Riflessioni a partire da “Il mondo come progetto Manhattan”

Il Mondo come progetto Manhattan, uscito l’anno scorso in traduzione italiana, è una di quelle letture che segnano. E sono proprio dei segnavia per orientarci nel nostro presente – che è ancora, dal 1945, «il tempo della fine», nel quale siamo tutti «dispositivi di calibrazione nucleare» – quelli proposti dalla compagna che ha scritto le riflessioni che pubblichiamo.

Riflessioni a partire da Il mondo come Progetto Manhattan

gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono

così enormi che non siamo più attrezzati per concepirli.

(Günther Anders)

A gennaio 2024, l’orologio dell’apocalisse segnava 90 secondi dalla fine del mondo. È il Bollettino degli Scienziati Atomici a regolare le lancette di questo dispositivo simbolico che dal 1947 ha lo scopo di misurare la distanza da un’ipotetica fine del mondo dovuta a un’escalation nucleare, ai cambiamenti climatici, a tecnologie dirompenti come l’intelligenza artificiale e a nuove biotecnologie. Per capire come si è arrivati a un momento storico in cui la minaccia nucleare è una realtà manovrata dalla triade industria-scienza-Stato, può venirci d’aiuto Il mondo come Progetto Manhattan di Jean-Marc Royer, un libro che spiega come il Progetto Manhattan – il programma di ricerca e sviluppo che ha portato alla realizzazione delle prime bombe atomiche – non solo non aveva come scopo la fine della guerra (anzi, si vedrà che l’ha prolungata), ma ha rappresentato un disegno industriale per l’ascesa al potere delle imprese multinazionali.

Al fine di avere un’idea della grandezza del progetto statunitense, è sufficiente sapere che, dagli ultimi mesi del 1942 all’agosto del 1945, mezzo milione di persone fu impiegato in tutti i siti dedicati alla costruzione delle bombe atomiche, eppure pochissimi erano consapevoli della vera natura del loro lavoro. Il sito X, per esempio, si trovava a Oak Ridge (Tennessee) ed era dedicato principalmente alla produzione di uranio arricchito. Sulla sua superficie, che ammontava a due volte e mezzo quella di Parigi, abitavano tra i 65.000 e i 75.000 abitanti che trascorrevano le loro giornate a produrre qualcosa che non conoscevano. A gestire questa città segreta erano la Monsanto – multinazionale statunitense di biotecnologie agrarie –, la General Electric – multinazionale statunitense attiva nel campo della tecnologia – e la Kodak, mentre DuPont – azienda chimica statunitense – aveva costruito il reattore X-10, l’impianto dimostrativo per il processo di produzione del plutonio a partire dall’uranio, sviluppato da Enrico Fermi. Interessante notare come oggi Monsanto (acquisita dalla Bayer) e DuPont (che si è unita a Dow Chimical) controllino insieme a Syngenta/ChemChina a livello globale il 63% del mercato delle sementi, un monopolio che fa guerra alla biodiversità: secondo dati FAO, il 95% della domanda globale di cibo oggi dipende da solo trenta colture e da tre di queste (mais, frumento e riso) viene il 60% del fabbisogno calorico alimentare a livello planetario. Il monopolio delle sementi porta al dominio della produzione da parte di pochi colossi dell’agribusiness in grado di controllare l’accesso al cibo della popolazione mondiale e di conseguenza la sua sopravvivenza. Il peso specifico di queste industrie nella conduzione di politiche agricole, economiche e belliche si rivela dunque estremamente alto.

Qualcosa che accomuna qualsiasi tipo di progresso, sia esso nel campo della guerra, dell’agricoltura o nell’ambito medico, è il concetto di “sacrificabilità” e l’idea della vita come nuda esistenza sulla quale sperimentare. Spiega Royer che «il 10 aprile 1945, scienziati e medici iniziarono esperimenti segreti sulla tossicità del plutonio iniettandolo in pazienti e prigionieri senza il loro consenso»1: il plutonio, usato per la costruzione della bomba sganciata su Nagasaki, fu scoperto nel 1941 e la sua radioattività era ancora sconosciuta. È del 1986 un rapporto del Congresso americano dove vengono nominati i test condotti su “cavie” umane nell’ambito del Progetto Manhattan. Si legge nel testo: «Gli obiettivi principali di questi esperimenti erano misurare direttamente gli effetti biologici del materiale radioattivo; misurare le dosi di sostanze radioattive iniettate, ingerite o inalate; o misurare il tempo di permanenza delle radiazioni, delle sostanze radioattive iniettate, ingerite o inalate; o misurare il tempo di passaggio delle sostanze radioattive nel corpo umano. I cittadini americani diventavano così dispositivi di calibrazione nucleare. […] In alcuni casi, i soggetti umani erano prigionieri o persone che i ricercatori avrebbero potuto considerare in modo spaventoso “sacrificabili”: anziani, detenuti, pazienti affetti da malattie terminali o coloro i quali potevano non avere piene facoltà per il consenso informato»2. E ancora: tra il 1945 e il 1947, negli ospedali statunitensi, a diciotto pazienti è stato iniettato plutonio, a sei l’uranio, a cinque è stato somministrato il polonio e almeno a uno l’americio. Quando si pensa a “cavie” umane vengono subito alla memoria gli esperimenti condotti sui deportati nei campi di concentramento nazisti dove le camere a gas hanno rappresentato il paradigma dell’estrema miseria e crudeltà dell’uomo, ma è importante ricordare – cosa che fa lo stesso Royer – che le prime camere a gas furono costruite nel 1939 in sei manicomi tedeschi dove decine di migliaia di persone furono classificate come “improduttive” e dunque sacrificabili. I cosiddetti “matti” sono stati dunque tra i primi a incarnare l’idea di nuda vita, cioè quella «vita che non è né propriamente animale né veramente umana, ma in cui si attua ogni volta la decisione fra l’umano e il non umano»3.

