Strade comode
«Negli animi come nei paesi/ dov’erano sentieri scoscesi/ hanno fatto strade comode».
Più la macchina tecnologica cancella gli attriti – le resistenze degli sfruttati e degli umani, gli ostacoli materiali costituiti da valli, boschi, montagne –, più la vita sociale rinchiusa diventa oggetto di sperimentazione. Più il laboratorio tende a confondersi con il mondo, più lo spazio aperto da un esperimento si allarga subito ad un altro (inizialmente non previsto, perché non ancora tecnicamente sfruttabile).
Il massimo grado di malleabilità della vita sociale lo si raggiunge in guerra. Di conseguenza, ogni fuga in avanti tecnologica è preparata e accompagnata, anche in tempo di “pace”, da metafore, codici linguistici e mobilitazione psicologica di tipo bellico. Il che non comporta soltanto un sovrappiù di brutalità mediatica e repressiva, ma anche e soprattutto un sistema di trincee psico-morali finalizzate a tenere i contestatori alla larga e far così passare più agevolmente armi e bagagli del dominio. A un passo dal burrone a cui le nuove strade comode conducono – e a cui i vecchi sentieri scoscesi rendevano come minimo più tortuoso l’accesso –, sembra ormai troppo tardi per cambiare direzione; mentre è perfettamente maturo il tempo per gli esperti di burroni.
Ecco due notizie dal fronte arrivate questa settimana.
«Se avete idee, o semplici progetti pilota da collaudare prima della produzione di massa, potete inviarli a noi e vi spiegheremo come procedere. E alla fine avrete il vostro timbro, “testato sul campo”. Le startup tornano indietro con prodotti che sono competitivi sul mercato perché sono stati testati sul campo». A parlare così non è un normale cliente o collaudatore di automobili, software o termostati digitali, ma il generale Volodymyr Havrylov, viceministro ucraino della Difesa. La platea a cui si rivolge è la National Defense Industrial Association Future Force Capabilities, che ha tenuto di recente la propria conferenza nazionale ad Austin, nel Texas. Il ragionamento del generale ucraino – riportato il 21 settembre dalla rivista specializzata «Defense News» – non fa una piega. La parte preponderante degli investimenti nella ricerca tecnoscientifica e nell’innovazione high tech è diretta e assorbita dalla macchina bellica. La natura “duale” di tale ricerca e di tali innovazioni ne permette un impiego parziale anche sul “fronte civile”, ma il campo di battaglia ne costituisce da sempre il motore. La guerra in Ucraina è in tal senso un’occasione straordinaria per il complesso militare-industriale statunitense (e non solo). Questo per due ragioni: si tratta per gli USA del primo conflitto non assimmetrico dalla Seconda Guerra Mondiale; gli Stati Uniti possono testare il proprio apparato – intelligenza artificiale, satelliti, droni, addestratori militari, armi a controllo algoritmico, sistemi missilistici a lunga gittata ecc. – senza impiegare direttamente i propri boys. Se c’è gente al mondo a cui non conviene affatto la pace, questi sono senz’altro i gentiluomini riuniti in Texas. Che poi la strada comoda apertasi per loro in Ucraina – preparata con cura dalla Nato, dal Fondo Monetario Internazionale, dalle multinazionali occidentali, ecc. – conduca dritta al burrone della guerra nucleare, non è faccenda che li preoccupi. Ogni aumento di potenza porta profitto, dovesse pure coincidere, il nuovo campo di sperimentazione, con la cancellazione del mondo. Solo la materia umana e proletaria può disertare e sabotare questo esperimento su scala internazionale.
Altro fronte. Chi pensa che la «guerra al virus» abbia finito di produrre merci e occasioni d’innovazione tecnologica, si sbaglia di grosso. Leggiamo sull’«Ansa» del 20 settembre: «Una mascherina altamente sensibile e “intelligente” potrà in futuro avvisare chi la indossa tramite i propri dispositivi mobili entro 10 minuti se nell’aria circostante sono presenti agenti patogeni come il virus Sars-Cov-2 o quello dell’influenza. Ad averla creata e presentarla sono gli studiosi della Shanghai Tongji University, in un articolo pubblicato sulla rivista “Matter”. La maschera bioelettronica è in grado di rilevare virus respiratori comuni, inclusi l’influenza e il coronavirus, nell’aria in goccioline o aerosol». Insomma, biosensori e smartphone con un corpo in mezzo: «Il team ha progettato un piccolo sensore con aptameri, che sono un tipo di molecola sintetica in grado di identificare proteine uniche di agenti patogeni come gli anticorpi. Una volta che gli aptameri si legano alle proteine-bersaglio nell’aria, un dispositivo collegato amplificherà il segnale e avviserà coloro che li indossano tramite i telefonini». Un dispositivo ovviamente adattabile alle nuove esigenze di un’umanità resiliente in un mondo di nocività: «In futuro, se emergesse un nuovo virus respiratorio, secondo gli studiosi si potrebbe facilmente aggiornare il design del sensore per rilevare i nuovi agenti patogeni».
Siccome le trincee psico-morali sono anch’esse adattabili («l’Ucraina non ha forse il diritto di difendersi?»; «non vorrete mica negare che i virus esistano?»), prepariamoci per tempo a dover rispondere alla domanda: perché vi rifiutate di indossare tali mascherine? Tra le risposte possibili: perché questa logica delle cose (connesse) ci porta dritti ai nanosensori ingeribili e “monitorabili” grazie alla telemedicina. Negli animi come nei paesi, dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i sentieri scoscesi, cioè i punti di appoggio di un ammutinamento possibile. Prima che le strade comode ci conducano a ranghi compatti verso il burrone dell’incarcerazione digitale.