L’ULTIMO 25 NOVEMBRE. Contro la variante fucsia del disciplinamento sociale

 

Dopo quest’ultimo 25 novembre, proponiamo due testi diversi, che ci sembrano consonanti nel loro essere fuori dal coro. Il primo è della Coordinamenta femminista e lesbica, ed è già stato pubblicato sul loro blog https://coordinamenta.noblogs.org/. Il secondo, scritto da una compagna comunista, è inedito.

Se condividiamo l’allergia di queste compagne verso tutte le proteste comandate, nonché la denuncia della evidente strumentalizzazione istituzionale-poliziesca della vicenda di Giulia Cecchettin (e prima ancora dello stupro di Caivano), aggiungiamo da parte nostra una nota problematica.

Se dietro le mobilitazioni dello scorso 25 novembre (e più in generale dietro la riscoperta di massa, negli ultimi anni, delle questioni di genere) è difficile non scorgere una energica e interessata spinta mediatica, ci pare anche che la questione dei femminicidi e dell’oppressione patriarcale sia tanto reale1 quanto sentita. Mentre a dircelo è innanzitutto la vastità delle manifestazioni, attraversate da centinaia di migliaia di persone di ogni sesso e genere, «le piazze più sincere e arrabbiate» sembrano covare (e a tratti comunicare) anche una eccedenza, un bisogno di stravolgimento degli attuali rapporti sociali. Ce lo dicono sia alcuni slogan (a partire dal «se non torno a casa, bruciate tutto» rilanciato anche da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia), sia alcune azioni (come il meritorio infrangimento delle vetrine dell’associazione antiabortista Pro Vita durante la manifestazione a Roma). Insomma, pare che ormai molte persone, specialmente giovani, identifichino come patriarcato la totalità della presente organizzazione sociale, esigendo, in un modo o nell’altro, il suo superamento…

Resta da chiedersi dove questa eccedenza possa andare a parare. Se le uccisioni, gli abusi e gli stupri sistematici contro le donne non sono affatto aumentati negli ultimi mesi, ma sono antichi quanto il patriarcato e la società di classe, ad essersi drasticamente ristretti di anno in anno – sotto l’incedere della macchina dello Stato – sono piuttosto quegli spazi di vita in cui è possibile organizzarsi senza deleghe per affrontare i problemi comuni, comprese le violenze. Senza difenderli e riconquistarli, questi spazi, la parola non può che passare all’istituzione, cui delegare una maggiore repressione o una maggiore educazione, condite e innaffiate dallo stigma in solido dei maschi in quanto tali (a tutto vantaggio dell’odiosa cultura della colpa, controrivoluzionaria e patriarcale quanto il sessismo).

La rabbia delle donne e di tutte le persone di cuore, insomma, pare trovarsi a un bivio. Da un lato la continuazione del patriarcato sotto diversa forma, o i suoi lugubri e deumanizzati eredi. Dall’altro, né più né meno che la rivoluzione sociale.

1 Oltre il 90 per cento delle donne (nonché degli uomini) è uccisa da uomini, mentre più della metà delle assassinate del 2023 sono state uccise dai loro partner.

 

L’ultimo 25 novembre

Questo per noi sarà l’ultimo 25 novembre. Non ne possiamo più di date inventate a tavolino dall’Onu o dai suoi collaterali e consorziati strumentalizzando l’assassinio delle sorelle Mirabal, non ne possiamo più di date e ricorrenze propagandate dalle varie istituzioni pubbliche false, ipocrite, utilitaristiche e prezzolate. Non ne possiamo più delle processioni, dei teatrini, dei pulpiti e delle scarpe rosse che il potere allinea nelle piazze, delle coccarde e delle panchine rosse nei parchi, dell’associazionismo e dei corsi di educazione per i tutori dell’ordine costituito, i magistrati, i carcerieri…annessi, connessi e collaterali.

Non ne possiamo più delle lacrime utilitaristiche delle patriarche che pontificano contro la violenza sulle donne e fanno leggi securitarie, liberticide, di povertà e ristrettezze economiche, che gettano tutte le altre donne nella miseria, nell’impossibilità di tutelarsi e autodeterminarsi, che costringono tutte le donne alla guerra fra povere, che sfornano legislazione repressiva e di controllo con la scusa dei femminicidi…braccialetti digitali, Mobil  Angel, territori disseminati di telecamere, codici rossi, inasprimenti delle pene.

Non ne possiamo più di quelle che si dicono femministe e che ficcano la testa sotto la sabbia e continuano a rapportarsi con lo Stato, per convenienza o per abitudine, a pensare che la violenza sulle donne si risolva con la presa di coscienza degli uomini e delle istituzioni e non si accorgono o fanno finta di non accorgersi che il potere sta pesantemente strumentalizzando le donne e le diversità e le sta usando per una trasformazione profonda della società dalle fondamenta.

