Automazione e resistenza operaia. Da Prato ai porti degli Stati Uniti
Pubblichiamo due testi diversi tra loro – per provenienza e per intenti – ma legati dal tema dell’automazione. Il primo descrive – dal punto di vista delle lotte – ciò che avviene nell’ambito del lavoro tessile nel pratese, dove i processi di automazione della produzione non hanno affatto superato condizioni e ritmi semi-schiavistici, procedendo in realtà gli uni al fianco degli altri. I miglioramenti per le lavoratrici e i lavoratori sono stati conquistati con lotte molto dure – che hanno dovuto scontrarsi con i padroni singoli e associati, con il razzismo istituzionale e i suoi ricatti, con la polizia di Stato e anche quella privata, con le menzogne mediatiche e i contro-picchetti di impiegati e quadri aziendali.
Il secondo testo è uscito invece sul “Financial Times” e riguarda l’imponente sciopero che ha coinvolto nell’ottobre scorso i porti della costa orientale degli Stati Uniti. Se le conquiste in termini salariali appaiono, viste dall’Italia, decisamente significative, il punto centrale è un altro. Si tratta di uno dei primi scioperi dichiaratamente contro l’introduzione delle gru semi-automatiche guidate da remoto, il cui impiego – per il momento respinto – falcidierebbe il numero degli operai.
Se nella critica radicale del tecno-capitalismo manca spesso un punto di vista di classe – dimenticando in questo la necessità di attualizzare la lezione dell’insurrezione luddista -, nelle lotte in ambito salariale manca drammaticamente un dibattito aperto sull’impatto delle nuove tecnologie e del loro motore: l’intelligenza artificiale. Diciamo drammaticamente, perché l’attacco padronale e statale contro i facchini della logistica, per esempio, troverà presto come grimaldello l’armamentario forgiato sul modello Amazon (intreccio di automazione e di management di stampo militare).
Uno dei pochi, nei decenni scorsi, a tenere insieme critica radicale del complesso scientifico-militar-industriale e resistenza operaia era stato David F. Noble. Qualche spunto lo potete trovare qui: https://ilrovescio.info/2024/04/02/luci-da-dietro-la-scena-xix-contro-i-militari-contro-i-tecnici-non-vogliamo-essere-rinchiusi-nei-ghetti-dei-programmi-e-degli-schemi/
Come salariati, come umani, come viventi – fermiamo il Leviatano algoritmico!
Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti
Era settembre del 2021 quando, già da otto mesi, picchettavamo insieme agli operai davanti ai cancelli della Texprint, stamperia tessile situata nel cuore del distretto pratese della moda. Si lottava, come spesso in questo distretto, contro il super-sfruttamento fatto di una giornata lavorativa di dodici ore e una settimana che non conosce giornate di riposo. Per salvare la sua immagine, Textprint aveva deciso di affidarsi a una prestigiosa agenzia di comunicazione milanese per portare avanti una campagna antisciopero. Per primi sono arrivati i flash mob di impiegati e quadri aziendali davanti al Palazzo di giustizia e alle principali istituzioni cittadine con i loro immancabili striscioni: «Abbiamo diritto a lavorare!», «Non è sciopero, è violenza». Per raggiungere l’obiettivo di delegittimare il picchetto che aveva paralizzato la produzione, però, bisognava soprattutto screditare gli scioperanti e negare ogni forma di sfruttamento in fabbrica. La stampa e i media sono stati quindi invitati dall’azienda a fare un giro dello stabilimento. Una sorta di “visita guidata” in fabbrica alla scoperta del ciclo produttivo e dei macchinari per mostrare che la Texprint aveva investito milioni di euro in impianti di produzione più che all’avanguardia, raggiungendo capacità di stampa e livelli di automazione del processo che gli avevano permesso di elevarsi al secondo posto in Europa. Insomma, era lì – nel macchinario, nella tecnologia – la prova dell’inesistenza dello sfruttamento. Il senso del messaggio che il management della Textprint teneva assolutamente a comunicare è che lo sfruttamento è un fatto “antico”, superato dallo stesso progresso capitalistico. Un “residuo” dello sviluppo che si annida dove il macchinario – e quindi il capitale – non ha ancora “salvato” l’operaio.
