A Pesaro, e oltre: messaggi dal fronte umano

Volantino e volantone  distribuiti dal Collettivo terra e libertà al corteo del primo maggio a Pesaro contro l’apertura di un biolaboratorio:

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A PESARO, E OLTRE

Contro i biolaboratori e i loro committenti

Dal suo battesimo ufficiale alla fine degli anni Quaranta, il «complesso militare industriale» non è soltanto l’insieme delle collaborazioni tra apparati militari, dipartimenti universitari e industrie finalizzato alla produzione bellica in senso stretto (a dimostrarlo, basterebbe l’attività della DARPA, quella «agenzia per la ricerca avanzata» del Pentagono che controlla circa il 60 per cento della ricerca tecno-scientifica negli USA). Inglobando in misura crescente la totalità delle innovazioni, questo «complesso» è divenuto l’autentico motore dello sviluppo capitalistico. In modo del tutto analogo, la guerra non si svolge oggi solo in forme «convenzionali» e «simmetriche» (i bombardamenti dei territori, gli scontri tra eserciti ecc.), ma sempre più in forme oblique, coperte, invisibili, che permettano di «tirare il sasso nascondendo la mano».

Mentre i conflitti informatici (cyberwar) sono già in corso a colpi di attacchi hacker, le diverse potenze capitalistiche si esercitano ormai da decenni nelle guerre batteriologiche, cercando di aggirare l’ostacolo rappresentato dall’incontrollabilità di quei virus e batteri che, una volta diffusi, non conoscono confini. Per questo si dedicano ormai da tempo alla «preparazione pandemica» (pandemic preparedness), che è allo stesso tempo sviluppo di questo tipo di operazioni e sperimentazione di nuove modalità di controllo delle popolazioni. Ne sono un esempio le attività del Center for Health Security, una partnership tra gli apparati di sicurezza statunitensi e la Scuola di Medicina della John Hopkin’s University (che è a sua volta una antica filiazione della Fondazione Rockfeller, nonché principale collettore mondiale dei dati sulla diffusione della Covid-19). Fondato nel 1998 col nome decisamente più militare di Center for Civilian Biodefense, il Centro per la Sicurezza Sanitaria si dedica da oltre vent’anni allo studio delle «minacce» pandemiche, con il contributo dell’OMS, delle autorità sanitarie nazionali, dei servizi segreti e dei militari, di grandi multinazionali farmaceutiche e tecnologiche e delle agenzie di stampa, nonché con un apporto crescente della Fondazione Gates. Balzate alle cronache per il celebre Evento 201 dell’ottobre 2019 (una sorta di “prova generale” dell’evento-Covid), le attività del Center mostrano fino a che punto la «preparazione pandemica» sia una specie di profezia che si auto-avvera. I biolaboratori in cui si portano avanti gli esperimenti di ingegnerizzazione e potenziamento dei virus – diretti, di volta in volta, a renderli più infettivi o più letali – ne sono insieme il braccio operativo e l’esempio più emblematico. Con il pretesto di studiare le «minacce» in arrivo, le si crea, per poi produrre nuove sciagure con i “rimedi”. Se si prende per buona l’origine laboratoriale del Sars-Cov-2 (divenuta nel frattempo una “verità” semi-ufficiale), la Covid-19 e i “vaccini” ad mRNA sono stati approntati esattamente negli stessi luoghi e dagli stessi ricercatori.

