La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi

In queste ore drammatiche, riceviamo e diffondiamo questo utile contributo dal blog La causalità del moto (ex Noi non abbiamo patria). Si faccia particolare attenzione alla nota a piè di pagina: la rivolta palestinese sta aprendo una contraddizione apparentemente enorme tra USA, Israele e Russia, che pare quasi riassumere un mondo ormai troppo connesso per non saltare tutto insieme.

Con il cuore in gola, e gli oppressi palestinesi nel cuore.

da https://lacausalitadelmoto.blog/2023/10/09/la-fragilita-di-israele-sotto-attacco-nel-vortice-della-crisi/

Qui il testo in pdf: lafragilitàisraele

La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi

Attaccato da aria e da terra Israele si sveglia fragile e impaurito nelle prime ore del mattino del 7 ottobre 2023, che vede ancora stamattina l’esercito Israeliano in un disperato tentativo di riconquistare il controllo di almeno ventidue villaggi e cittadine Israeliane prossime al confine con Gaza. Nonostante la reazione criminale di Israele che è e sarà sempre di più di estrema violenza, con un altissimo sacrificio di vite umane tra donne e bambini di Gaza, è chiaro che questa offensiva militare Palestinese era inevitabile, proprio per motivi di sopravvivenza dalla pulizia etnica e uccisione di bambini che l’IDF e le truppe di occupazione Israeliane portano avanti quotidianamente e con crescente violenza da tre anni in tutta la West Bank.

Uno stillicidio quotidiano operato con la collaborazione della direzione della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), dei paesi Arabi e dell’Arabia Saudita e legittimata dall’Occidente che non può rinunciare al proprio storico avamposto imperialista in Medio Oriente.

Quello che viene definito come “attacco terroristico di Hamas” è una azione di difesa di massa che parte dalla striscia di Gaza – ovvero una vera e propria prigione, un lager a cielo aperto circondato da alte mura fortificate e armate Israeliane – per far respirare gli sfruttati Palestinesi di West Bank. Non si tratta – come si cerca di far credere – di una azione circoscrivibile a un pugno di miliziani di Hamas, ma si è trattato e si sta trattando di una vera incursione delle masse sfruttate di Gaza, che una volta che il colpo delle milizie ha conquistato militarmente e di sorpresa gli avamposti dell’esercito Israeliano lungo diversi punti del confine militarizzato di Gaza, ha sfondato le recinzioni in più punti e ha dato vita ad una invasione verso i centri abitati Israeliani in una sorta di euforia liberatoria di un popolo sfruttato, oppresso e segregato da troppo tempo. Un’azione militare, quella Palestinese, che non ha precedenti. Si tratta di un confronto impari sul piano militare tra lo Stato di Israele e l’organizzazione della resistenza palestinese, in questo caso Hamas, e per queste ragioni le masse sfruttate Palestinesi possono andare incontro a una sconfitta.

La domanda che il perbenismo democratico in Occidente si pone è: ne è valsa la pena?  Ma è una domanda stolta e interessata perché la storia non procede secondo logiche di interessate razionalità democratiche, ma da necessità insopprimibili che divengono forza, che in questo caso hanno spinto le impari forze dei Palestinesi a un assalto capace di provocare in così breve tempo un numero di perdite che la fortezza Israele mai avrebbe immaginato – sono già più di 600 i morti tra le forze Israeliane, mentre nonostante la richiesta della mobilitazione generale dei riservisti le truppe dell’IDF riscontrano difficoltà a riconquistare i villaggi Israeliani di confine attaccati da una manovra di accerchiamento militare che è senza precedenti.

Sarebbe ingenuo e fuorviante non sottolineare che l’azione di Hamas e dei palestinesi è stata possibile anche per la crisi politica interna  quale riflesso di una crisi più generale che sta colpendo – e finalmente – l’insieme dell’Occidente. Una crisi economica e finanziaria senza precedenti. Che precede i fatti dell’oggi e la espone alla risposta della resistenza Palestinese. Già in passato questo blog aveva evidenziato la dinamica di franamento per vie centrifughe della nazione Israeliana [qui qui], e del fallimento della storica questione Ebraica che trovava soluzione in uno spazio temporale ascendente del Capitalismo attraverso il sionismo, ovvero attraverso la “nazionalizzazione dell’ebraismo” come forma particolare del colonialismo imperialista Europeo e Occidentale in Medio Oriente.

