MANETTE DELLA MENTE Note sulla repressione

 

Qual è, in senso strategico, la direzione intrapresa dallo Stato italiano (e non solo) nel suo attuale tentativo di liquidare anarchici e anarchiche?

E più in generale, quali effetti cerca di ottenere la repressione del dissenso radicale, delle idee e delle pratiche sovversive?

Criticare ed attaccare traballanti teoremi giudiziari – e le “prove” a loro sostegno – , è sempre e solo «innocentismo»?

È possibile – almeno nelle condizioni attuali – un’autodifesa collettiva senza attaccare anche il modus operandi della democratica inquisizione, e le sue sempre più incredibili contorsioni retoriche?

Non è velleitario tentare di avanzare contro un nemico armato fino ai denti – di armi in senso stretto come di megafoni propagandistici – senza porsi il problema di pararne i colpi e ricacciargli in gola le sue menzogne?

E in che rapporto possono stare autodifesa collettiva, contro-informazione e rilancio di lotte e pratiche di rivolta?

Infine, un dibattito su tutto ciò può evitare errori di segno opposto (lasciarsi sbranare dalla repressione, o viceversa darle in pasto princìpi irrinunciabili)?

Sono alcune delle domande alle quali cerca di rispondere questo articolo, pubblicato qualche anno fa da un nostro redattore sulla rivista anarchica «i giorni e le notti» (numero 12, gennaio 2021). Lo ripubblichiamo in una versione leggermente riveduta, sperando di alimentare una discussione che non ha perso la sua urgenza. Anzi…

Qui il testo in pdf: manette della mente7

MANETTE DELLA MENTE

Note sulla repressione

… – o c’è la facoltà di dissidenza e cade lo Stato, o si toglie la facoltà di dissidenza e cade la libertà. In che consiste (da questo punto di vista) la libertà? Forse nel poter agire conformemente al governo? Evidentemente no, che questo potere si ha anche nel governo più assoluto del mondo. Essa consiste dunque nel poter agire anche quando l’azione è diretta contro il governo. Ossia, per la libertà si richiede la più perfetta facoltà di dissidenza. Ma questo spezza lo Stato […] Ed è per questo che lo Stato, il quale voglia permanere, non può ammettere le dissidenze e di fatto non le ammette mai.

Giuseppe Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, 1919

In ogni grido di qualunque Uomo,

nel pianto di paura di ogni Bimbo,

in ogni voce e proibizione avverto

le manette forgiate dalla mente.

William Blake, Londra, in Canti dell’innocenza e dell’esperienza, 1794

Un tritacarne. Questa parola mi viene in mentre guardando alle inchieste – e alle condanne – contro compagne e compagni anarchici che si sono succedute tra il 2019 e il 2020. Tritacarne in almeno due sensi: se uno, quello più immediato, è rappresentato dai loro ovvi effetti – devastare e distruggere le vite dei sovversivi –, l’altro mi pare costituito dalle modalità con le quali sempre più spesso vengono condotte le istruttorie. Quando si viene arrestati o ristretti per “terrorismo” all’interno di inchieste che ruotano attorno al reato di «istigazione», come è accaduto almeno nelle operazioni «Scintilla», «Ritrovo» e «Bialystok», ovvero per la redazione di manifesti, volantini, giornali, opuscoli; quando le forme più elementari della solidarietà – come scrivere lettere ai prigionieri, o raccogliere soldi per le spese legali o per il mantenimento in carcere – diventano l’asse attorno a cui ruotano i teoremi giudiziari; o quando un anarchico viene arrestato per «condotta con finalità di terrorismo» (il famigerato articolo 270 sexies, che si comincia piano piano a sperimentare) per essere stato picchiato in carcere dalle guardie, allora si può ben dire che nella macina della Giustizia finisce ogni aspetto della vita. Ovvero, in altri termini, che il meccanismo della colpa d’autore (nel linguaggio giuridico, l’essere colpiti per ciò che si è anziché per ciò che si fa) si va approfondendo fino a raggiungere la sua dimensione più pura e assoluta. Credo che capire come si sia arrivati a ciò, e più in generale attraverso quali modalità lo Stato ristruttura se stesso e la repressione delle lotte, non sia un esercizio meramente filologico, ma che al contrario sia essenziale all’affrontamento pratico della situazione. Partiamo da un tentativo di interpretazione.

In un articolo redazionale del nono numero di questa rivista (L’ora nebbiosa dell’alba. Note sull’operazione anti-anarchica in Trentino) scrivevamo che «la magistratura ha, almeno dagli anni Novanta, una difficoltà: applicare gli impianti associativi all’informalità anarchica». In sostanza – e riassumendo qui quel che abbiamo scritto allora – non è semplice per la magistratura intervenire contro gli anarchici (ovvero contro la loro maniera poco o nient’affatto “strutturata” di organizzarsi) utilizzando articoli pensati per affrontare il movimento operaio storico, con le sue organizzazioni costituite attorno a programmi esposti in modo esplicito per essere compresi dagli sfruttati (è il caso dell’articolo 270); oppure con articoli concepiti per stroncare le formazioni armate (come il 270 bis). Tuttavia, difficoltà non è affatto un sinonimo di impossibilità (come pare aver frainteso qualcuno). Se il sovrano non è affatto tenuto ad essere coerente con le proprie menzogne (appunto perché è il sovrano), potrà pure smentire oggi quel che ha affermato ieri, per poi magari tornare domani sui propri passi, com’è d’altronde evidente da quel ginepraio di contraddizioni e assurdità che viene chiamato giurisprudenza. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se negli anni i vari tentativi di inscrivere gli anarchici nei quadri di una organizzazione “terroristica” o “a delinquere” abbiano prodotto risultati diversi e tra loro stridenti. Tuttavia, il fatto che le varie inchieste abbiano spesso prodotto più assoluzioni che condanne, dovrebbe farci riflettere. Se lo Stato procedesse con la linearità di una macchina, perché non potrebbe semplicemente rinchiudere a vita tutti i suoi pochi nemici dichiarati, o sottoporre a una sorveglianza speciale permanente i suoi più numerosi contestatori? Se tutto si riducesse a un problema materiale (la quantità di posti disponibili nelle galere o di poliziotti in strada), lo Stato magari non riuscirebbe a rinchiudere o a restringere proprio tutti, ma sicuramente potrebbe fare molto di più. Si tratta quindi di capire la natura di questa difficoltà. Da questo punto di vista, la repressione della sovversione anarchica è un prisma che illumina la dinamica più generale del contenimento del dissenso, e allo stesso tempo non può essere compresa se non all’interno di dinamiche più generali.