Così dice l’ideologia del padrone.
Presto mi sono accorto che questa ideologia aveva anche una sua rappresentazione grafica. Ho iniziato a notare che i rari articoli della stampa mainstream sullo sfruttamento nel distretto pratese erano sempre associati a una foto di operai e operaie accanto a una “primitiva” macchina per cucire. Come se quegli stessi articoli non si riferissero anche e soprattutto a stabilimenti di stamperia, tintoria, tessitura, orditura e rifinizioni all’avanguardia, in cui regnano macchinari industriali di una certa importanza in termini di capitali investiti e livelli di automazione. No, c’era sempre quella vecchia macchina, come a ribadire il falso postulato per cui lo sfruttamento è un fenomeno marginale che si annida esclusivamente in alcuni segmenti del ciclo produttivo dove è scarso o difficile l’investimento in capitale fisso per l’automazione.
Poco a poco, però, le immagini dei picchetti hanno preso il posto di quelle della macchina per cucire. Alla Textprint lo sciopero è durato 264 giorni e si è chiuso con una vittoria operaia. Una piccola epopea della nuova classe operaia multinazionale destinata a lasciare il segno e aprire una lunga serie di scioperi che continua ancora oggi.
Sei anni di militanza sindacale ci hanno permesso poi di vedere nello specifico altri casi in cui l’innovazione tecnologica avanza di qualche passo e modifica alcuni cicli produttivi e modi di lavorare. Uno di questi è la Gruccia Creations, fabbrica di grucce che insieme ad altre rifornisce i “pronto moda” del distretto.
Nel 2019, quando abbiamo incontrato per la prima volta gli operai dell’azienda, una delle mansioni in fabbrica era inserire il gancio metallico sul corpo della gruccia in plastica. L’operazione veniva svolta manualmente appoggiando il gancio a una macchina che istantaneamente rendeva la punta incandescente. Il gancio veniva poi inserito – sempre manualmente – sul corpo di plastica. Questa operazione costava a chi la eseguiva scintille incandescenti negli occhi e non solo. Tre anni dopo quella maledetta mansione era sparita. Erano arrivati in tutte le fabbriche nuovi macchinari che avevano automatizzato l’inserimento del gancio nel corpo di plastica. “Benevolenza” della tecnologia? In realtà i benefici del suo sviluppo per parte operaia era stati poco più che “incidenti”. Non era stata infatti la volontà di proteggere gli occhi degli operai a portare innovazione alla Gruccia Creations, ma la possibilità di abbattere i costi di produzione riducendo forza lavoro e tempi di lavorazione. Col nuovo macchinario, a parità di produzione, gli addetti erano diminuiti e agli operai rimasti continuavano a essere imposti i turni di dodici ore al giorno, dal lunedì alla domenica. Anche in questo caso per mettere un freno allo sfruttamento sono serviti i picchetti, le tende e i fuochi di notte davanti ai cancelli. Lo stesso anno dell’arrivo dei nuovi macchinari scoppiava infatti lo “sciopero delle grucce”. Uno sciopero partito dall’hub logistico che si occupava della distribuzione delle grucce ai “pronto moda” che si è allargato a tre fabbriche della produzione, tra cui appunto la Gruccia Creation. Dopo venti giorni di picchetti, lo sciopero ha vinto.