Giulia, ammazzata pochi giorni fa dall’ex perché voleva studiare, se ne voleva andare, voleva scegliere la sua vita, è l’ennesima di una lista senza fine e abbiamo ascoltato da tutti i pulpiti le solite esternazioni aberranti…il problema è culturale, bisogna insegnare il rispetto dell’altro, soprattutto nelle scuole, bisogna educare alla tolleranza, alla civiltà nei rapporti, al riconoscimento della libertà degli individui, al rispetto dei desideri e dei pensieri altrui, al rispetto delle diversità, bisogna introdurre nelle scuole l’educazione all’ affettività.

E quale sarebbe questo rispetto dell’altro? Quale sarebbe il rispetto dei desideri e dei pensieri altrui? Mettere in galera quelli che osano dissentire da questo sistema o anche solo pensare di costruire un’altra società? Escludere dal consesso lavorativo e civile tutte e tutti quelli che erano contro il green pass? Che volevano autodeterminarsi e rifiutare una terapia sperimentale? Dividere la gente in persone di serie A e di serie B a seconda dell’adeguamento al sistema di potere? Demonizzare tutti quelli/e che sono contro la Nato e contro le armi all’Ucraina? Che sono contro il controllo totale della nostra vita attraverso la digitalizzazione forzata, le sperimentazioni genetiche, i nuovi OGM, le smart cities o le ZTL? E quale sarebbe l’educazione alla tolleranza? Le guardie che si fanno forti di una divisa e sono armate anche in borghese? La tolleranza zero contro i diversi, i/le migranti, i nuovi Cpr, le periferie trattate come zone delinquenziali, la guerra ai poveri/e? e quale sarebbe la civiltà nei rapporti? Quella di spingere allo spionaggio di vicinato, alla delazione sul posto di lavoro, trasformare ogni cittadino/a in gendarme? E quale sarebbe il riconoscimento della libertà altrui? Quello delle guerre di aggressione degli Usa e della Nato, Italia compresa o il genocidio del popolo palestinese da parte di Israele?

La società neoliberista è una società violentissima che pratica sistematicamente la legge del più forte in ogni ambito nascondendosi dietro parole ipocrite, che esalta il dominio e il possesso, che mette in atto prevaricazione, stigma e controllo sui subalterni/e, esclusione sociale e morte civile quando non direttamente fisica. Perché non dovrebbero farlo gli uomini con le donne? I meccanismi patriarcali infatti sono gli stessi che ha usato e sta usando l’attuale fase del capitale per la trasformazione della società dalle fondamenta.

Il neoliberismo ha patriarcalizzato la società tutta, ha imperniato l’assoggettamento di tutti i subalterni su principi che il modello patriarcale ha usato per l’assoggettamento delle donne:

L’asservimento delle donne è stato praticato e perpetuato estorcendo la nostra partecipazione emotiva ai dispositivi dello sfruttamento […] E una volta dentro, non esiste distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero, dobbiamo essere disponibili ventiquattro ore su ventiquattro, dobbiamo riconoscere il nostro ruolo ed esserne appagate poiché solo così potremo essere felici, potremo dare un senso, un senso pieno, alla nostra esistenza. Lo sfruttamento patriarcale ci espropria alla fine anche della nostra emotività: dobbiamo provare solo i sentimenti che sono stabiliti. Il neoliberismo ha esteso questi dispositivi di sfruttamento oltre la famiglia, oltre il lavoro riproduttivo. Ha femminilizzato il lavoro salariato. L’azienda neoliberista pretende da lavoratori e lavoratrici una dedizione assoluta, e spesso e volentieri gratuita, una partecipazione emotiva alle sorti della stessa, una continua reperibilità. Sempre più spesso, sempre più diffusamente, “portiamo a casa” il lavoro e non riusciamo più a godere del, poco, tempo libero che ci viene lasciato. Ma il neoliberismo vuole anche altro. Un mettersi in gioco continuamente per dimostrare quanto si è bravi/e, un’attesa continua del riconoscimento del merito e quindi una continua dipendenza dal giudizio. L’ossessione valutativa, portato dell’ideologia meritocratica, viene naturalizzata spingendo uomini e donne a riconoscere “affettivamente” la filiera gerarchica. Accettazione supina della propria inadeguatezza e quindi dei rimproveri che ci vengono mossi, delle umiliazioni a cui siamo tutte e tutti quotidianamente costretti, della concorrenzialità con i propri simili; una disponibilità ad assumere la scala di valori vincente e quindi a stigmatizzare tutti quelli che si comportano in maniera deviante. Ma anche questo, come donne, è un meccanismo che conosciamo bene. Da sempre noi donne dobbiamo dimostrare di essere brave, di essere all’altezza. Il giudizio altrui ha sempre contato moltissimo; lo “sguardo maschile”, sicuramente, ma anche quello delle altre donne a cui è stato attribuito il compito di “cani da guardia” del sistema, portato a termine stigmatizzando tutte le altre donne che non accettano la norma, la normalità, che non vogliono rientrare nei ranghi della scala di valori codificata. Nel mondo del lavoro salariato, poi, il nostro impegno nel dimostrare quanto valiamo si è addirittura centuplicato. Come in famiglia, anche negli altri luoghi di lavoro, dobbiamo accettare rimproveri e rimbrotti perché chi li fa sa meglio di noi qual è il nostro bene. Ci costringono a interiorizzare il senso della nostra inadeguatezza: è un nostro difetto, atavico, proprio perché, in fondo, non siamo in grado di scegliere il “meglio” per noi. E come hanno potuto ottenere da noi tutto questo? Attraverso la costruzione dei ruoli sessuati e non, la santificazione dell’autorità, la continua affermazione della logica del possesso, la retorica della responsabilità e del sacrificio, spingendoci ad introiettare la legalità con la minaccia dello stigma sociale, del ricatto affettivo ed economico, della repressione poliziesca.