Partiamo da un presupposto. Lo Stato è allo stesso modo un rapporto sociale e un apparato materiale, fatto tanto di cose quanto di esseri umani; ed è allo stesso tempo una struttura sovrapposta all’insieme della società e una sua parte. Sotto entrambi gli aspetti, quindi, l’elemento umano vi gioca un ruolo fondamentale: da un lato perché il dominio si esercita sugli uomini, e dall’altro perché, in larga parte, è esso stesso fatto di uomini. Per questo la legge, con tutta la sua rigidità, non può prescindere da una sostanza vivente, quindi mobile e non del tutto prevedibile. Questo significa che non solo lo Stato deve tener conto di ciò che gli umani pensano, dicono e fanno concretamente nella società (secondo un modello ancora meccanico che, postulando una scissione netta tra Stato e società, vedrebbe tra loro un semplice gioco di azioni e reazioni), ma anche di ciò che pensano e come potrebbero comportarsi i suoi stessi funzionari. E quindi che si fa? Da un lato si agisce continuamente sulle coscienze di tutti (funzionari compresi) attraverso una sistematica manipolazione delle percezioni (emozioni e concetti) e in particolare del linguaggio, affidata all’industria mediatica e culturale (televisioni e giornali, soprattutto, ma anche scuole, università, “dibattiti” politici e sindacali, ecc.); dall’altro se ne raccolgono i frutti con un costante aggiornamento della giurisprudenza. Si producono nuove leggi, certo, ma allo stesso tempo si predispongono le condizioni per poterle applicare, attraverso la riorganizzazione delle Procure, la gestione delle carceri, l’ostracismo o la promozione di certe correnti all’interno della magistratura e persino della polizia, la rimozione e l’ostacolamento di certi giudici troppo “critici” o “garantisti”… In altre parole, se il dominio vuole che la “gente comune” pensi che nel tale processo si trovino alla sbarra degli autentici “terroristi”, o più in generale dei criminali repellenti e pericolosi, è altrettanto importante che lo pensino i funzionari preposti a condannare o assolvere. La guerra sociale attraversa tutta la vita umana: se essa si combatte ovunque, lo scontro avviene tanto dentro quanto fuori dai palazzi del potere, tanto nelle strade quanto nella coscienza di ognuno, in continua osmosi tra come si pensa e come si vive.

Ecco il peso che ha, in questo momento, la trasformazione della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) in Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA), introdotta quasi in sordina dal «pacchetto sicurezza» Renzi-Alfano-Orlando del 2015. Per chi non lo sapesse, la DNA(A) è un organismo di coordinamento tra tutte le Procure allocate presso le Corti d’Appello, ovvero presso tutti i tribunali dei capoluoghi di provincia, e ovviamente in costante collegamento con i più alti vertici dello Stato (servizi segreti compresi). Oltre a permettere un più agile scambio di informazioni e una più efficace sinergia tra le Procure (come ben si è visto nell’arresto di Juan, per il quale sono si mosse insieme Brescia, Treviso, Trento e Torino), l’accostamento di “antimafia” e “antiterrorismo” e il suo accentramento ai più alti livelli della “cosa pubblica” è, come è già stato scritto di recente (https://ilrovescio.info/2020/07/15/piu-che-unantifona-un-programma/), «un amalgama simbolico che produce effetti reali». Quanti giudici, infatti, sarebbero disposti a rifiutare degli arresti, o a non produrre delle condanne, quando la richiesta arriva da chi combatte il male assoluto (la mafia)? Se questa manovra ha un senso, delle mire e degli esiti evidenti (che molti di noi stanno già patendo sulla propria pelle), e mi pare impossibile dubitarne, in altri casi tocca comprendere andando a tentoni. Non mancano, tuttavia, altri segnali piuttosto chiari che fanno intendere la svolta giuridico-repressiva in atto. Si prendano ad esempio queste parole, pronunciate da un notissimo funzionario di polizia (Lucio Pifferi, capo della Digos di Firenze) nella prima udienza dibattimentale del processo per l’operazione “Panico” in qualità di primo testimone (come per fare gli onori di casa):

La caratteristica principale del Movimento Anarchico è la mancanza di strutture consolidate nel senso che siamo in presenza di gruppi che si radunano presso strutture che vengono occupate per farne sostanzialmente delle sedi, sia di vita sia di riunione tra gli stessi appartenenti al gruppo che con gruppi affini, con un termine che viene utilizzato per l’anarchia, in assenza di una struttura verticistica, questo è un dato che sociologicamente penso sia conosciuto da tutti. In particolare, però, a differenza di gruppi strutturati dell’antagonismo, come possono essere di matrice leninista, che hanno una struttura verticistica con una gerarchia ben precisa, in questi casi si è riscontrato, sempre nell’ambito delle attività investigative o comunque per quello che gli stessi anarchici dicono in loro pubblicazioni, in orizzontalità, una convergenza di ideali per una affinità di pensiero politico. Quindi in ossequio probabilmente alla critica all’esistenza di sovrastrutture e di altro, ognuno nella propria individualità aderisce alla compagine, porta avanti il suo progetto individuale, condividendolo con persone che hanno affinità di pensiero. Infatti si parla di gruppi di affinità, sia per quanto riguarda i rapporti interni la cui coerenza è data dal fatto di vivere insieme, di condividere il pensiero, sia tra gruppi omologhi, nella stessa zona, di altre città o addirittura a livello internazionale, come una recente indagine, Scripta Manent, ha teso a dimostrare proprio come principio associativo, diciamo così, la convergenza su singole tematiche e quindi l’effettuazione di azioni, anche di violenza politica, richiamando gli uni gruppi gli altri.