La creazione delle armi di distruzione di massa venne accolta come un “trionfo della scienza” e ancora oggi le conquiste tecniche e scientifiche sono salutate come un traguardo per l’umanità indipendentemente dal loro costo per la salute delle persone e dell’ambiente. Un caso esemplificativo è rappresentato dalla “conquista dello spazio”: le apparecchiature poste sulle superfici dei pianeti funzionano grazie a dei generatori alimentati con il plutonio 238, un potente isotopo che emette radiazioni alfa, cioè ioni che possono indurre reazioni chimiche che causano danni biologici e che, a livello cellulare, possono indurre dei danni alle molecole del DNA. A fronte di questo dato di fatto, Royer sottolinea come non ci si è ancora posti il problema della durata dell’incapsulamento metallico del plutonio, barriera che evita che la radioattività dell’isotopo venga rilasciata sul suolo del pianeta raggiunto, e aggiunge: «È così che si cerca la vita nello spazio, introducendo la morte, la “conquista” della Luna è in effetti la conquista di un deposito di scorie nucleari»4. Pensiamo ora invece a una tecnologia usata nell’ambito medico: i raggi X. Quando l’energia dei raggi X attraversa il corpo, una parte viene assorbita o dispersa mentre un’altra parte raggiunge un rilevatore in modo tale da creare un’immagine per differenza che può essere impressa fotograficamente. La diagnostica per immagini è ampiamente usata, eppure i suoi effetti sono particolarmente sottostimati. Royer ricorda che già nel 1993 in Inghilterra fu avviata un’indagine per scoprire perché l’aumento della leucemia avesse un effetto così sproporzionato sui bambini di tre anni e la causa fu identificata nell’esposizione in utero dei feti durante la diagnosi a raggi X sulle donne in gravidanza. Royer riconduce la scarsa attenzione dovuta ai danni delle radiazioni alla gestione dello scoppio delle bombe nucleari in Giappone: «La minimizzazione delle conseguenze del nucleare e dei dati, provenienti da studi manipolati sulla salute dei sopravvissuti alla bomba atomica in Giappone, ha portato alla sovraesposizione alle radiazioni degli individui in tutti i settori, compresi quelli delle cure ospedaliere e dell’alimentazione, corrompendo, così, definitivamente la salute pubblica su scala globale»5. Senza contraddire quest’affermazione, è utile però ricordare le parole di uno scienziato rimasto anonimo, che nel 1948 inviò alla rivista americana Christian Century un angosciato mea culpa dove afferma: «Gli scienziati sono i mercenari della guerra moderna. Estranei alle considerazioni umanitarie, considerano la ricerca come un ideale con un fine in sé stesso e che trascende da preoccupazioni dei semplici mortali. Se uno scienziato può seguire la sua linea di condotta senza essere disturbato, poco gli importa del governo al quale apporta il suo contributo, o in quali condizioni vivono gli uomini attorno a lui. È la scienza che conta, non gli uomini»6. Aggiunge l’anonimo: «Durante la guerra il problema era quello di sapere come poter uccidere il maggior numero possibile di persone il più presto possibile e meglio di quanto fosse mai stato fatto. Su questa via gli scienziati sono giunti a risultati che i militari non avevano mai osato sperare»7. Questa tecnologia senza limiti è resa però possibile da norme che la legittimano: l’8 agosto 1945 (il 6 e il 9 agosto sono bombardate Hiroshima e Nagasaki) vengono firmati a Londra gli accordi sullo statuto del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga e definita la nozione di crimine contro l’umanità che prevede espressamente che gli alleati non possano esserne a loro volta accusati. L’hybris umana non solo non viene fermata, ma viene regolarizzata.