L’esempio del distretto pratese ci mostra che, al contrario di quanto afferma il discorso del padrone sull’automazione, lo sviluppo del macchinario e della tecnologia organizzativa coesiste con le più brutali forme di sfruttamento, a partire dall’allungamento oltre misura della giornata (e della settimana) lavorativa. Per il capitale, plusvalore relativo e plusvalore assoluto non sono due strade alternative nella ricerca del massimo profitto. Anzi, il capitalista le persegue volentieri entrambe e, contemporaneamente, combina innovazione e intensificazione massima dello sfruttamento. Già Marx riassumeva «tutta la storia dell’industria moderna» in questi termini: «il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione»[1]. Il «livello di degradazione» di questa classe operaia multinazionale impiegata nel distretto pratese si misura in un minimo di ottantaquattro ore di lavoro alla settimana. La “misericordia” padronale è limitata a dai tre ai cinque giorni di riposo l’anno (spesso in realtà obbligati dall’interruzione dei cicli produttivi in agosto). È così che le grandi multinazionali del lusso garantiscono margini altissimi ai propri azionisti. I marchi del Made in italy, con sede legale nelle grandi capitali finanziarie europee, subappaltano a società di comodo la produzione portata avanti a Prato da forza lavoro immigrata, contando sul fatto che le condizioni strutturali (dai permessi di soggiorno fino all’impresa di dover sostenere la riproduzione in patria di un’intera famiglia) porteranno questi operai ad accettare condizioni di lavoro durissime. A mettere un freno, oggi come ieri, sono arrivati gli scioperi, i picchetti e gli accampamenti davanti ai cancelli degli stabilimenti. E tutti i loro annessi e connessi: le casse di resistenza e l’autodifesa dalle squadracce mafiose assoldate dai padroni, le scuole sindacali e la quotidiana costruzione di comunità solidali.
Il distretto pratese, insomma, non è una “scheggia del passato”, non è un angolo di eccezione nel cuore dell’Italia, ma il nodo europeo – estremamente contemporaneo – di una catena globale di produzione dell’abbigliamento. Catena globale ad alta tecnologia organizzativa just-in-time, orientata la massimo risparmio di costo – dalla produzione del tessuto in Cina alla produzione dell’abbigliamento in Europa – e costretta a rilocalizzare in prossimità dei mercati di sbocco alcune fasi di lavorazione che non possono essere eseguite a lunga distanza senza dover rinunciare a un efficace sincronizzazione tra mercato e produzione. Con la possibilità di intercettare i flussi migratori. E con l’aggiunta di poterci pure scrivere sopra Made In Italy.
Non un nuovo macchinario, ma il ritorno della lotta di classe fatta “dalla nostra parte” ha permesso in questi ultimi anni a centinaia di operai di uscire dalla più profonda degradazione in cui il capitale li aveva fatti sprofondare riducendo le loro stesse vite a macchine per il profitto altri. “Otto per cinque” – che è lo slogan e allo stesso tempo la piattaforma del nuovo movimento operaio del distretto pratese – vuol dire proprio questo: la lotta per la possibilità di esistere e riprodursi come persona e non solo come operaio, non solo come parte del capitale. Se è vera la tesi dei vecchi operaisti per cui la lotta di classe è motore dell’innovazione ed anche dello sviluppo della tecnologia del macchinario, è altrettanto vero che quest’ultima, senza la prima, non ci regala niente. I diritti conquistati costringono all’innovazione. Ma l’innovazione non porta nuovi diritti. Il caso Prato ci mostra che dai garage con le macchine per cucire fino ai milionari impianti industriali ad alta tecnologia, in una stessa filiera produttiva differenti livelli di sviluppo tecnologico sono uniti da uguali livelli di sfruttamento.
Luca Toscano
[1] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Ed. lingue estere, 1949, 1a ed. 1865, disponibile su https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm.
La lotta contro i robot che minacciano i posti di lavoro americani
Il recente sciopero dei portuali americani ha portato spettacolari aumenti salariali ma anche fatto emergere un conflitto permanente: la lotta dei lavoratori organizzati contro l’incedere di AI e robotica. Queste ultime, se non contrastate da un soggetto collettivo, evolvono secondo caratteristiche destinate o a peggiorare le condizioni di lavoro o, semplicemente, a spazzare via i lavoratori.