[nuova domanda del Pm]

Per quanto abbiamo potuto constatare o per quanto risulta in altri procedimenti di questa DIGOS, [le azioni] sono ad iniziativa del singolo, ma il collegamento di argomentazione, diciamo, avviene attraverso la pubblicazione della rivendicazione. Nel senso, esistono delle campagne nel tempo su vari argomenti, nel caso degli anarchici possono essere l’antimilitarismo, la campagna sull’anticarcerario, la campagna contro le grandi opere, in particolare la TAV, che danno l’argomento e poi viene svolto liberamente dai singoli militanti, facendo però riferimento alla campagna generale.

(Trascrizione dell’udienza del 18.10.2018 presso il Tribunale di Firenze)

Si tenga presente, nel leggere queste parole, che non vengono esattamente dall’ultimo degli sbirri (Pifferi è un poliziotto importante che, prima di arrivare a Firenze, dove pare molto in sintonia con la giunta PD-renziana e dove ha determinato un deciso innalzamento di brutalità nella gestione delle piazze e del conflitto sociale, si era già messo in vista a Padova con l’inchiesta “Tramonto” del 2007 contro le cosiddette “nuove Br”)1. Oltre che per il loro significato specifico, queste parole sono istruttive prima di tutto riguardo a come si aggiorna la giurisprudenza dello Stato. Se dire «li reprimiamo perché sono anarchici» svelerebbe il trucco, e non farebbe passare l’aggiustamento cui mira, allora si fanno dei giri di parole in cui i concetti, anziché concatenarsi e “filare”, si accostano semplicemente l’uno all’altro, producendo – più che una vera e propria conclusione logica – un effetto suggestivo. Se questa testimonianza appare piuttosto “schiacciata” sul gruppo di compagni sotto processo – non è affatto vero che tutti gli anarchici «si radunano presso delle strutture occupate», né tantomeno che tutti i partecipanti a un gruppo anarchico vivono per forza insieme – tutti gli altri elementi sono chiaramente riferiti alla generalità del movimento libertario d’azione. Prima, e per gran parte della testimonianza, si fa una semplice descrizione dell’ambiente anarchico, prendendo atto dell’assenza di strutture verticistiche, e del fatto che gli anarchici possono agire fianco a fianco unicamente in virtù di «una convergenza di ideali» – una descrizione che non solo non basta a dimostrare l’esistenza di qualsivoglia “associazione”, ma parrebbe anche smentirla. Nelle ultime, poche righe si arriva invece al teorema vero e proprio. Dopo aver buttato lì, come una mezza premessa e già con un doppio salto logico, ciò che invece si vorrebbe concludere – cioè che la «convergenza su singole tematiche e quindi l’effettuazione di azioni» sono quasi la stessa cosa e bastano a fondare il «principio associativo», come d’altronde il processo “Scripta manent” «ha teso a dimostrare» (e quindi non ha dimostrato) – si arriva dove si vuole arrivare. Qui i salti logici si fanno carpiati, e l’elemento che fa da ponte tra un concetto e l’altro – tecnicamente parlando, quello che si chiama medio del sillogismo – si trasmuta in altro come per magia. Così le «rivendicazioni» delle azioni diventano «campagne [di lotta?] nel tempo su vari argomenti […] che danno l’argomento», al quale «liberamente» aderire. In altri termini, qualcuno teorizza e fa propaganda, qualcuno compie delle azioni, qualcuno compie una o più azioni e ne fa propaganda. Ma in tutto ciò non si capisce né chi «dà l’argomento» né chi «lo svolge», senza peraltro che venga nemmeno specificato come (se lo “svolga” attraverso altra propaganda, o attraverso delle azioni di attacco). A chi ha studiato un po’ di filosofia, pare di trovarsi di fronte a certe pagine di Averroè sull’intelletto unico (al netto, va da sé, della profondità di pensiero e argomentazione). Se per il filosofo arabo, infatti, tutti i pensieri di tutti gli esseri umani provenivano da un’unica intelligenza divina, per questi nuovi inquisitori tutti i pensieri e gli atti degli anarchici sembrano provenire da una sola entità sovrapersonale. Si tratta paradossalmente di un concetto affascinante, perché tutto ciò che ne rimane è l’adesione a un ideale che brilla e illumina come una stella. Ma il suo prodotto pratico è illegalizzare qualsiasi cosa sia fatta da un anarchico. Da notare, poi, che lo schema di Pifferi è esattamente quello che è stato applicato nell’operazione torinese «Scintilla», in cui dei compagni, accusati di aver redatto un opuscolo contro i CIE/CPR, sono stati arrestati come “mandanti” di diverse azioni compiute in tutta Italia contro i moderni campi di concentramento per emigranti. Se questo assurdo teorema non ha poi retto al Riesame, ha comunque permesso delle carcerazioni durate dei mesi. Se ciò che ieri non era giuridicamente possibile oggi lo è, domani potrà “passare” quello che non è passato oggi.

