Luci da dietro la scena (IV)

Il parco ecologico, i topi e il battello

Come ben sapete la preoccupazione ecologica tende, in certi ambienti irrazionalisti, a trasformarsi in una sorta di catastrofismo millenarista: ne scaturisce un rifiuto preconcetto dello sviluppo produttivo considerato talora come fattore degenerativo di un supposto paradiso perduto e talaltra come ultimo ostacolo verso l’edificazione di un paradiso infine ritrovato, nel quale convergono tendenze oscurantiste ed estremismi distruttivi. […] Tali aberrazioni ideologiche vanno battute, non già per la loro pericolosità sociale immediata, ma perché esse costituiscono il fertile humus da cui potrebbe germinare una rinuncia dell’uomo a padroneggiare la natura e il mondo.

E, ove l’uomo – beninteso in quanto specie – cessasse di considerarsi proprietario della natura, la conseguenza immediata sarebbe l’arresto irreversibile dello sviluppo produttivo.

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Il passaggio è arduo ed equilibristico ma è l’unico praticabile e, almeno, bisogna far credere che sia l’unico; si tratterà perciò di indurre nel singolo la convinzione che la natura è proprietà della specie, che è l’unico capitale di un capitalista collettivo – gli uomini, appunto – e che pertanto va plasmata ad immagine e somiglianza della collettività umana. Lo sviluppo produttivo è oggi possibile soltanto se questa convinzione verrà fatta propria dalle masse ed informerà i loro desideri.

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Ma in che modo rieducare al collettivismo proprietario una popolazione ormai degenerata da secoli di individualismo concorrenziale? Popolarizzando certi valori, un tempo corredo delle classi dominanti, che lo sviluppo capitalistico ha finora negato ai ceti subalterni. Questi ultimi, secolarmente esclusi da ogni gioia terrena, capiranno allora per la prima volta che la quantità e il fittizio, unico cibo che il capitale ha loro offerto, sono ben poca cosa se comprati ai piaceri della qualità e dell’autentico che la natura, divenuta capitale collettivo, sarà in grado di elargire; ed ecco che dimenticheranno per un altro po’ – forse computabile in decenni – che «la merce non sfama l’uomo», come suona l’aforisma di un utopista di cui ora mi sfugge il nome.

[…] ma perché ciò avvenga occorre non già la natura quale essa potrebbe risultare dallo sfacelo produttivo, bensì una natura ricostruita ad hoc, un parco naturale esteso a tutto il pianeta, insomma. L’appagamento che si ricava dall’osservazione della natura può aver luogo soltanto a condizione che essa sia stata preventivamente valorizzata, trasformata in parco nazionale, in riserva ecologica, in palcoscenico della biologia, in museo del divenire.

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È certo che il piano di riconversione della natura distoglierà qualche energia produttiva dai settori tradizionali e sarà necessario, qua e là, abbattere qualche officina; male, quest’ultimo, abbondantemente ripagato dal fatto che la legge del valore potrà finalmente dispiegare i suoi benefici effetti anche nell’ambito della biologia, attribuendo un prezzo alla natura stessa e, quel che più conta, ai suoi fruitori. Così finalmente il capitale avrà portato a compimento la sua opera più elevata: la produzione dei rapporti degli uomini fra loro e dell’uomo con il mondo.

Ben poca cosa sarebbe il progetto capitalistico se esso si limitasse a produrre merci; il suo piano è assai più ambizioso e si configura come pretesa di produrre la natura stessa, ed in lei l’uomo.

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È assolutamente indispensabile sradicare la convinzione, o meglio ancora impedire che essa sorga, che non tocchi affatto all’uomo la valorizzazione della natura e che ogni processo di valorizzazione sia in fondo mortifero per l’uomo in quanto parte della natura stessa. Convinzione che poi in pratica si atteggia in un desiderio di abbandono del mondo, del suo apparato produttivo, dei meccanismi della sua valorizzazione e che giunge ad immaginare, in soggetti particolarmente deliranti, un’insurrezione della natura nella sua intierezza, e non solo della specie umana, contro la totalità del capitale.

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Lenin cercò di trattenere in Russia ingegneri e tecnici con buoni stipendi. Noi dovremo, a qualunque costo, trattenere vicino a noi gli specialisti della qualità della vita.

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Lo sviluppo industriale ed i modi di vita che esso comporta, contrabbandati un tempo come benèfici per l’uomo, si sono ormai rivelati mortiferi per la salute della specie; onde un incremento di malattie, l’acuirsi di un malessere sordo e diffuso cui più nessuno sfugge. E le terapie che il capitale offre agli invalidi da se medesimo creati perdono credibilità perché frutto di un circolo vizioso ormai messo a nudo: la creazione del surplus esige mutilati e, da questi ultimi, si ottiene un surplus ulteriore vendendo loro terapia.

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L’organismo del capitale è malato, ma si tratta di far credere che il male si irradia esclusivamente da alcuni punti focali amputando i quali le cellule sane possono sopravvivere, identiche al proprio archetipo originario. È questo il senso del nostro continuo richiamo alle «forze sane del paese»; guai se si diffondesse la credenza che gli operai d’Italia non sono altro che una truppa di infermi, inetta ed impotente. I lavoratori devono essere sani per definizione ed il morbo situarsi altrove. […] Se trascuriamo di intervenire su questo piano prevarrà allora la convinzione che tutta la società è condannata a morte e che l’atroce agonia è procrastinata dalle cellule ancora in vita: il popolo lavoratore ed i suoi paladini. I topi abbandoneranno allora il battello in avaria ed esso, dopo una breve deriva, si inabisserà.

Enrico Berlinguer, Lettere agli eretici.

Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana, Einaudi, 1977

[uno dei “falsi” più brillanti prodotti dalla critica radicale in Italia]