Stavolta i lavoratori USA hanno vinto, sfruttando la condizione strategica dei loro porti nel sistema commercio internazionale degli Stati Uniti, ma non c’è da dubitare che la questione AI-Robotica nel settore portuale americano è destinata a riproporsi. Del resto il presente e il futuro prossimo del lavoro sono questi: la flessibilità umana è ineliminabile per produrre valore, e profitto, mentre la tecnologia assedia la flessibilità umana per ridurne i costi.
La risposta dei lavoratori in questo caso c’è stata, ed ha fruttato sul piano salariale, ma va considerato che la ricerca e l’innovazione, tramite AI e robotica, innovano velocemente, anche se non senza incontrare criticità, nella automazione delle operazioni portuali, nel monitoraggio e nella manutenzione predittiva, in sicurezza e protezione, nella riduzione dell’impatto ambientale e nella ottimizzazione della logistica e della catena di approvvigionamento.
Qui bisogna ricordare che, all’epoca della formazione della classe operaia, i luddisti non erano – come a suo tempo ha ricostruito magistralmente Edward Thompson – proletari disorganizzati che odiavano le macchine e che si muovevano estemporaneamente, ma operai specializzati, organizzati, e con forte radicamento sociale, sotto attacco del gigantismo macchinico dell’automazione capitalistica.
Non deve stupire quindi che la reazione all’automazione negli USA sia venuta da sindacati organizzati e con attorno un reale consenso sociale.
La vicenda dello sciopero dei portuali americani rappresenta una delle prime grandi battaglie sindacali contro l’automazione capitalistica e l’intelligenza artificiale, un tema che diventerà sempre più rilevante in molti settori e, si spera, in molti paesi.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo del Financial Times dedicato alla vicenda.
(redazione di codice-rosso.net)
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Quando circa 25.000 membri dell’International Longshoremen’s Association (ILA) sono entrati in sciopero lo scorso ottobre, bloccando tre dozzine di porti sulle coste est e del Golfo degli Stati Uniti, si è diffuso un allarme generale. Alcune previsioni indicavano che, poiché questi porti gestiscono un quarto del commercio internazionale del paese, lo stop avrebbe potuto costare all’economia americana fino a 4,5 miliardi di dollari al giorno, riaccendere l’inflazione e innescare effetti a catena che si sarebbero sentiti in tutto il mondo.
In realtà, il panico è durato solo 72 ore. A seguito di negoziati frettolosi e dell’offerta di un aumento salariale di quasi il 62% in sei anni, i portuali hanno accettato di tornare al lavoro, anche se temporaneamente – forse “i tre giorni più redditizi nella storia dei rapporti tra lavoro e dirigenza”, secondo le parole di Patrick L. Anderson, CEO della società di consulenza aziendale Anderson Economic Group.
Ma per certi versi la battaglia è solo all’inizio. Sebbene sia stato l’aumento salariale ad attirare l’attenzione dei media, il vero problema del sindacato è l’automazione, in particolare le proposte della United States Maritime Alliance (USMX), che rappresenta gli operatori portuali e i vettori di container, di dotare più porti statunitensi di gru semi-automatiche.
Queste gru sono dotate di una tecnologia avanzata che le rende più veloci ed efficienti da utilizzare, affermano i proprietari. Ma l’ILA sostiene che la loro introduzione minaccia i mezzi di sussistenza dei suoi membri. A meno che USMX non accetti un divieto totale sui macchinari automatizzati, il sindacato ha minacciato di scioperare di nuovo già la prossima settimana.
“Accogliamo le tecnologie che migliorano la sicurezza e l’efficienza”, ha affermato in una dichiarazione il pittoresco presidente dell’ILA, Harold Daggett. “Ma solo quando un essere umano rimane al timone”.