In altri termini: hanno normalizzato e naturalizzato lo sfruttamento, l’oppressione, la mortificazione, la degradazione. La descrizione del nostro presente, costruito sulle gerarchie di genere, classe e razza, è diventata prescrizione del presente. (Quattro Passi/Note sul femminismo nella fase neoliberista del capitale pp.53,54)

La violenza patriarcale sotto mentite e negate spoglie intride le nostre società occidentali in profondità. Se c’è un movimento che in questo momento dovrebbe battersi contro le dichiarazioni emergenziali, la sperimentazione sui corpi attraverso il ricatto di un <bene comune e superiore> o attraverso il miraggio di una salute perfetta, di figli perfetti e per tutti, che dovrebbe battersi contro le leggi e i processi di interiorizzazione delle ideologie dominanti vecchie e nuove, contro i processi di asservimento che si concretizzano nel controllo sociale e territoriale serrato, nella digitalizzazione a tutto campo, nella guerra sul fronte esterno ed interno, questo dovrebbe essere proprio il movimento femminista.

Invece la ricerca della felicità  individuale e collettiva è stata capovolta in una realizzazione personale totalmente dimentica dell’originaria azione creativa e dialettica del femminismo.

Ogni riflessione e pratica eterodiretta rispetto al pensiero unico viene rinchiusa dal potere nella logica del negativo e del patologico, da reprimere, utilizzando da un lato le componenti socialdemocratiche riformiste come agenti controrivoluzionari, dall’altro le componenti dichiaratamente fasciste con la repressione diretta. Le une e le altre sono complementari.

Tutto questo ha portato ad un incremento della violenza. Da quella tradizionale che si manifestava nello sfruttamento all’interno del sistema organizzato di fabbrica o di impresa capitalistica, da quella che veniva esercitata nei confronti di chi aveva un orientamento ideologico diverso, da quella secolare di genere, oggi il potere è passato alla pretesa di piegare ai suoi obiettivi  tutta la nostra vita.

In questa società, “realizzazione della civiltà”, la violenza non è più qualcosa di esterno ma è immanente, è causa e principio e, perciò, è legalizzata e istituzionalizzata.

A questo sporco gioco non ci stiamo, ci troverete ovunque ci siano crepe per poter uscire da questa società e per smontarla.

Coordinamenta femminista e lesbica

Emergenza donna: la variante fucsia del disciplinamento sociale

Le avvisaglie del nuovo giro di vite, in nome della “difesa delle donne”, si erano già intraviste a Caivano. Qui a settembre – in seguito dello stupro di due cuginette da parte di un branco di adolescenti – lo Stato aveva “prontamente reagito” inviando nel quartiere di Parco Verde l’esercito per controllare il territorio e le ruspe per fare spazio ad un centro polifunzionale…gestito dalle Fiamme Gialle. E non solo: ignorando ipocritamente che Caivano è una delle tante periferie urbane dove sono stati rinchiusi, in stile CPR, disoccupati, lavoratori al nero, precari, immigrati, piccoli spacciatori, prostitute ecc., lo Stato ha voluto continuare a consumare il suo stupro sociale allontanando le bambine dalle loro famiglie, ree di non averle controllate a sufficienza. Ed ecco piovere leggi contro la cosiddetta“violenza minorile”: per i genitori che non ottemperano all’obbligo scolastico così come per i minori con nuovi Daspo , custodie cautelari, inasprimento delle pene.