L’apertura annunciata in Italia di diversi laboratori di bio-insicurezza P3 e P4, nonché il trasferimento del laboratorio militare NAMRU-3 dal Cairo a Sigonella, dovrebbe quindi apparire come un biglietto da visita con sopra scritto: «siamo in guerra». Una guerra tra l’Occidente e le potenze capitalistiche emergenti (a partire dalla Russia e dalla Cina); ma anche, e soprattutto, una guerra dei padroni del mondo contro l’umanità intera, vòlta a sostituire gli umani con i loro cloni robotizzati, e combattuta a colpi di spionaggio e coercizione delle popolazioni, terrore mediatico e bricolage bio-nano-tecnologico. Una guerra, infine, in cui ogni soluzione di continuità tra ricerca militare e civile, politiche sanitarie e di polizia, fronte interno e esterno, si attenua fino a scomparire. Chi obietterà che solo in alcuni di questi biolaboratori (quelli classificati come P4) si producono armi biologiche, dimostra infatti di non conoscere il carattere strutturalmente duale dell’attuale ricerca tecno-scientifica. Che si occupino di «prevenire» i salti di specie o gli attacchi bioterroristici, infatti, tutti i tipi di biolaboratori lavorano in rete a livello mondiale: l’innovazione decisiva per la prossima operazione militare potrebbe provenire da un anonimo gabinetto che studia le zoonosi.

Che proprio adesso, poi, si decida di aprire queste strutture in Italia con i fondi del PNRR, non ci appare affatto casuale, ma parte di una tendenza più generale a rilocalizzare i settori strategici nelle proprie retrovie (come dimostra la vicenda della principale fonderia di silicio del mondo, la TSMC, che da Taiwan sta venendo spostata in Europa e negli Stati Uniti: un investimento giudicato economicamente dissennato dagli “esperti” del settore, e spiegabile soltanto con ragioni militari). Tutti tasselli di una ristrutturazione finalizzata alla guerra globale, di cui fanno parte allo stesso modo la digitalizzazione della società, la minaccia di ritorno del nucleare e la proposta di reintrodurre la leva militare.

Per queste ragioni, e per molte altre, l’apertura dei nuovi biolaboratori non può passare sotto silenzio, ma va impedita.

Che questo primo maggio venga chiamata a Pesaro una manifestazione contro l’apertura di un biolaboratorio P3 (in cui l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Umbria e Marche si dedicherebbe allo studio delle malattie del bestiame), sembra dirci come l’esperienza del Covid-19 abbia cambiato lo sguardo sul mondo di tante e tanti. Dopo anni in cui il progresso tecnologico appariva un mito inscalfibile, che le sue officine abbiano perso ogni aria di innocenza ci sembra un buon punto da cui partire. Il resto – cioè impedire materialmente la realizzazione di queste strutture infami e pericolose – necessiterà di un qualcosa di più: una lotta reale e senza mediazioni, che sia parte di una rivolta più generale contro questo stato di cose.

Per rilanciare, su una base potenzialmente e finalmente di massa, la lotta contro l’ingegneria genetica e le tecno-scienze, contro ogni manipolazione e mercificazione dei corpi, degli umani e della natura.

Per fermare la guerra a partire dalle sue fucine.

Per disertare e sabotare ogni fronte a cominciare dal “nostro”.

Per ribadire la nostra avversione a ogni militarismo a partire da quello italiano e europeo, contro ogni ipotesi sovranista di riarmo in proprio sotto le insegne del “multipolarismo”.

Per ribadire che la solacupola oscura” di cui liberarsi è lo Stato.

Per affermare che la sola alternativa all’orrore del presente è un’umanità finalmente libera e solidale, senza frontiere né padroni.

Rovereto, aprile 2023

Collettivo terra e libertà

Dal fronte umano

Contro il mondo delle macchine e della guerra

Sostituzione macchinica

Mentre il ministro dell’agricoltura Lollobrigida parla, con linguaggio nazista, di «sostituzione etnica» degli italiani da parte degli immigrati; mentre i cosiddetti democratici – che il razzismo istituzionale lo hanno sempre praticato senza dichiararlo – lo accusano di «suprematismo bianco», esiste una ben reale «sostituzione» in atto, che tutti gli schieramenti della classe dirigente promuovono: quella degli umani da parte delle macchine.