La controversia ha attirato l’attenzione non solo per il suo enorme impatto potenziale, ma perché è una delle prime nel suo genere. Man mano che sempre più aziende sperimentano la robotica di nuova generazione, i sindacati statunitensi che rappresentano settori diversi come gli autisti UPS, i lavoratori dei casinò di Las Vegas e i dipendenti dei negozi di alimentari stanno lottando affinché vengano aggiunte clausole ai contratti che si concentrano sul mantenimento dei posti di lavoro e sul risarcimento dei lavoratori sfollati in caso di automazione.
Quelle che in precedenza erano trattative ordinarie su retribuzioni e condizioni di lavoro si sono trasformate in controversie più ampie e persino esistenziali sul rapporto tra uomo e macchina. Circa il 70% dei 12 milioni di persone rappresentate dall’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations ora teme di essere sostituito dalla tecnologia, stima la presidente dell’AFL-CIO Liz Shuler: “I lavoratori sono stufi di come sono stati trattati per molto tempo e sono spaventati di ciò che il futuro potrebbe riservare”.
Qualunque sia il contratto che i portuali negoziano, dicono gli analisti, questo potrebbe aiutare a fornire un modello per gli accordi a livello nazionale. “Quello che vedi in atto è il lavoro che lotta per avere un posto al tavolo”, afferma Robert Bruno, professore di lavoro all’Università dell’Illinois Urbana-Champaign.
Gli investitori statunitensi hanno accumulato oltre 15 miliardi di dollari in startup di robotica dal 2019, secondo PitchBook, e la notevole crescita dell’intelligenza artificiale negli ultimi 18 mesi ha iniziato a dare i suoi frutti. I lavori che sembravano poter essere svolti solo dalle persone improvvisamente sono messi a rischio; gli economisti hanno messo in guardia da cambiamenti troppo dirompenti nella forza lavoro anche se le macchine sono in grado di fare sempre di più.
Ad aumentare la pressione in economie come quella degli Stati Uniti, affermano gli imprenditori, è la lenta crescita della forza lavoro, che rende sempre più difficile reclutare lavoratori. I piani del presidente eletto per le espulsioni di massa – ha detto alla NBC News il mese scorso che intende espellere tutti gli 11 milioni di persone stimate negli Stati Uniti illegalmente nei prossimi quattro anni – probabilmente intensificheranno solo tali preoccupazioni.
La nuova amministrazione (Trump) può vantare sia il sostegno di alcuni sindacati, compresi i Longshoremen (portuali), sia quello della Silicon Valley, mentre gli scioperi contro i robot diventeranno un punto critico proprio in questo schema del consenso. Elon Musk è un appassionato a tutti gli effetti della tecnologia, parla di automatizzare completamente le fabbriche Tesla ed è desideroso di sviluppare un robot umanoide sviluppato da Tesla chiamato Optimus.
Ma, il presidente eletto, forse consapevole della sua base Maga, sembra avere un’opinione diversa: scrivendo su Truth Social sugli scaricatori di porto il mese scorso, ha affermato che “la quantità di denaro risparmiata dall’automazione non è neanche lontanamente vicina al disagio, dolore e danno che causa ai lavoratori americani”.
Leader sindacali tra cui Daggett hanno promesso che se riusciranno a tenere a bada i robot, hanno in programma di lavorare con i sindacati di tutto il mondo per fare lo stesso.
“Nei luoghi di lavoro sindacalizzati, almeno nei settori con sindacati che stanno rendendo questa una priorità, lo sciopero è l’unico meccanismo probabilmente efficace… per impedire alle stesse industrie di impazzire”, afferma Bruno.
Prima dell’avvento della containerizzazione, i portuali trascorrevano lunghe giornate a scaricare singole scatole, barili e casse, quindi a trasferire il loro contenuto su camion e treni merci: un lavoro pericoloso ma affidabile e ben pagato che, al suo apice, impiegava circa 100.000 uomini in porti intorno agli Stati Uniti.