Ma il coro bipartisan che plaude ad una maggiore fermezza dello Stato contro la violenza sulle donne si sta facendo assordante dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin: speciali Tv; talk show; Pubblicità Progresso, intellettuali e artisti che (come per la “necessità” dei vaccini) si sbracciano ad osannare l’eterno femminino e condannare la violenza di genere, fiocchi fucsia che piovono da tutte le parti… E perfino le piazze più sincere ed arrabbiate, che si sono mobilitate in occasione del 25 novembre, rischiano di fare, loro malgrado, da volano ad ulteriori misure di disciplinamento sociale dello Stato a “tutela delle donne”. Dello Stato, non specificatamente di questo Governo.

E poi, come durante la Pandemia, una “sinistra antagonista” che quando non è afona parla e scrive del nulla. C’è chi si lancia in dotte dissertazioni sul termine “patriarcato” (chiamando in causa analisi antropologiche o storiografiche), chi si appende alle statistiche ufficiali per confermarle o confutarle, chi si nasconde dietro ad Hobbes, chi (in campo sovranista, nel tentativo di criticare la cultura Gender delle grandi lobby) grida all’auto vittimizzazione e alla propaganda “misandrica” (sigh!) e chi semplicemente (e forse più onestamente) tace.

Inoltre quasi tutti, ma proprio quasi tutti, fingono di ignorare che l’oppressione di genere non ha lo stesso carico di esclusione, violenza e brutalità se si carica anche di fattori di classe e di razza. Mi si dirà: ma proprio l’omicidio di Giulia Checchettin dimostra che questo non è vero. A questa contestazione vorrei rispondere che davanti alla morte brutale di una ragazza come Giulia, sono centinaia di migliaia le donne “invisibili” che muoiono ogni giorno per le guerre, per fame, per lavoro; ma queste ultime non fanno testo. Così come davanti ad una Shani Louk israeliana, si tace sui quasi 5000 minori e 2741 donne morti sotto i bombardamenti israeliani. Ben vengano, quindi, quelle donne che, a Roma, in piazza, hanno rivendicato la loro solidarietà con la Palestina andando ben oltre le posizioni ufficiali di “Nessuna di meno”.

Non potremmo mai neanche pensare alla nostra “liberazione” se solo ci dimenticassimo, per un attimo, quella delle nostre sorelle violentate, uccise e represse dal “nostro” imperialismo: quello civile, democratico, paladino dei diritti Lgbtq, che semina ovunque guerra e distruzione. Non dimentichiamoci, ad esempio, degli stupri e delle violenze che i nostri valorosi soldati italiani hanno compiuto in Somalia o a Nassiriya.

Occorrerebbe, ad esempio, meglio riflettere su quel “femminismo coloniale” (come lo definisce splendidamente il Collettivo Femminista Palestinese) che in nome della presunta “liberazione delle donne” giustifica, quando non appoggia, le aggressioni imperialiste in Palestina piuttosto che in Afghanistan; in Sudan piuttosto che nello Yemen o in Iran.

All’esterno il femminismo coloniale diventa il “drone rosa” che sorvola su guerre, aggressioni e saccheggi; all’interno fa da cavallo di Troia a nuovi disciplinamenti sociali. Una posizione che, purtroppo, accumuna, nella sostanza, una Ely Schlein non solo a “Non una di Meno”, ma perfino a qualche militante femminista del Si Cobas.

Il femminicidio, l’oppressione e la violenza di genere sono elementi fondanti di tutte le società basate sulla famiglia, la proprietà privata e lo Stato, attraversano quasi tutte le culture, le religioni, le comunità, ma sono diventate ancora più brutali con il capitalismo che cerca di dissimularle e nasconderle quando non trasformarle e utilizzarle a suo uso e consumo. La violenza contro le donne è uno dei primi elementi fondanti della violenza del capitalismo contro l’umanità tutta, è un suo elemento strutturale; esiste da secoli e nei secoli si è adattata, perfezionandosi, ai processi di valorizzazione specifici del capitale, coniugandosi perfettamente con la crescente svalorizzazione, disumanizzazione e alienazione di entrambi i sessi.

Ed allora il femminicidio di Giulia Checchettin diventa solo il pretesto per varare nuove leggi, nuovi controlli, nuove pene, perfino nuovi, “dedicati”, funzionari dello Stato (nelle scuole, nella Polizia, nella Magistratura), e tutto funzionalizzare ai nuovi obiettivi di normalizzazione e controllo.

Come donna non plaudo a nessuna legge dello Stato a favore di noi donne, per il semplice fatto che lo considero il primo, vero, nostro stupratore sociale, e le sue leggi sono fondamentalmente dirette a disciplinare, controllare, condizionare, quanto di “umano” rimane in noi donne e nei nostri uomini, compagni, figli e fratelli.

Flavia