Si accostino adesso queste parole con quelle pronunciate lo scorso luglio davanti alla Commissione Antimafia dal capo della DNAA, Federico Cafiero De Raho, con l’appello alla costruzione di nuove carceri speciali a regime 41 bis e il parallelo tra anarchici e mafiosi. Si noteranno sia lo stesso modo di procedere (per suggestioni e non per argomentazioni) sia le stesse finalità, ovvero reprimere il movimento anarchico con la massima durezza possibile:

più andiamo avanti e più il numero di coloro che sono in carcere aumenta. Vi sono soggetti che costituiscono un grande pericolo per la società. Sono talmente pericolosi che devono essere isolati. Che senso ha permettere un solo colloquio al mese con i familiari se allo stesso tempo i detenuti speciali possono parlare con gli altri tramite le celle vicine? Tutti sentono quello che qualcuno vuole comunicare.

E in un altro luogo della conferenza:

il pericolo non si nasconde solo nella capacità della criminalità organizzata di infiltrarsi nelle imprese ma anche nella storica attitudine dei clan di sfruttare la povertà per ottenere consenso […] Le mafie utilizzano il sistema della solidarietà e della vicinanza per creare proselitismo e consenso sociale nelle fasce deboli della povertà.

Infine spuntano fuori gli anarchici, che

approfittano delle difficoltà sociali e istituzionali dello Stato per stimolare i focolai di rivolta. Nel mondo anarchico c’è del resto un processo insurrezionale che sostiene che alla base della diffusione del coronavirus vi sia il mondo capitalistico, per cui è necessario sostenere e sobillare le manifestazioni di piazza.

Se il ragionamento di De Raho appare meno contorto di quello di Pifferi – ma d’altronde quando si parla di “mafia” la strada è sempre in discesa – , il discorso trabocca falsità da ogni lato. A parte l’accostamento di toni pietistici e allarmistici, dove al tono in minore segue sempre un crescendo di ferocia repressiva (il numero di carcerati aumenta, ma d’altronde questi costituiscono un grande pericolo e devono essere isolati come bestie ringhiose; non ha senso concedere un solo colloquio al mese ai detenuti speciali se poi questi possono addirittura comunicare coi vicini di cella ecc.), che senso ha sostenere la necessità di più carceri speciali e di un maggiore isolamento se ciò che qualcuno vuole comunicare viene sentito da “tutti”, compreso chi li sorveglia? E che relazione ci sarebbe tra le “fasce deboli della povertà” e le infiltrazioni nell’imprenditoria, cioè tra i ricchi? E che senso ha parlare di «un processo insurrezionale all’interno del mondo anarchico»? L’intento, qui, è semplicemente preparare la strada al 41 bis per tutti i compagni e le compagne (di cui nel 2019 l’imprigionamento delle compagne all’Aquila, carcere-simbolo del 41 bis, è stato una sorta di prova generale). E per prepararla, si ribadisce implicitamente lo stesso teorema che i giornalisti, in occasione delle rivolte carcerarie di marzo, hanno gridato esplicitamente: anarchici e mafiosi soffierebbero entrambi sul fuoco della povertà e del disagio da coronavirus. C’è da rimanerci di sasso. Se dovrebbe essere «sociologicamente noto» – per dirla col dottor Pifferi – come per gli anarchici la mafia sia un nemico quanto lo Stato, dovrebbe essere altrettanto evidente che la criminalità organizzata, al pari di ogni altra impresa, vede garantiti i propri profitti non dal conflitto ma dalla pace sociale – e questo in carcere come in strada. Vediamo anche qui, insomma, la medesima «circolarità tra manipolazione mediatica della realtà, slittamenti semantici nel linguaggio dello Stato e ristrutturazione materiale delle catene di comando. Si procede per acquisizioni, per tentativi, per forzature, il cui andamento non è separabile dalle fasi più generali che attraversano lo Stato e il capitalismo» (ilrovescio.info, ibidem).

Verrebbe da chiedersi a che punto siamo arrivati, come organizzazione sociale, se simili supercazzole di bassa lega sono diventate tecniche permanenti di governo. Pare, in questa prima metà del nuovo secolo, che si stia realizzando quella che Herbert Marcuse, nel suo famoso libro L’uomo a una dimensione (1964), chiamava «la chiusura dell’universo di discorso»: la formazione di una lingua intimamente repressiva che, «identificando cose e persone con la loro funzione» e «il soggetto col suo predicato», «impone senza tregua delle immagini e milita contro lo sviluppo e l’espressione di concetti». L’esito ultimo di questo «linguaggio di una concretezza sopraffattoria» sarebbe stato, secondo Marcuse, di «respingere il riconoscimento dei fattori che operano dietro i fatti e in tal modo rifiutare di riconoscere i fatti ed il loro contenuto storico». Pensiamo quanto è all’opera, questa «concretezza sopraffattoria» che identifica gli individui con la «funzione» loro attribuita, in tutta la costruzione mediatica (e giudiziaria) attorno alla mafia, sulla quale a sua volta si regge tutto il sistema del 41 bis. Ogni giorno, nel nostro disgraziato Paese, conviviamo con delle strutture di tortura sistematica che, oltre ad alcuni compagni e qualche boss più o meno caduto in disgrazia, rinchiudono nel più completo isolamento relazionale e sensoriale migliaia di proletari del meridione, la gran maggioranza dei quali, per i reati effettivamente compiuti, uscirebbe dopo pochi anni se non fosse colpita dall’accusa di associazione mafiosa. Se già la tortura in sé, anche praticata sugli individui che si sono macchiati delle colpe più repellenti, dovrebbe per lo meno sollevare qualche perplessità etica, nella realtà si tratta spesso di persone che hanno spacciato o fatto rapine per conto di terzi senza neanche sapere che questi fossero mafiosi, o che sono state semplicemente incastrate in retate spettacolari orchestrate da qualche sbirro carrierista. Mentre i veri mafiosi continuano a fare affari (svolgendo quei lavori sporchi, come lo smaltimento di rifiuti pericolosi, senza i quali le imprese “legali” non riuscirebbero a fatturare), la rimozione dei fattori che stanno dietro ai fatti e la sostituzione del concetto di mafia con la sua immagine mediatica permette al capitalismo di continuare a fare i propri giochi, con mezzi legali e illegali. Mentre la narrazione dei “mafiosi dietro le rivolte” viene replicata anche quando le sommosse avvengono in strada, come nel caso di Napoli (dove “l’aggravante camorristica”, ancora evocata dai media, viene contestata ad alcuni giovani che avrebbero preso parte agli scontri dello scorso ottobre), i magistrati “antimafia” stanno scalando i vertici del DAP, e non c’è da attendersene altro che un peggioramento del carcere nel suo complesso. Infine, i famigerati secondini del GOM (il Gruppo Operativo Mobile istituito nel 1999 per gestire le carceri speciali, già distintosi nei pestaggi di Sassari del 2000 e per le terribili torture di Bolzaneto nel 2001) conquistano, col «Decreto Bonafede» di quest’estate, la più totale autonomia amministrativa nella gestione dei bracci 41 bis. Potenza di una semplice parola, quando si hanno i mezzi per ripeterla all’infinito, nel produrre effetti sulla realtà.

