in certi gruppi anarchici si propugnino le assemblee per una miscela di logocentrismo e volontà di potenza, per costruire eserciti di capetti e soldatini, perché si è affetti dalla “malattia della politica”. Innanzitutto bisognerebbe capire cosa si intende per assemblea. Se definiamo questa come un momento di discussione finalizzato a prendere decisioni, anche solo orientative e “di massima”, allora si andrà dal gruppo di affinità di tre compagni fino all’incontro internazionale di più realtà, passando per la riunione del collettivo, della redazione d’un giornale, di uno spazio occupato, di un centro di documentazione, di uno o più gruppi anarchici locali… È ovvio che questi momenti avranno caratteristiche diverse, ma lo è altrettanto che, se ci si attiene al principio del libero accordo, queste differenze saranno più di dimensione che di qualità. Il punto è che si discute sempre per prendere accordi su faccende che ci riguardano o ci interessano. O si decide di non prenderli – ma poi non si potrà neppure pretenderne il rispetto, visto che non sono mai stati sottoscritti; oppure gli accordi dovranno essere presi attraverso un’attenta discussione di tutti quelli che sono coinvolti nelle questioni. Torniamo alla metafora del masso. Se nel mio villaggio si discute di come e dove spostarlo, potrò ovviamente decidere di non partecipare alla riunione, ma con che faccia mi lamenterò se la decisione presa non mi soddisferà? Viceversa, la mia partecipazione alla riunione in questione non implicherà per forza che dovrò anche accordarmi su quando e come provvedere – che so – alla mia legna. Magari il mio approvvigionamento di legna non necessiterà affatto di particolari accordi, me ne occuperò da solo o con pochi amici. Fuor di metafora, accordarsi su alcuni aspetti non significa affatto doversi accordare su tutto. È semplicemente il modo più conseguente per affrontare situazioni problematiche senza per forza esacerbarle, o per coordinarsi in vista di un’azione che vogliamo fare insieme.

Un concerto senza direttore

Se la logica dello Stato – ma con Stirner potremmo aggiungere: del partito, «questo Stato in piccolo» – è quella dell’unità forzata, la logica dell’associazione libertaria è dividersi e unirsi senza imposizioni, rimanendo «membri indipendenti». Se troppe volte i diversi modi, approcci, progetti vengono contrapposti anziché affiancati; se troppo spesso si ragiona in termini di “esclusione reciproca” anziché di “aggiunta” dei diversi interventi, evidentemente il senso di autonomia è andato perduto, a tutto vantaggio d’una visione paranoica per la quale, nel grande ordine dell’universo, la diversità altrui limiterebbe la mia. Io sono convinto del contrario. Se si rimane fedeli all’ideale per cui ci battiamo – un mondo di autonomie individuali e collettive –, allora il nostro modo di lottare oggi dovrebbe rispecchiarlo. Cosa ho da temere dagli altrui tentativi? Perché dovrei cercare di assimilarli ai miei, alla mia personalissima tensione anarchica? Posso criticarli, certo, e cerco di farlo senza risentimento e senza reticenze. Ma quando se ne nega sistematicamente ogni valore in nome dell’anarchia, il risultato è molto poco anarchico: è la paralisi reciproca data dall’ansia di poter sbagliare, con tutti i suoi tristi corollari. Non a caso l’attuale ambiente anarchico (per lo meno italiano) somiglia troppo spesso a una “scena” di identità spettacolari, più che a un movimento (e questa parola indica appunto il “muoversi”, l’opposto della paralisi presaposizionista).

Manca, mi sia concesso il termine, un approccio “fourierista”. Per chi non lo sapesse, Charles Fourier era un utopista francese che immaginava la società ideale come un’armonia di passioni diverse. Per tutti noi esistono atteggiamenti e pulsioni incomprensibili, che non ci sogneremmo mai di fare nostre. Quanti tra noi, ad esempio, amano farsi cacare in faccia? Penso pochi, e personalmente non sono tra questi. Ma ciò non esclude affatto che io e quei pochi potremmo tranquillamente accordarci, organizzarci, persino convivere. Probabilmente, però, non dormiremmo nella stessa camera, per una questione… di odori.

Un approccio di questo tipo, a mio avviso, sarebbe insieme arricchente e liberatorio, dando vita a un concerto senza direttore in cui le stesse dissonanze arricchirebbero l’armonia complessiva. Ottimismo anarchico? Forse. Ma non era un certo Bakunin a dire che la libertà altrui estende la mia all’infinito? Se fossi convinto del contrario cambierei strada. Sono anarchico proprio perché penso che possiamo co-esistere con le nostre differenze, mentre lo Stato è il nemico assoluto della convivenza.

