Da Parma. Di scioperi, carcere, e il mondo che li produce

Riceviamo e diffondiamo:

 

DI SCIOPERI, CARCERE, E IL MONDO CHE LI PRODUCE

Fino a pochi giorni fa 114 detenuti dell’AS3 del carcere di via Burla di Parma stavano portando avanti uno sciopero generale di quattro settimane (che comprende la sospensione della spesa, del vitto giornaliero, di tutte le attività lavorative e formative, e anche lo sciopero della fame).

Lo sciopero è stato annunciato con una lettera in cui vi è una lista di 25 punti di condizioni e disagi che “rendono il trattamento carcerario debilitante, fisicamente e psicologicamente, tanto da incidere negativamente sulla vita del detenuto e dei suoi affetti famigliari“.

Non è di certo una novità che le condizioni di (non)vita nelle carceri italiane vengano contestate. Sovraffollamento, pessime condizioni igienico sanitarie, assenza o scarsità di servizi basilari [1], visite e cure mediche spesso superficiali – quando ci sono – (a meno che non si tratti di somministrare psicofarmaci, in quel caso, per la terapia che tiene “buoni” i detenuti, l’efficienza è di prima classe), ma anche i frequenti pestaggi – come abbiamo visto più volte, pure molto recentemente, anche sulle immagini delle televisioni nazionali -, o la lontananza da affetti e famigliari; e la lunga lista di problematiche potrebbe andare ancora avanti.

Questo sciopero non si slega dal contesto delle più o meno frequenti proteste e rivendicazioni dei detenuti che abbiamo visto negli ultimi anni, a partire dalle drammatiche rivolte del 2020, all’inizio del COVID (che hanno portato alla morte di tredici detenuti tra varie carceri italiane) fino allo sciopero della fame di Alfredo Cospito – e successivamente altri detenuti come ad esempio Domenico Porcelli – contro le condizioni disumane del 41BIS.

Queste condizioni – spesso alienanti, degradanti e umilianti, quando non dannose e lesive, anche per la salute – fanno parte di una guerra alle persone escluse.

Il carcere, infatti, è frutto e cardine di una società che opprime chi si discosta dalla norma per qualsiasi ragione, che razzializza e discrimina chi non ha il giusto pezzo di carta – o dalla pelle un po’ più scura del tollerato, fondata sullo sfruttamento (delle persone più povere, della terra, degli animali), che divide e relega a ruoli predeterminati in base a quel che abbiamo tra le gambe.

E infatti chi finisce in carcere, maggiormente, sono proprio queste persone, deviate e devianti, criminalizzate perché indesiderabili, o refrattarie in qualunque modo a questo status quo, e quindi indesiderate.

Il carcere serve, tra le altre cose, a fare da spauracchio per il dissenso sociale, a placare l’insorgere di pratiche conflittuali. Ne sono la dimostrazione l’aumento delle pene per tutte quelle pratiche di lotta degli ultimi decreti sicurezza.

E risulta sempre più evidente come la favoletta del carcere come strumento rieducativo non regga. La sua reale faccia, quella punitiva e vendicativa, si mostra a ogni rivolta, a ogni protesta, a ogni pestaggio, a ogni morte tra quelle mura. E infatti il numero dei suicidi in prigione è sempre in aumento, e proprio qualche giorno fa un detenuto anche qua a Parma si è suicidato allargando le fila di quelle persone che decidono di togliersi la vita non tollerando le condizioni carcerarie (venti volte più alto dei suicidi fuori).

Ma non prendiamoci in giro, il confine tra dentro e fuori è tanto concreto quanto fittizio. Il carcere comincia dalla repressione nelle strade, dall’inasprimento delle pene per i reati legati al dissenso o a pratiche di resistenza e sopravvivenza, che mette sullo stesso piano pratiche solidali con pratiche da aguzzini. Ricordiamo Eugenio Tiraborrelli, morto nel 2019 a 82 anni proprio nel carcere di Parma, dopo nove mesi di detenzione, che, per aver aiutato una donna straniera a superare i sacri confini nazionali (ma per solidarietà umana, non per profitto), è stato equiparato a un trafficante di esseri umani.

Tutto questo è legato a doppio filo dal profitto, in un mondo che ci affama e alla guerra interna si sta concretizzando (o meglio avvicinando) sempre più anche quella esterna, il tutto per i privilegi e gli interessi economici di pochi. Se i sistemi di sorveglianza testati sui terreni bellici vengono poi perfezionati e impiegati anche nella pacificazione di guerre a bassa intensità negli Stati occidentali, nella maggior parte dei casi sono proprio aziende che hanno sede nei paesi del blocco atlantico, vedi Elbit nel Regno Unito o Leonardo in Italia, a brevettare e vendere armi negli scenari di guerra aperta.

A questo proposito va ricordato che ormai da mesi si sta compiendo un genocidio in quella che persino l’ONG Human Rights Watch ha definito una prigione a cielo aperto, ovvero Gaza, sotto gli occhi indifferenti dei potenti del mondo.

Non vogliamo un carcere più umano, vivibile, vogliamo un mondo in cui non sia necessario lo spauracchio repressivo, un mondo, insomma, senza esclusione, oppressione e sfruttamento.

Alcune persone refrattarie a questo mondo

28/03/24

 

 

 

P.S: apprendiamo mentre scriviamo queste righe che il 4 di Aprile nel medesimo carcere si terrà uno sciopero itinerante delle guardie, sciopero che andrà a toccare diverse carceri della penisola. Ovviamente è inutile dire come nell’eccesso di grottesco prodotto dalla narrazione dell’autorità, i secondini diventano “vittime” dello Stato allo stesso modo delle persone detenute. Ma lasciamo qui la notizia, di modo che ognunx possa farsi una propria idea al riguardo:

https://www.parmatoday.it/attualita/sciopero-fame-poliziotti-carcere.html

[1] 

https://brughiere.noblogs.org/post/2024/02/16/voci-dalla-voragine-del-41bis/