Altro esempio di questa concretezza sopraffattoria – forse il più allucinante di tutti – è quello del “terrorismo islamico”, con individui incarcerati in 41 bis o intere famiglie espulse per aver guardato un video su youtube o messo un “like” su Facebook. Oltre alle conseguenze generali di questo racconto mediatico su tutta la società, che ha scandito ogni impennata securitaria degli ultimi vent’anni prima dell’arrivo del Covid (nel 2001 dopo l’11 settembre, nel 2005-2006 dopo gli attentati di Londra, nel 2015 dopo Charlie Hebdo e “la notte del Bataclan”…), bisognerebbe pensare anche alle loro conseguenze particolari nel controllo, nell’oppressione e nello sfruttamento delle masse immigrate islamiche. Per dirne una, pensiamo alla circolarità esistente tra paura del mostro islamista, criminalizzazione degli immigrati in genere, ricatto del permesso di soggiorno e imposizione di condizioni di lavoro sempre più dure e degradate. Un esempio emblematico di come una narrazione può produrre effetti apparenti completamente diversi da quelli reali.

Un terzo esempio potrà riguardarci ancora più da vicino. Pensiamo all’espressione «i violenti», con la quale i media designano i manifestanti che si scontrano con la polizia, o più in generale i compagni. Se si dicesse «gli anarchici», «i comunisti», «i ribelli» o «i dissidenti», apparirebbe chiaro come dietro la violenza del conflitto sociale agiscano idee, bisogni o malcontento di fronte a problemi reali. Nei termini di Marcuse, se il soggetto fosse correttamente nominato, il suo significato «eccederebbe» ciò che fa (chi “lavora” per la mafia non è per forza un mafioso, come chi si scontra con la polizia non è per forza un violento tout court), rivelando un mondo dietro di sé (e quindi aprendo alla possibilità di un futuro diverso). Questa operazione può funzionare nei due sensi, sottraendo significato agli eventi oppure attribuendolo a ciò che è insignificante. Mentre il linguaggio mediatico è sempre pronto a parlare di «rivolta» per una qualsiasi petizione o bagatella di vicinato (pensiamo a certi ameni titoli ameni da gazzetta, tipo: «Il quartiere non vuole il nuovo semaforo, è rivolta»), quando alcuni si rivoltano davvero sono automaticamente identificati con quel po’ di violenza che praticano, e quest’ultima diventa la Violenza in senso assoluto. Nelle aule di tribunale non si fa che raccogliere i risultati di questa frode continuamente perpetrata. L’assenza di troppe orecchie indiscrete permette di portarla all’estremo. Così, se la giurisprudenza elaborata dagli anni Ottanta non è granché adatta agli anarchici, la si ristruttura con gli stratagemmi più vili. Se tutta la legislazione “antiterrorismo”, da quando esiste, nega ogni dimensione “politica” alla sovversione e al medesimo tempo la trasforma in un’aggravante, oggi si sostiene che gli anarchici sono inquadrabili in delle «associazioni» perché condividono lo stesso ideale e al medesimo tempo di non perseguirli per le loro idee. Contemporaneamente, per prove ed errori, si cerca di far passare il concetto che la nota direttiva-quadro del 2002 in materia di “terrorismo” del Consiglio Europeo (recepita dal “nostro” 270 sexies) dice già esplicitamente, ovvero che «terrorismo» e «lotta» sono sinonimi. Va da sé come una simile giurisprudenza non sia pericolosa solo per gli anarchici e i rivoluzionari in genere, ma per tutti quelli che in un modo o nell’altro, di fronte a un’ingiustizia, si troveranno a dire «Signornò!». Attraverso continue giustapposizioni (nel caso specifico, tra la lotta a Stato e capitale e il cercare di «intimidire» una generica «popolazione»), la lingua di legno del dominio rotola da un controsenso all’altro, sperando che i più non sentano o perdano il filo, e che nessuno pensi ad alta voce. Ma questa voce, chi potrebbe alzarla al posto nostro?