Nelle occupazioni

La paralisi reciproca degli anarchici si avverte al massimo grado laddove la prossimità è maggiore e dove si condivide un pezzo di territorio: nelle occupazioni. Per chiarezza, mi riferisco principalmente (ma non per forza soltanto) agli spazi, ovvero alle occupazioni insieme abitative e “sociali”. Avendo vissuto per diversi anni in spazi di questo tipo, ho ben presenti i problemi che si creano quando non si ragiona in modo fourierista, ma si pretende che gli altri ci somiglino fino ai limiti della clonazione. Chiaramente non tutti gli spazi occupati vedono lo stesso livello di affinità, complicità, progettualità tra i componenti, e più queste saranno significative, più se ne gioveranno l’azione e la convivenza comuni. Ma nella realtà, le occupazioni sono spesso esperienze “spurie”, non solo animate da compagni che hanno tensioni diverse, ma a volte anche da persone con cui, dal punto di vista strettamente “politico”, non condividiamo molto di più di una generica idealità libertaria. Negli spazi occupati va spesso a finire di tutto: dagli appassionati dei concerti agli estrosi del bricolage, dai rivoluzionari più convinti a quanti si trovano lì per ragioni quasi esclusivamente affettive (l’amico, il cugino, il fidanzato di qualcuno). Perché accada è facilmente spiegabile, trattandosi di realtà anche abitative, dove oltre a organizzarsi si vive. I piani della lotta, della progettualità, degli affetti e della convivenza vi si intrecciano, mentre non è affatto scontato che coincidano. Potrò trovarmi molto bene a lottare affianco di qualcuno senza trovarvi la stessa intesa nella convivenza, e viceversa. Potrò avere divergenze profonde con qualche compagno senza dubitare minimamente della sua convinzione rivoluzionaria. E così via. Per tenere insieme tutti questi piani senza perderli, sacrificarli o appiattirli l’uno sull’altro, la sola via è la moltiplicazione dei patti e delle intese, cui può corrispondere anche una moltiplicazione delle assemblee. Assemblee, si badi bene, nel senso di cui sopra: discussioni finalizzate a intendersi, coordinarsi e orientarsi, non semplici chiacchierate in cui scambiarsi i rispettivi punti di vista sul mondo. E quindi, tutti gli occupanti della terra dovrebbero dotarsi di un’assemblea di gestione (vocabolo orrido, lo so) e di un’assemblea di lotta, rigidamente separate? In sé non saprei. Non è possibile stendere una ricetta buona per tutte le realtà, perché ognuna di esse ha appunto caratteristiche specifiche. Per quanto mi riguarda, l’esperienza mi ha portato a preferire delle assemblee fisse e non estemporanee, come minimo poiché penso che permettano una maggiore continuità della discussione, che creino un clima più “serio” e che, paradossalmente, permettano ai singoli una maggiore “libertà”: se c’è un’assemblea fissa saprò in anticipo quale momento della settimana dedicarvi e ciò a volte mi permetterà… anche di saltarla. Più complicato e faticoso quando si cerca di incrociare i momenti liberi di ciascuno, in vista di un incontro in cui si parlerà di un po’ di tutto (dalla parete da dipingere fino alla preparazione del corteo). In seconda battuta, perché le assemblee fisse fungono anche da punto di riferimento, permettendo a più persone di avvicinarsi al posto senza per forza viverci. Quanto a dotarsi di momenti assembleari diversificati (assemblea di convivenza e/o gestione, assemblea di lotta), penso che sia una modalità consigliabile quando la distanza tra i vari piani è piuttosto alta. Tanto per fare un esempio, io non guardo con disprezzo chi è interessato esclusivamente a organizzare concerti (e se in passato l’ho fatto colgo l’occasione per scusarmi). I concerti possono essere importanti da molti punti di vista (dalla raccolta di fondi alla “vita” degli spazi) e il contributo di chi li organizza dovrebbe essere apprezzato. Ma se, moltiplicandosi, finiscono per compromettere altre esigenze (da una quotidianità vivibile all’organizzazione di iniziative conflittuali) bisognerà pure trovare l’occasione più adatta per discuterne. Un’assemblea specifica dedicata alle iniziative “dentro” al posto e alle dinamiche di convivenza mi sembrerebbe in molti casi necessaria. E non si tratterebbe solo di parlare di piatti sporchi. Anche come si vive insieme ha una sua “politicità”, come ce l’ha decidere a chi indirizzare il ricavato d’un benefit o quale libro presentare.

Quanto alle assemblee di lotta, quando emergono tensioni troppo diverse sarei favorevole a crearne anche più di una, oppure a dedicare incontri mirati ad alcuni percorsi specifici. In altri paesi europei (per esempio in Grecia) non è strano che in uno stesso posto si riuniscano più collettivi.

Quando le differenze si riconoscono per quello che sono e si dà loro il giusto spazio, da un lato si accresce l’autonomia dei singoli, dall’altro si dà meno margine alle infinite scuse di cui si dota l’inazione: non mi ascolta nessuno…passano sempre le proposte dei soliti… e via deprimendosi.

Come si vede, si tratta di dinamiche che non concernono solo gli spazi occupati, ma che ritroviamo in un po’ tutte le nostre situazioni. Nelle occupazioni si manifestano in modo acuto i sintomi d’un male più vasto, che tra le altre cose trasforma in ghetti degli spazi di rottura tra i più ricchi di potenzialità (e tra i più temuti dal potere, che infatti cerca in ogni modo di eliminarli). Per rafforzarli e difenderli, sarà urgente sia innalzare barricate sia superare limiti personali e collettivi, a partire dal nostro modo di relazionarci. Imparando a concepire l’anarchismo anche come etica della discussione e dei patti.

Nell’autonomia la passività non ha scuse. Ciò che vuoi fare dipende prima di tutto da te.

Dino Smith