La narrazione trionfale dell’avvento dell’èra atomica ha portato alla negazione della sua pericolosità, situazione che dal 1945 persiste ancora. La stampa si è da sempre mostrata complice nelle operazioni di falsificazione intorno alla storia del nucleare: se nel 1945 sul The New York Times, per rendere conto della prima esplosione atomica, vengono scritti una serie di articoli sul “trionfo della scienza” a firma di un portavoce reclutato dal Pentagono, nel 2011 in occasione dell’esplosione della centrale di Fukushima viene scelto di minimizzare l’entità del disastro al fine di preservare la comunità nucleare internazionale. Per dieci settimane è tenuta nascosta la notizia che i noccioli dei reattori 1, 2 e 3 si sono fusi nelle prime ore, sono penetrati nel contenitore d’acciaio, hanno intaccato il basamento in cemento e sono penetrati nel sottosuolo dell’impianto. Nei giorni subito successivi all’incidente invece di annunciare la “vera notizia”, vengono rese note una miriade di comunicazioni tecniche capaci di rendere nebulosa l’informazione. La spettacolarizzazione mediatica deviò l’attenzione dell’opinione pubblica su aspetti aneddotici, che se da un lato non descrivevano l’accaduto come un disastro globale senza precedenti, dall’altro non mettevano realmente in discussione la sicurezza tecnica del nucleare.

La scelta di inondare la popolazione di tecnicismi e di comunicare le notizie significative quando si decide che il pericolo è rientrato, è una gestione dell’emergenza che abbiamo visto anche durante il Covid-19. Sebbene i due avvenimenti siano in sé molto diversi, il modo in cui sono stati affrontati, dal punto di vista politico e da quello comunicativo, mostra diverse analogie. In un caso abbiamo assistito al ridimensionamento dell’evento, dall’altra alla sua esasperazione, ma in entrambe le situazioni è andata in scena la falsificazione della realtà e un’amministrazione tecnica-statale che ha controllato i comportamenti della popolazione. Royer ci mostra come può cambiare la ricezione delle informazioni a seconda del momento storico in cui avviene. L’autore ricorda che l’ente di ricerca francese Ceri attribuisce alla ricaduta radioattiva atmosferica degli esperimenti nucleari l’attuale epidemia di cancro e aggiunge che le emissioni più recenti del nucleare civile porteranno a un aumento significativo dei tumori e di atri problemi di salute. Sapere questo nell’èra conclamata del nucleare rischia di ridurre al minimo ogni tipo di reazione e contrasto; allo stesso modo rivelare la vera entità dell’incidente nucleare avvenuto in Giappone mesi dopo la catastrofe fa sì che l’attenzione di chi riceve la notizia sia diminuita. Torniamo ora all’emergenza Covid: è del maggio di quest’anno la notizia che AstraZeneca ha annunciato il ritiro mondiale del suo vaccino motivandolo con aspetti commerciali, ma è avvenuto in contemporanea all’ammissione dell’azienda farmaceutica in sede giudiziaria degli effetti avversi del vaccino. A giugno 2024, invece, Anthony Fauci – l’immunologo a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), una delle massime autorità sanitarie statunitensi, “immune” ai cambiamenti di legislatura dal 1984 – ha dichiarato che misure quali distanziamento sociale e mascherine sono state adottate senza che vi fossero evidenze scientifiche a sostegno della loro utilità. Quello che è avvenuto durante l’emergenza Covid è un vero e proprio tentativo – in parte riuscito – di addomesticamento che ha messo in discussione la libertà di decidere sulla propria salute e sul proprio corpo, eppure la messa in discussione di alcuni dispositivi adottati a distanza di anni dal momento critico ha fatto passare in sordina queste notizie.

Tutti questi esempi, a partire dalle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, mostrano come l’ingranaggio industria-scienza-Stato sia talmente rodato da riuscire a creare la tempesta perfetta per sperimentare la nuova soluzione di turno, sia essa un’arma, una biotecnologia, un vaccino, o reattori atomici di ultima generazione. All’interno di quello che pare a tutti gli effetti un cortocircuito laddove chi crea la catastrofe ne dispone la narrazione e la sua apparente risoluzione, è bene ricordare le parole di Claude Eatherly – il pilota d’aereo che sganciò la bomba atomica Little Boy su Hiroshima – quando dice: «Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato)»8.

1Jean-Marc Royer, Il mondo come Progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita, Mimesis Edizioni, p. 77

5 Idem, p. 135

6 Michel Bar-Zohar, La caccia agli scienziati nazisti, Longanesi, p. 216

7 Ibidem

8 Günther Anders, L’ultima vittima di Hiroshima, Mimesis Edizioni, p. 32