Viviamo in una società in cui la legge – questo doppio ideologico della polizia – ha colonizzato le menti quanto le divise hanno colonizzato le strade e i corpi hanno riempito le carceri. Cambiano i partiti e i volti dei politici, ma il “dibattito pubblico” continua a essere spartito tra becero securitarismo di destra – con la sua retorica della paura – e viscido giustizialismo di sinistra – con la sua retorica della legalità «dalla parte della povera gente». Questi gemelli diversi alimentano, ognuno a suo modo, la marcia di un mondo di scarponi sulla faccia di tutti gli sfruttati e i diseredati. Il “dibattito pubblico” – questa finzione delle finzioni costituita dall’industria culturale, dalla televisione, dalla stampa e in ultimo dalla legislazione – ne accompagna l’incedere e ne prepara l’ulteriore avanzata. Se schiacciare chi disturba il manovratore ne è una componente strategica, non è strano che sempre più spesso passi sopra di noi. Che fare dunque, quando ci ritroviamo calpestati?

Non tollerare gli scarponi addosso, e non abituarsi al loro peso, dovrebbe essere buon senso, anzi: il solo punto di partenza. Perché senza di esso non è possibile nessun altro movimento. Ma nello strano “Movimento” di questo Paese, spesso la semplicità non è di casa. Strani fantasmi – «il vittimismo», «l’innocentismo», «la politica»… – si levano dalle macerie delle lotte, contribuendo a paralizzarci. Si tratta di forze oscure, evocate da pulsioni eterogenee e contraddittorie: il pensiero delle lacrime di tutti gli oppressi della terra, che ci fa vergognare delle nostre; il timore di essere «recuperati» da quel «dibattito democratico» che ogni giorno ci seppellisce; e poi, via via sempre più giù, l’orgoglio più cieco e sordo, il conformismo più codino, il giudizio dei “compagni” che incute più terrore della polizia. Su tutto, un cumulo di dibattiti a metà, di sottintesi e non detti. Col risultato che per anni ci si è lasciati piovere addosso le accuse più assurde, i teoremi più cervellotici, le porcherie mediatiche più rivoltanti senza colpo ferire, in nome di una bizzarra “coerenza” e di un rigorismo rivoluzionario del tutto astratto.

C’è chi ricorda frequentemente che «è normale che lo Stato reprima». Ne consegue che “pretendere” che non reprima, o reprima di meno – ovvero contestarne e contrastarne le retoriche sempre più illogiche – sarebbe un residuo di garantismo democratico inadeguato e indegno di un anarchico. La “parola” andrebbe lasciata solo ai fatti e alle azioni. A parte il problema che di questa posizione bisognerebbe poi farsi carico (e mi pare che nessuno sia in grado di piegare concretamente la volontà dello Stato attraverso degli attacchi, al di là delle sue sincere intenzioni), si tratta in realtà, a mio avviso, di un falso ragionamento. Se trovarsi a masticare delle questioni giuridiche ci fa sentire il sapore della contraddizione, bisognerebbe anche pensare che questa contraddizione non l’abbiamo certo creata noi: la stiamo semplicemente mostrando per quella che è. Come ricorda anche il filosofo, è lo Stato che pretende di essere compatibile con la libertà. Da parte nostra abbiamo sempre sostenuto il contrario. Ma come suggerirlo a chi non la pensa già come noi?

Con tutta la nostra estraneità alle molteplici, velenose dinamiche di questo mondo inquinato dall’autorità e dalla merce, è comunque su questa terra che ci troviamo ad agire. Ed è con questa lingua – insieme un prodotto di questo mondo e uno tra gli strumenti della sua riproduzione – che ci troviamo a parlare. La condizione dell’anarchico è un quindi il paradosso per eccellenza in una realtà sempre paradossale (l’intera esistenza, infatti, non è mai immune da aporie e contraddizioni). L’anarchico non solo vuole realizzare la massima libertà possibile, ma vuole realizzarla con mezzi libertari – ovvero tendenti alla libertà – poiché crede che siano i soli adeguati ai fini che si prefigge. Ma dove trovarli, questi strumenti, se tutto è infine inquinato da autorità e sfruttamento? Potremmo realizzare un avvenire libero dal denaro se, nel qui e ora della lotta, ci rifiutassimo sempre e comunque di usarlo? Arriveremo a liberarci dei tribunali se oggi non ci facciamo assistere da dei bravi avvocati? Potremmo parlare di libertà senza usare una lingua piena di incrostazioni autoritarie (la sola che abbiamo)?

Ciò che fa la differenza è mantenere intatta la propria disponibilità allo stravolgimento e al conflitto. Se niente ci libera fino in fondo dalla contraddizione, l’unica scelta è subirla o cercare di allargarla a partire dai mezzi che si hanno concretamente a disposizione. Non c’è coerenza tra mezzi e fini che ci liberi dalla necessità di partire da ciò che è per arrivare a ciò che potrà essere, di forzare il possibile fino a realizzare ciò che pare impossibile.