Dopo che l’imprenditore dell’autotrasporto Malcom McLean ha sostenuto il container in acciaio largo 8 piedi a metà degli anni ’50, quel mondo è crollato. La nuova tecnologia consentiva di trasferire il carico con il minimo sforzo e costi drasticamente ridotti. Decine di migliaia di posti di lavoro sono scomparsi quasi da un giorno all’altro.
Nonostante un enorme aumento delle esportazioni mondiali, il numero di portuali impiegati nel porto di New York e New Jersey è crollato da 55.000 negli anni ’50 a circa 4.000 oggi, afferma Jean-Paul Rodrigue, professore di affari marittimi alla Texas A&M University. “L’automazione ha distrutto molti posti di lavoro per i portuali ed è stato un grosso problema”, afferma Rodrigue.
Quando le gru semi-automatiche furono introdotte per la prima volta nei terminal sulla costa orientale degli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, i leader dell’ILA affermano di aver accettato i cambiamenti perché avrebbero contribuito a creare posti di lavoro. Ma ora dicono che è successo il contrario.
“L’automazione, completa o semi, sostituisce i posti di lavoro ed erode le funzioni lavorative storiche che abbiamo combattuto duramente per proteggere”, ha affermato Daggett in una nota. (L’ILA non ha accettato un’intervista con il “Financial Times”)
Un sondaggio del 2022 commissionato dal sindacato dei portuali della costa occidentale ha rilevato che l’automazione parziale dei porti di Los Angeles e Long Beach ha comportato la perdita di quasi 1.200 posti di lavoro nel 2020 e nel 2021.
USMX afferma che poiché la maggior parte dei porti gestiti dai suoi membri non dispone di terreno libero, l’unica scelta è “densificare i terminal” aggiungendo macchinari che velocizzano le operazioni.
In una gru convenzionale, un operatore si siede all’interno di una cabina, sollevando i container dalle navi e smistandoli, prima di trasferirli su camion o treni: un lavoro altamente qualificato che può far guadagnare ai lavoratori fino a $ 200.000 all’anno. In un sistema di gru a portale (RMG) semi-automatico su rotaia, l’operatore lavora in remoto da un ufficio fuori sede, monitorando la gru tramite collegamento video, ma lasciando che il sistema svolga la maggior parte del lavoro. Il lavoro richiede competenze e formazione simili, ma sono necessarie meno persone.
I leader sindacali affermano di aver già compiuto un “balzo in avanti nella produttività” utilizzando alcune di queste tecnologie, ma affermano che un’ulteriore automazione è un passo troppo lungo.
“Non si tratta di soddisfare le esigenze operative, si tratta di sostituire i lavoratori con il pretesto del progresso, massimizzando al contempo i profitti aziendali”, ha scritto Dennis Daggett, presidente dell’ILA Local 1804-1 e figlio di Harold Daggett, in un recente saggio sul sito web del sindacato.
I Longshoremen hanno ragione ad avere paura, dice Rodrigue, stimando che fino al 40% di loro rischia di perdere il lavoro.
Ma USMX descrive le richieste di vietare l’automazione come “irrealizzabili”, affermando che la moderna tecnologia delle gru ha “quasi raddoppiato” sia la produttività dei container che il numero di lavoratori nei porti che la utilizzano.
“USMX non sta cercando, né lo ha mai fatto, di eliminare posti di lavoro”, ha affermato in una nota.
Da quando la General Motors ha messo per la prima volta i robot sulle linee di assemblaggio negli anni ’60, le case automobilistiche sono state pioniere dell’automazione. Eppure, fino all’ascesa dell’intelligenza artificiale, altre industrie, quelle che richiedevano compiti più manuali o in cui i robot avrebbero potuto dover rispondere ad ambienti imprevedibili o pericolosi, hanno faticato a seguire l’esempio.