I fatti di ieri che continuano oggi sono un ulteriore traumatico passaggio del vortice della crisi che morde alle caviglie anche Israele. Ilan Pappé, storico Israeliano di Haifa schierato a fianco della Palestina storica e contro la pulizia etnica del suo popolo operato da più di 80 anni dalla sua nazione, di fronte al crollare dei pilastri fondamentali della comune nazione ebraica, il 31 luglio 2023 scriveva con materialistica lucidità sul Palestine Chronicle”:

«La legittimità di Israele, anzi la sua stessa vitalità, poggia su due pilastri principali. Il primo è il pilastro materiale, che comprende la sua forza militare, le sue capacità high-tech e un solido sistema economicoQuesti fattori consentono allo Stato di costruire una solida rete di alleanze con i Paesi che desiderano beneficiare di ciò che Israele ha da offrire: armi, sicurezza, software di spionaggio, conoscenze ad alta tecnologia e sistemi modernizzati di produzione agricola. In cambio, Israele non chiede solo denaro, ma anche sostegno contro la sua immagine internazionale erosa. In secondo luogo, il pilastro morale. Questo aspetto era particolarmente importante agli inizi del progetto sionista e della creazione dello Stato. Israele ha venduto al mondo una duplice narrazione: uno, che la creazione di Israele era l’unica panacea per l’antisemitismo e due, che Israele era stato costruito in un luogo che religiosamente e culturalmente apparteneva al popolo ebraico.

Ma questi due fattori sono entrati inesorabilmente in crisi come precipitato generale della crisi dell’accumulazione mondiale, che come una scossa tellurica sconvolge dal sottosuolo le trame del mercato mondiale e si presenta caotica e confusa in superficie:

«È difficile stabilire con esattezza quando il pilastro morale su cui si reggeva Israele ha iniziato a erodersi, fino a sgretolarsi sotto i nostri occhi…»

Secondo lo storico e attivista di Haifa la nazione Israeliana è costruita su piedi di argilla e su una idea di nazione che egli chiama «Israele di fantasia», nella quale crede che «l’Occidente sostenga Israele perchè aderisce al “sistema di valori” occidentali basato sulla democrazia e sul liberalismo». Lo storico sostegno fatto di finanza ed armamenti all’unica democrazia del Medio Oriente avviene ed è sempre avvenuto per proteggere gli investimenti di capitale occidentali nell’area, condizionare le nazioni Arabe che non possono fare a meno di scambiare nel mercato mondiale e con l’Occidente fino a includere la stessa ANP, e intascare i dividendi. Israele è da anni – con improvvisa accelerazione dalla pandemia del Coronavirus – sottoposta a una profonda crisi finanziaria, di tenuta del suo mercato interno e dei suoi ceti medi produttivi. Una dinamica inesorabile che sta determinando al suo interno una forma di nazione ebraica confliggente e in contrasto con la precedente forma: una Israele Giudaica depurata dall’ebraismo laico e liberale, teocratica come tendenza necessaria a contrastare il fallimento della crescita demografica di Eretz Israel, mentre gli “arabo israeliani” (ossia i Palestinesi sionizzati) sono una componente in crescita che costituisce più del 20% della popolazione. Ma è una forma – precipitata dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico – che mette a nudo le crepe della coesione sociale, evidenzia le linee razziali di una società capitalista che è razzista anche nei confronti degli ebrei di origine Africana, Nord Africana e non bianca Europea, le disuguaglianze sociali e soprattutto la minore disponibilità nelle nuove generazioni che guardano alla Israele di fantasia a dedicare tempo e energie al servizio militare come facevano con ardore nel passato meno recente.

Da qui la fragilità di Israele di fronte all’inaspettata mossa della resistenza Palestinese, che di fronte alla stessa crisi non consente più ad Hamas di contenere il ribollire delle masse povere di Gaza recintate all’interno del suo lager.

Infatti, Ilan Pappé inizia a notare che è proprio dal processo implosivo di Israele che inizia a delinearsi un momento della storia di rara opportunità e per riflesso la ripresa della lotta Palestinese: «La futura Palestina de-sionistizzata può apparire ora come una fantasia, ma a differenza della “Israele di fantasia”, ha migliori possibilità di galvanizzare a livello locale, regionale e globale ogni persona con un minimo di decenza».

Se a livello locale e regionale le masse sfruttate per necessità agiscono e si galvanizzano, questo accade non per un processo di composizione delle coscienze, avviene perché Israele e l’Occidente si trovano in braghe di tela, impantanati in una guerra sul confine Russo, che non possono vincere né evitare. Soprattutto lo è, con tratti similari a quelli della crisi di Israele, la società degli Stati Uniti d’America, l’anello forte dell’unitario modo di produzione capitalistico e del suo corso catastrofico della crisi.