«Macchine che scimmiottano gli esseri umani tendono a infiltrarsi in ogni aspetto della vita delle persone e le costringono a comportarsi come macchine. I nuovi dispositivi elettronici hanno in verità il potere di costringere le persone a “comunicare” con essi e con gli altri esseri umani nei termini dettati dalla macchina. Ciò che strutturalmente non rientra nella logica delle macchine viene filtrato e in pratica scompare da una cultura dominata dal loro uso. Il comportamento meccanico degli esseri umani incatenati all’elettronica corrisponde a un deterioramento del loro benessere e della loro dignità, a lungo andare intollerabile per la maggior parte di essi. Le osservazioni sulla nocività di ambienti elettronicamente programmati dimostrano che in essi le persone diventano indolenti, impotenti, narcisistiche e apolitiche. Il processo politico si deteriora perché la gente diviene incapace di governarsi e chiede invece di essere gestita».

Così diceva, nel lontano 1982, Ivan Illich intervenendo a un convegno dal titolo La società gestita dai computer. E concludeva, con profetica lucidità: «Proprio come il traffico motorizzato, i computer necessitano di un regime di polizia».

Ora, non solo la gestione automatizzata dei comportamenti è aumentata a dismisura rispetto al 1982 – grazie agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale e alla diffusione di massa degli smartphone –, ma la convergenza strutturale tra informatica, biotecnologie, nanotecnologie e neurotecnologie ha esteso gli strumenti di cattura, di controllo e di mercificazione ai processi vitali stessi degli umani e delle altre specie. Se l’intera realtà diventa una «risorsa» da gestire e da sfruttare; se ogni materia vivente è un mero flusso di informazioni, un insieme di numeri e di codici da tracciare, isolare e ricombinare al computer o in laboratorio, non c’è alcuna soglia che la potenza tecno-industriale non possa oltrepassare. Se persino un’espressione vocale o facciale può essere scomposta, analizzata e venduta, lo stesso avviene per i geni, le cellule, i tessuti, i liquidi. Il recente accordo di collaborazione tra IBM e ModeRNA per la produzione di farmaci a m-RNA dimostra esattamente questo: il «Pianeta Smart» e la fabbrica genetica si fondono e si confondono. Negli stessi laboratori di bio-insicurezza – si tratti di fabbricare armi biologiche o di studiare antidoti «vaccinali» contro la diffusione di agenti patogeni – il grosso del lavoro è affidato ai computer e all’Intelligenza Artificiale. Pezzi di un medesimo apparato, garantito da un regime di polizia.

Un vasto magazzino

Le tecnologie convergenti costituite dalle biotecnologie, dalle nanotecnologie, dall’informatica e dalle scienze cognitive sono il più vasto e integrato apparato di sfruttamento della natura. Una tendenza che si dirige verso il dominio sempre più esteso e totale del mondo e all’essere umano in quanto tale. È in questo senso che appare ingenuo considerare la Scienza come attività neutra che indaga in modo disinteressato la natura. Lo scienziato come soggetto sociale si rapporta ai fenomeni naturali con modalità diverse a seconda dei contesti storici, politici ed economici nei quali opera. La natura viene vista con finalità, canoni, paradigmi che sono radicalmente cambiati nel corso della storia dell’umanità. La Scienza sviluppata nella società capitalista si distingue per voler conoscere la Natura (anche umana) al fine di trasformarla con l’obiettivo di controllarla e dominarla espropriandone sempre più valore. Ma se questa caratteristica nasce con l’avvento del capitalismo, che getta le sue basi a partire dal XVI secolo, quello che oggi si sta affermando è un’ulteriore accelerazione dell’attacco all’umano grazie alle nuove conoscenze e tecnologie sviluppate.

Non si sfrutta solo l’acqua ma anche l’idrogeno, non solo i metalli ma anche i metalli rari, non solo gli esseri viventi ma anche la loro genetica – e l’uomo non soltanto come forza lavoro, ma anche come fonte di dati necessari allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Da una parte vengono degradati e resi inabitabili gli ecosistemi, dall’altra è la vita stessa ad essere terra di conquista. Niente è ignorato dalla lente d’ingrandimento dei nuovi tecnocrati.