Eppure i recenti progressi hanno conferito alle macchine capacità che anche gli esperti in precedenza ritenevano impossibili, il che significa che vengono utilizzate in una varietà sempre più ampia di spazi di lavoro. Le aziende manifatturiere in particolare hanno investito molto, con le installazioni totali di robot industriali in aumento del 12% a oltre 44.000 unità nel 2023, il volume più grande in almeno un decennio, secondo l’International Federation of Robotics. Ancora una volta, l’industria automobilistica ha aperto la strada, seguita dalle aziende elettriche ed elettroniche.
Gli investimenti di venture capital statunitensi nella robotica sono aumentati da circa 2 miliardi di dollari nel 2019 a oltre 3,5 miliardi di dollari lo scorso anno, secondo i dati di PitchBook. Nei primi nove mesi del 2024, ci sono stati 130 accordi di raccolta fondi per startup di robotica, più che in tutto il 2019.
Tra i più importanti c’è stato un investimento di 675 milioni di dollari lo scorso febbraio da parte del fondatore di Amazon Jeff Bezos in Figure AI, una startup della Silicon Valley fondata nel 2022 che sta lavorando a un robot “generico” umanoide senza volto.
Si tratta di robot, il cui costo per i clienti è stimato tra 30.000 e 150.000 dollari, che potrebbero completare attività tra cui lo spostamento di una scatola su un nastro trasportatore, mettendo potenzialmente in pericolo il lavoro di chiunque lavori, diciamo, in un centro di distribuzione. I primi modelli sono stati consegnati a un “cliente commerciale” il mese scorso.
Durante il loro viaggio annuale al Consumer Electronics Show di Las Vegas lo scorso anno, i membri del Culinary Union, che rappresenta il personale dei casinò della città, sono rimasti scioccati nel vedere robot friggere cibo e preparare cocktail.
“Se inseriscono macchine, come faranno le persone a guadagnarsi da vivere?” dice Francisco Rufino, un cuoco del Paris Las Vegas hotel and casino. “Come pagheranno l’affitto? Come pagheranno il cibo?”
Datori di lavoro e analisti affermano che ci sono forti ragioni per perseguire l’automazione. Gli aumenti salariali sperimentati da molti americani negli ultimi anni hanno avuto un costo, afferma Laurie Harbour, amministratore delegato della società di consulenza Harbour Results. “[I lavoratori americani] hanno lottato per salari che potessero stare in equilibrio con l’inflazione”, dice. “Il problema è che questo rende gli Stati Uniti in qualche modo non competitivi”.
60,4%: è la stima degli economisti sulla quota di americani al lavoro o in cerca di lavoro entro il 2030, in calo dal 67,3% del 2000. Alcuni settori affermano di essere preoccupati di rimanere senza persone, in particolare per i lavori più difficili e pericolosi. Con l’invecchiamento della popolazione e le famiglie che faticano a trovare assistenza all’infanzia, la quota di americani al lavoro o in cerca di lavoro è in calo da decenni, passando dal 67,3% nel 2000 al 62,5% alla fine dello scorso anno. Gli economisti stimano, appunto, che scenderà al 60,4% entro il 2030.
In un recente rapporto del sito di reclutamento Indeed, gli analisti hanno scritto che si aspettano che l’“offerta di lavoratori in diminuzione peserà molto sul mercato del lavoro nei prossimi anni”, in particolare se l’amministrazione seguirà le sue minacce di espulsione.
Nick Durst, analista senior dello sviluppatore immobiliare The Durst Organization, cita i ranghi in diminuzione dei lavavetri negli Stati Uniti. Nonostante il boom dello sviluppo, il numero di persone impiegate a lavare i vetri nel paese è diminuito di oltre il 5% dal 2019, suggerisce un’analisi di IbisWorld.
Nel 2022, il capitale di rischio ha investito nel produttore di un robot lavavetri, Skyline Robotics, con sede in Israele. Il robot Ozmo può ora essere visto mentre pulisce le finestre di un grattacielo vicino a Times Square. L’investimento è un modo per essere “proattivi” nell’affrontare la carenza di manodopera, afferma Durst.