Una dinamica che crea una paura scomposta in Israele e la fuga caotica dei colonizzatori ebrei che si sono lasciati indietro case e cose fin dalle prime ore del mattino del 7 Ottobre, ma che sta preoccupando seriamente i capibanda dei briganti Occidentali con tutto il loro codazzo di servitori. Si leva unanime da destra e da sinistra mai come nel passato la condanna dell’attacco “terroristico contro Israele”, secondi il quale Hamas e la resistenza Palestinese starebbero mettendo a rischio gli storici accordi di pace tra Arabia Saudita e Israele, e dunque compromettendo la pace nell’area e i comuni dividendi imperialisti e delle nazioni Arabe. Una pace che è scritta sul sangue degli oppressi e sfruttati dell’intera area. Anche Cina e Russia [1] guardano agli eventi con malcelata preoccupazione. I primi perché la via della seta e la sua penetrazione finanziaria e di merci richiede stabilità in Medio Oriente e in Africa, i secondi perché si scompongono quelle nazioni con cui intendono scambiare le materie prime che essi producono.

Ed è un coro al quale in maniera ignobile si è associato anche il più grande sindacato dei lavoratori Italiani, la CGIL dalla pubblica piazza per il lavoro di ieri 7 ottobre a Roma. Come a confermare che, alle prime serie avvisaglie della crisi generale del modo di produzione nel ricco Occidente, il movimento dei lavoratori reagisce istintivamente a difendere la propria relazione che lo lega alla produzione del valore.
La crisi storica di un modo di produzione unitario procede a scomporre nel caos il risultato di tutte le relazioni delle classi e forze sociali con la produzione del valore, determinate dal suo tempo finito di espansione precedente, e con essa anche il processo riflesso della rivoluzione è in marcia, inizia a emergere a ondate discontinue e caotiche, tra improvvise fiammate e riflussi, di cui l’inedita invasione militare di Israele è parte: dalla indecorosa ritirata Afghana, alle sommosse Palestinesi del West Bank e nelle città Israeliane del 2021, alla presa a calci nel sedere delle forze neocolonialiste – Francesi, Statunitensi ed Italiane – nel Sahel Africano e nel Niger.

In Occidente questa composita ma unitaria marcia vedrà emergere improvvisi eventi più simili appunto alla George Floyd rebellion del 2020, o a quelli partiti da Nanterre che hanno coinvolto tutte le province francesi a fine giugno ed inizio luglio di quest’anno. Lo sciopero degli Autoworkers, in corso in questi giorni negli Stati Uniti d’America contro Ford, GM e Stellantis, più che esprimere la ripresa della ricomposizione della classe operaia fatta di volatile coscienza e autonoma organizzazione, demarca come la crisi di un modo di produzione determina anche la fine dell’illusione che la “classe” una volta che si è fatta nazione, passi poi progressivamente alla rivoluzione attraverso un accumulo di coscienza e di organizzazione – processo storico del passato che è stato l’altra faccia dell’accumulazione del capitale e del suo immediato naturale riflesso nel conflitto reale tra profitto e salario. Non confidiamo che da questa sfida Palestinese ai pilastri di Israele il processo sarà continuo e progressivo. Alla immediata galvanizzazione delle masse nell’implosione di un ordine capitalistico, seguirà il riflusso e la feroce repressione nei confronti delle masse lavoratrici Palestinesi e Arabe. Nondimeno, il comunismo come necessità storica non potrà che emergere attraverso le pieghe del caos generale di una crisi inarrestabile, che l’Occidente non potrà confinare nel ristretto spazio del Medio Oriente nonostante il terrorismo – questo sì vero – delle «spade di fuoco» Israeliane.


[1] La comunità russa ebraica ha costituito l’ultimo flusso consistente ad alimentare la crescita della popolazione di Eretz Israel attraverso l’immigrazione. Una manna ‘biblica’ per il variegato popolo, non concessa da dio ma dalla disgregazione dell’URSS. Sebbene i russi occupino i gradini più bassi nelle gerarchie sociali di Israele, il Russo è la seconda lingua straniera più parlata nel paese. Oggi i Russi sono la componente della nazione disunita che più sostiene la costruzione della Israele Giudaica, l’estrema destra e la continua occupazione di nuove terre da dove cacciare i Palestinesi, e che mantiene rapporti con la tradizionale madre patria Russia. Una casualità, ma non un caso del modo di produzione che diviene inestricabile per la Russia, che non può non difendere Israele, e per l’Occidente, perché lo Stato Ebraico non può sostenere più decisamente e apertamente l’Ucraina.