Gli interessi di discipline all’apparenza distanti si intrecciano e una scoperta avvenuta in un settore accelera le applicazioni in un altro campo. Un sostrato di tipo riduzionista accomuna tutte le tecnologie convergenti, (un approccio) secondo il quale un fenomeno complesso può essere compreso nella sua interezza analizzando le sue singole parti, senza tener conto delle proprietà che derivano dall’insieme. Sarebbe come conoscere le note musicali e la loro posizione nel pentagramma senza avere i sensi per poterne ascoltare la sinfonia e con la pretesa di esserne i legittimi compositori e proprietari.

Intelligenza artificiale, automazione, robotica e «tecnologie della vita» sono già forme di transumanesimo incorporato negli oggetti – anche là dove qualche esperto blatera di «etica della tecnologia» e della necessità di un controllo democratico nei confronti della digitalizzazione – perché i paradigmi su cui si basano concepiscono l’imprevedibilità vivente come caos, gli umani come macchine imperfette, il mondo come un vasto magazzino di pezzi da smontare, assemblare e ricostruire.

Contro lo stato di guerra, guerra allo Stato

Mentre l’egemonia occidentale è incalzata dalle potenze capitalistiche emergenti, l’inevitabile resa dei conti pare oggi rinviata all’infinito dalla minaccia di conflitto nucleare, che in modo crescente spinge gli Stati a forme di conflitto non-convenzionali (propagandistiche, psicologiche, informatiche, batteriologiche…). Insieme rarefatta e compressa dalla paura dell’apocalisse atomica, la tendenza alla guerra che attraversa il mondo globale – e che trova nelle tecno-scienze il proprio strumentario – pare internalizzarsi, rivolgendo l’intervento degli Stati anche contro le proprie stesse popolazioni e divenendo sempre più guerra degli apparati all’umanità intera.

Sperimentata su larghissima scala con l’evento-Covid, la «preparazione pandemica» (pandemic preparedness) è senz’altro un capitolo di questa guerra totale. I biolaboratori in cui si portano avanti gli esperimenti di ingegnerizzazione e potenziamento dei virus – diretti, di volta in volta, a renderli più infettivi o più letali – ne sono insieme il braccio operativo e l’esempio più emblematico. Con il pretesto di studiare le «minacce» in arrivo, le si crea, per poi produrre nuove sciagure con i “rimedi”. Se si prende per buona l’origine laboratoriale del Sars-Cov-2 (divenuta nel frattempo una “verità” semi-ufficiale), la Covid-19 e i “vaccini” ad mRNA sono stati approntati esattamente negli stessi luoghi. Luoghi in cui non solo s’intrecciano ingegneria genetica e guerra, ma nei quali il ruolo dello Stato e quello della classe tecnocratica si fondono nello stesso delirio di onnipotenza.

Separando il ruolo dello Stato dal complesso in cui si esercita, e contrapponendo le istituzioni statali allo strapotere del mercato o delle élite tecnocratiche, i vari sovranismi di destra e di sinistra fanno parte dello spettacolo. Nessuno Stato può fare a meno dei mezzi della potenza: dall’arruolamento militare alle bio-nano-tecnologie, dalle manipolazioni propagandistiche a quelle genetiche, dall’informatica ai carri armati… Non è possibile sbarazzarsi di tutto ciò senza chiederci – tutti insieme e ogni giorno, dai problemi più minuti a quelli apparentemente più “grandi” – come vogliamo vivere su questa terra; ed è pura illusione pensare di poterne discuterne (cioè parlarne per scegliere “che fare”, non per scambiarci semplici opinioni) finché un qualsiasi apparato deciderà al posto nostro, col suo inevitabile séguito di chierici e “esperti”, esigenze indiscutibili e decisioni non rinviabili – e rubandoci spirito e sudore per approntare quegli stessi mezzi che servono ad espellerci dal mondo.