In una vecchia discussione dei primi anni Novanta riguardo la condotta rivoluzionaria nei processi, nei quali alcuni compagni rifiutavano di farsi assistere da avvocati per una scelta di radicale rifiuto della Giustizia, Alfredo Maria Bonanno criticava questa posizione affermando che un compagno deve sapersi preservare non per paura, ma per senso di responsabilità verso i progetti intrapresi, la cui continuazione sarebbe impossibile se fosse interrotta tutte le volte da carcerazioni per delle bagatelle: «la difesa, con ogni mezzo, in tutti i campi, con la coerenza e la correttezza che solo il rivoluzionario stesso può scegliere e decidere di imporre al nemico, è quindi un obbligo che egli non ha tanto verso se stesso, […] ma verso il proprio progetto, verso gli altri compagni che con lui stanno sviluppandolo, verso gli sfruttati e gli oppressi che potranno (oppure non potranno, questo è un altro problema), ricavarne beneficio di liberazione» (Qualche considerazione di un frequentatore di tribunali, in «Anarchismo», numero 67, 1991). Non solo sono d’accordo, ma credo che questo senso di responsabilità andrebbe anche esteso all’affrontamento in generale della repressione e delle sue retoriche di legno che, se non contrastate efficacemente, dilagano fino a impedire di fare qualsiasi cosa. Partendo dal presupposto che un fascicolo giudiziario non potrà mai rappresentarci, è un caso raro non avere proprio nulla da dire su una qualche indagine che ci riguarda. Se anche la descrizione degli avvenimenti, sul piano fattuale, fosse sostanzialmente corretta (e avessimo pure compiuto tutte le azioni di cui siamo accusati), sarebbe davvero difficile non imbatterci in qualcosa che non ci torna. I fatti possono essere più o meno quelli, ma il modo di “guardarli”, di “interpretarli”, difficilmente sarà lo stesso. Pensiamo ad esempio a quante volte un’azione di attacco perfettamente mirata, realizzata con attenzione e prudenza, viene presentata come una forma di violenza indiscriminata (magari secondo il cliché del «avrebbe potuto colpire un passante»… un passante che, guarda caso, non passa mai); o a quante volte abbiamo visto dipingere i nostri rapporti secondo gli schemi di un’organizzazione gerarchica. Si tratta di un conflitto di valori, ed è questo chiaramente il piano più importante su cui battersi. Primo, perché non si può permettere al nemico di stravolgere e insozzare le nostre idee; secondo, perché su questo piano è possibile un rilancio di temi, ragioni e pratiche di lotta (se siamo accusati, poniamo, di un’azione contro il nucleare, l’accusa potrà divenire un’occasione in più per opporsi alla dittatura dell’atomo). Tuttavia, credo che di fronte alla demenzialità bestiale di certe “prove” malamente confezionate, o alla malafede di certe accuse, bisognerebbe esprimersi – con rabbia e forza – anche sul piano dei fatti. Se, per fare un esempio, un compagno viene “visto” da uno sbirro dove non poteva essere; o se un giudice ignora bellamente una prova che scagiona un accusato; questi elementi non possono restare confinati dentro un’aula di tribunale, poiché equivarrebbe a lasciar fare al nemico il suo gioco. Inoltre, di fronte a teoremi particolarmente assurdi (come, per intenderci con un esempio, quello che indica gli autori di un opuscolo come “mandanti” di azioni), anche parlare di “montature” non dovrebbe essere per forza un tabù.

Se non è possibile apparecchiare ricette buone per tutti i processi e le inchieste (i quali, pur nel ricorrere di dinamiche similari, sono sempre diversi gli uni dagli altri), si dovrebbe sempre valutare con attenzione come miscelare questi due aspetti: il piano dei valori (che rinvia a quello del rilancio di idee, pratiche, prospettive di intervento) e il piano dei fatti (che rinvia invece all’autodifesa pura e semplice). «Lasciare il piano dei fatti agli avvocati», come tante volte si è sentito dire, è una risposta semplicistica che non mi ha mai del tutto convinto e che sotto sotto può nascondere un residuo di fede nell’imparzialità della Giustizia. Essere giudicati con un minimo di “obiettività” o non vedere le proprie ragioni del tutto ignorate, non è affatto qualcosa di scontato e che il nemico ci deve, ma è esso stesso il prodotto di rapporti di forza.

Così io non vedo niente di male nel rilevare (come è stato fatto in un comizio in Trentino in seguito agli arresti del 2019) che i danneggiamenti a un’agenzia interinale, a una filiale Unicredit e alla sede della Lega di Ala erano stati compiuti con dei petardi e non con la dinamite (ciò che invece era stato scritto da alcuni giornali locali). Si può ben chiamare «petardo» un petardo, se si è poi disposti a chiamare «bomba» una bomba e «attacco incendiario» un incendio, quando chiamare le cose col loro nome non ci fa comodo.

Si consideri poi che, in questa specifica fase storica, tutti e tutte quante avremo sempre più a che fare con le prove dette «scientifiche» (una parola dalla quale un compagno avvocato, con un sorriso beffardo, ci consigliava di guardarci bene), una su tutte quella del DNA. Se parlarne in questa sede sarebbe lungo, e peraltro c’è già chi l’ha fatto molto bene (si veda Il mondo in uno sputo, https://www.finimondo.org/node/1884), qui basti dire che la genetica forense apre a un livello altissimo di manipolazione e fabbricazione delle “prove”; mentre l’esperienza giudiziaria (non solo dei nostri compagni, ma anche in processi per reati “comuni”) ha mostrato finora una mostruosa supinità dei giudici alle perizie più raffazzonate della pubblica accusa e una deliberata indifferenza verso quelle «di parte». Se la verità non è sempre rivoluzionaria, la menzogna sistematica lavora per lo Stato. Contestarla può, e a volte deve essere parte di una critica più vasta a tutti quei meccanismi con cui si tenta di mettere fuori gioco non solo l’anarchismo, ma in generale ogni lotta. Se ci si pensa bene, non si tratta solo di una questione di autodifesa collettiva, ma di qualcosa di più. In un’epoca di caduta verticale della coscienza, agli anarchici tocca essere anche la cattiva coscienza di questa società. Quando il giustizialismo dilaga, chi parlerà dell’orrore del 41 bis, se non lo facciamo noi? Chi, se non noi, può strappare la maschera alla Giustizia?