“Comprendo perché la prossima generazione non si presenti in cerca di quel lavoro”, afferma il presidente di Skyline Robotics Ross Blum. “È un lavoro davvero duro… Chi vuole andare a 1.000 piedi in aria oggi e fare lavori manuali all’aperto?”.
Blum e altri appassionati di robotica insistono sul fatto che il loro obiettivo non è sostituire i lavoratori, ma dare loro gli strumenti per renderli più sicuri e produttivi. Eppure i sindacati non sono convinti. Edwin Quezada, responsabile della produzione in un Stop & Shop di Long Island, che è anche membro del Retail Wholesale and Department Store Union, afferma che i robot in grado di scansionare gli scaffali durante la notte sono “un’arma a doppio taglio”.
“Rende più facili alcuni degli aspetti di ciò che facciamo”, dice Quezada. “Ma poi di nuovo, a volte quella tecnologia è solo un modo per eliminare più posti di lavoro possibile”.
Negli ultimi anni, sia i sindacati della vendita al dettaglio che quelli culinari hanno negoziato clausole nei contratti che sperano proteggano i lavoratori umani. I casinò di Las Vegas sono ora tenuti a dare alle persone un preavviso di sei mesi prima di implementare nuove tecnologie e formazione gratuita su come usarle, oltre a pacchetti di licenziamento per chiunque venga licenziato a causa della tecnologia.
UPS ha accettato di negoziare con i Teamsters, uno dei sindacati più potenti degli Stati Uniti, prima di introdurre droni o veicoli di ritiro senza conducente. Anche i negozi al dettaglio di New York i cui lavoratori sono rappresentati da RWDSU, tra cui Bloomingdale’s e Macy’s, richiedono che la direzione raggiunga un accordo prima di introdurre nuove tecnologie.
Ma questo non ha fermato l’ansia per lo spostamento diffuso del lavoro. “I macchinari fanno bene alle aziende”, afferma Rufino, il cuoco di Las Vegas. “Fa risparmiare loro i costi del lavoro. Ma allo stesso tempo, il tasso di disoccupazione salirà alle stelle”.
I macchinari fanno bene alle aziende. Fa risparmiare loro i costi del lavoro. Ma il tasso di disoccupazione salirà alle stelle
Alcuni analisti sostengono che i lavoratori potrebbero vincere le battaglie, ma probabilmente perderanno la guerra. Poche persone hanno il tipo di influenza di cui godono i portuali, afferma Rodrigue della Texas A&M.
Eppure, se i robot riusciranno a conquistare i luoghi di lavoro, gli economisti sono divisi su quante persone saranno effettivamente espulse. “Storicamente, perdite di posti di lavoro diffuse e massicce [semplicemente non accadono] quando emergono nuove tecnologie”, afferma Bill Rodgers, direttore dell’Institute for Economic Equity presso la Federal Reserve Bank di St Louis. “Significa che non potrebbe succedere? Forse”.
Altri sono meno ottimisti. L’economista del MIT Daron Acemoglu afferma che le attuali capacità dei robot significano che coloro che sono maggiormente a rischio di essere espulsi sono nei lavori manuali e non hanno una laurea, il che potrebbe rendere difficile per loro passare ai ruoli più high-tech che probabilmente saranno creati dall’automazione.
Ciò potrebbe aumentare la disuguaglianza economica “creando un divario maggiore tra” i lavoratori che non hanno una laurea e quelli che ce l’hanno, dice Acemoglu.
Daggett dell’International Longshoremen’s Association è d’accordo. Determinato a fermare l’automazione con qualsiasi mezzo possibile, lui e i suoi membri riconoscono quali sono le poste in gioco, dice: “Capiscono che è una lotta per la loro stessa sopravvivenza”.
Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder (“Financial Times”, 8 gennaio 2025)