Non c’è domanda più urgente che chiederci come cominciare a vivere diversamente. Oggi l’utopia è un luogo senza luogo che vive clandestinamente negli interstizi di questa macchina sociale – in quelle intese tra pari che si realizzano nonostante la pretesa dell’autorità di regolare tutto e portare ovunque sottomissione, competizione, paura e disumanità. Per farsi spazio e trovare un luogo, l’utopia deve sottrarlo allo Stato.

L’inferno sotto le nuvole

Quale realtà materiale si cela dietro l’impalpabilità suggerita da termini come cloud (“nuvola”)?

Il dispiegamento della rete 5G, oltre a comportare un inquinamento elettromagnetico senza precedenti, richiederà una quantità inimmaginabile di nuovi ripetitori e di chilometri di fibra (nonché la sostituzione di gran parte degli smartphone in circolazione), e consentirà un’ulteriore esplosione della produzione di dati, con centinaia di miliardi di oggetti connessi, destinati un domani a trasformarsi in rifiuti elettronici – la stessa sorte che attende i satelliti e i cavi sottomarini che permettono la connessione intercontinentale.

I milioni di data center che permettono ogni nostra attività online consumano già oggi una quota significativa dell’energia elettrica globale, per non parlare dell’acqua necessaria per il loro raffreddamento.

Per produrre un banale smartphone – tanto per fare un esempio, ma lo stesso vale per tutti i dispositivi e le apparecchiature che compongono il mondo smart – servono decine di materie prime, molte delle quali, come i cosiddetti metalli rari, devono essere estratte con procedimenti tali da condannare a morte gli abitanti e gli ecosistemi di intere zone del pianeta. Vanno infatti separate dai materiali spesso radioattivi ai quali in natura si trovano mescolate in quantità minime attraverso lo sbancamento di intere montagne e successivi bagni di acido, producendo enormi quantità di scorie tossiche e compromettendo le risorse idriche. E se fino ad oggi i territori designati per questo sfruttamento feroce hanno seguìto rigorosamente una divisione internazionale del lavoro di tipo neocoloniale, gli sconvolgimenti geopolitici e la crescita esponenziale del fabbisogno di queste materie prime preparano una sempre maggiore rilocalizzazione di questa industria estrattiva anche in Europa – oltre che una sempre maggiore tendenza alla guerra.

Lasciare la presa

Per sbarrare la strada alla nostra sostituzione da parte delle macchine dobbiamo sia attaccare la furia predatoria della logica tecno-mercantile, sia scarcerare dalle gabbie cibernetiche le nostre vite, la nostra sensibilità, il modo in cui guardiamo la natura. Quando l’estrattivismo punta direttamente ai corpi, alla coscienza e al linguaggio, in gioco è la definizione stessa dell’umano. Per questo abbiamo così bisogno di una cosmovisione altra rispetto a quella del capitalismo e della sua scienza; per questo abbiamo bisogno di collegare, idealmente e praticamente, la nostra resistenza contro i paradisi tecnologici alle rivolte che scoppiano negli inferni su cui si fondano.

Alcune comunità indigene della Colombia, che si stanno riprendendo con la lotta le terre su cui vivere, hanno lanciato il fronte umano.

Il più paradossale dei fronti: quello composto dai poveri e dai disertori di tutti gli Stati e di tutte le tecnocrazie. Un fronte chiamato a realizzare il più antiprogrammatico dei programmi: lasciare la presa. Su noi stessi, sui nostri simili, sugli animali, sulle piante, sulla Terra. Distruggere la distruzione dell’umano, sabotando i suoi laboratori, fermando i suoi avanguardisti e smascherando i loro servitori.

Rovereto, aprile 2023

Collettivo terra e libertà