Dalle microspie (e ultimamente anche le telecamere) nelle abitazioni, fino all’uso “creativo” del 270 bis, passando per la riscoperta del reato di devastazione e saccheggio o dalla contestazione di associazione a delinquere, negli ultimi vent’anni gli anarchici sono stati – ovviamente loro malgrado – le cavie di un laboratorio repressivo in cui si approntano gli strumenti per stroncare ogni “antagonismo sociale”. Con tutto l’amore che portiamo al nostro ideale, sarebbe ingenuo pensare di essere colpiti per l’effettiva offensività che siamo in grado di esprimere. Se le idee e le pratiche anarchiche – ovvero la sola proposta coerente di autorganizzazione per la lotta – contengono potenzialità pericolose per il dominio in un’èra di impoverimento e disfacimento sociale ed ecologico, è altrettanto intuitivo che lo Stato cercherà sempre di togliersi dai piedi chiunque lo intralci. In questo senso, dentro e fuori dai tribunali, abbiamo una responsabilità non solo verso i nostri compagni e compagne in carcere, ma verso tutti quelli che provano e proveranno a lottare. Se spesso tacere è un dovere di complicità verso chi rischia quanto o più di noi per le nostre stesse idee o per tensioni similari, altre volte bisogna urlare le proprie ragioni avendole ben chiare in testa. Se il nemico cerca di stringere le manette attorno alle menti per meglio rinchiudere i corpi, cercare di spezzarle è un nostro chiaro dovere.

L’assenza di un confronto approfondito, negli anni, su questi temi, ci ha fatto troppe volte ammutolire o balbettare quando invece dovevamo parlare forte e chiaro. Questa assenza, a mio parere, ha tolto forza allo stesso agire. Il confronto sulle inchieste e sulle loro retoriche, infatti, non serve solo ad acquisire maggiore consapevolezza – cosa già fondamentale –, ma è anche il solo modo per contrattaccare e avanzare contro la repressione sapendo dove si vuole andare. Lo snobismo con cui a volte si guarda alle iniziative agitatorie – tutto ciò che si colloca a metà strada, per capirci, tra il “presidio” e l’azione diretta – aggiunge degli ostacoli ulteriori, frenando la sperimentazione e lo sviluppo di conoscenze e affinità (che di rado possono cominciare con delle azioni di guerriglia). Credo che l’impasse in cui molte volte si trovano le varie “assemblee contro la repressione” nasca da tutto ciò.

Per capirci, può giovare un esempio concreto. Dal mese di settembre in avanti, le iniziative per non far cadere nel silenzio la strage compiuta dallo Stato nelle carceri e quelle in solidarietà con gli imputati del processo «Scripta Manent» e di Juan (accusati proprio di strage) si sono intrecciate. «Stragista è lo Stato» – un concetto semplice, per gli anarchici persino banale – ha consentito un certo posizionamento di base, dando anche l’occasione di spiegare perché la violenza rivoluzionaria praticata e difesa dagli anarchici non è mai stragista. Visione etica del mondo, denuncia dell’operato dello Stato e difesa dei compagni sotto processo hanno offerto un’intelaiatura di discorso che poi ognuno poteva declinare a modo suo. Così è stato: nelle mostre, nei comizi, negli approfondimenti in radio, nei manifesti, nelle azioni. Ora, quell’intreccio è stato possibile per almeno due elementi: la conoscenza precisa e non generica delle accuse mosse agli imputati; le dichiarazioni fatte in aula da alcuni di loro sull’inaccettabilità etica dell’accusa di strage. Purtroppo quella circolarità – tra conoscenza delle inchieste e discorso nostro, tra parole in aula e iniziative fuori – si è sviluppata soprattutto nelle battute finali del processo «Scripta Manent». E vale davvero la pena di riflettere sulle ragioni di quel ritardo (riflettere: non puntare il dito). Sarebbe cambiato l’esito di una sentenza già scritta? Probabilmente no (anche se non possiamo saperlo). Sarebbe però cambiato qualcos’altro: una solidarietà che sa cosa dire e cosa fare non disperde (o disperde meno) le proprie forze.

Più il discorso del nemico è debole, contraddittorio o eticamente inaccettabile da un punto di vista anarchico, e più la critica rivoluzionaria può trovare angoli di attacco e occasioni per esercitarsi. Per “dire” qualcosa, un movimento rivoluzionario non dovrebbe rifuggire quelle contraddizioni, ma coglierle, esaminarle e farle saltare (senza dimenticare che l’ironia, contro le assurdità del potere, può rivelarsi spesso un’alleata preziosa). Solo da ciò può nascere quella circolarità reale – dal pensiero all’azione e viceversa – che spezza la circolarità fittizia della Legge, quando questa pretende di conciliare l’inconciliabile (lo Stato e il dissenso, l’autorità e la libertà).

Un’ultima nota, un po’ pessimista ma per me doverosa. Mi rendo conto di quanto ragionamenti del genere possano sembrare un po’ fuoritempo in un momento come questo, quando si è stretti tra la fame e una restrizione generalizzata della libertà. Se in generale i ragionamenti contro carcere e Giustizia non trovano molto ascolto, adesso la “gente” ha ben altro a cui pensare che la repressione degli anarchici. Né vale più granché quel discorso che a volte abbiamo fatto – «oggi colpiscono noi per attaccare poi la libertà di tutti» –, quando questo poi è già qui e la dittatura orwelliana sembra ormai arrivata. Bisogna anche dirsi con franchezza, dopo tante parole, che più ci avvicineremo al dunque e più le chiacchiere staranno a zero. Tuttavia, viviamo in tempi imprevedibili, dove in mezzo alla militarizzazione dilagante paiono serpeggiare di tanto in tanto un caos e una rabbia che possono aprire delle brecce. E forse, in mezzo alle brecce che si apriranno, questi granelli di teoria potranno tornare utili.

Dorcas Giustini

[gennaio 2021]

 

1Circa un anno fa Lucio Pifferi è stato promosso ai vertici dell’Antiterrorismo nazionale. [nota del novembre 2022]