Non abbiamo paura delle macerie – NAPADEMA Napoli, 17-19 marzo 2023 – un resoconto

 

Riceviamo e pubblichiamo questo irriverente resoconto di un incontro napoletano, dedicato a quella terra incognita tra la pars destruens e la pars costruens dell’utopia…

Non abbiamo paura delle macerie – NAPADEMA Napoli, 17-19 marzo 2023 – un resoconto

Parecchie cose cambiano in cinque anni e tanti ne sono passati rispetto all’ultima organizzazione di “Non Abbiamo PAura DElle Macerie” – di qui in avanti Napadema – così che il mondo quasi stenta a riconoscersi. Era questa un’iniziativa che ideammo (il plurale non sta a indicare un collettivo, un gruppo o una comitiva, ma persone che liberamente si accordavano senza necessità di strutturazione né di patti associativi) in nome di una semplice constatazione: di fronte alla relativa imprevedibilità degli eventi che portano periodicamente al bilico o al crollo delle strutture portanti delle società umane l’unico modo che chi si propone un futuro di libera e pacifica convivenza ha, per provare ad attrezzarsi, è quello di entrare in relazione con il saper fare, a tutto campo. A meno di non credere nei partiti o in illuminate istituzioni, nel qual caso si può anche aderire con fede e senza soverchie capacità critiche, caso che però non è il nostro. L’idea di separare la distruzione dell’esistente da una pars construens rimandata a un futuro più o meno remoto è macchinosa e poco realistica, visto che l’insofferenza concreta verso l’autorità e le infinite coercizioni che il Dominio esercita sugli individui poco può se non si adopera al tempo stesso alla realizzazione di una consapevolezza: bisogna avere i mezzi per conquistarsi una libertà che così poco vale e niente dura quando è concessa dall’alto.

Primo passo: saper fare. Cosa? Qualunque cosa reputiamo vada nella direzione giusta, nella massima corrispondenza tra fini e mezzi. Comuni, falegnamerie, cucine, case editrici, non ha in fondo grande importanza dove va a concentrarsi il nostro intento, ma il metodo, o più semplicemente – se la parola vi sembra opprimente – la ricerca di un percorso. Che non è, meglio ribadire a scanso di equivoci, un ambito separato e neppure distinguibile da quello della distruzione dell’esistente, e la soluzione non consiste nell’approntare prima una squadra demolizioni per la società disciplinare e dopo un contesto in cui sia finalmente possibile edificare qualcosa di decente; ma neppure il contrario, dove ci si può convincere che disseminare il pianeta di esperienze libertarie sia non solo necessario ma anche sufficiente all’auspicato ribaltamento: la scissione dei due momenti è una scorciatoia teorico-pratica umanamente comprensibile, magari utile per difendersi dal senso di impotenza che a tratti ci assedia, ma di brevissimo respiro.

Era – è – essenziale ripartire dopo questi anni in cui ogni pensiero di autodeterminazione è diventato un malinconica barzelletta al cospetto della suprema autorità dello scientismo totalitario al quale si sono entusiasticamente piegati numerosi e insospettabili evangelisti dell’anarchismo dopolavoristico che in nome della disciplina distanziatrice si sono trovati a dare man forte alle direttive recepite ed emesse dal livello mediano della gerarchia planetaria – Organizzazione mondiale della sanità, multinazionali farmaceutiche, potere politico, gente così. C’è chi oggi dice che dovremmo passare oltre, dimenticare gli appelli a chiudersi in casa mentre le macchine delle forze dell’ordine pattugliavano il territorio, scordarci degli invasati della vaccinazione totale e della stigmatizzazione di ogni libera scelta; degli zelanti che da una parte inseguivano i poveri – sperando che avessero fame così da passare, portandogli una pillola di elemosina, per paladini dell’umanitarismo – e dall’altra chiudevano due occhi sullo spaventoso dilagare dei danni da farmaci e sul consolidarsi di una strategia a lungo termine della quale Pfizer e compagnia costituiscono un pezzetto mica male. Dovremmo dunque tacere degli apologeti della carcerazione planetaria, arresti domiciliari remunerati: tumichiudi tumipaghi?

Il Sistema ha vinto su tutta la linea, eppure gli scettici della narrazione psicopandemica uniformata non sono scomparsi.

A qualcuno piace partire da lunghe e complesse trattazioni che affrontino presupposti, analisi e dettagli, qui il suggerimento è chiedere conforto, in nome della sintesi, a uno che di dotte disquisizioni poco si intendeva, ma di rivoluzioni sì:

Siamo noi lavoratori che facciamo funzionare le macchine nelle industrie, che estraiamo il carbone e i minerali dalle miniere, che costruiamo le città… Le macerie non ci fanno paura. Sappiamo che non erediteremo che rovine, perché la borghesia cercherà di buttare giù il mondo nell’ultima fase della sua storia. Ma, le ripeto, a noi non fanno paura le macerie, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante… (Buenaventura Durruti, 1936).

L’intento non era quello di un convegno, e convegno non è stato. Abbiamo chiesto a chi veniva da fuori e a chi invece vive e opera a Napoli di raccontarci come vanno le cose. Sono stati presenti progetti che hanno una lunga esperienza come le edizioni La Fiaccola, che hanno più di mezzo secolo, e Urupìa che si avvia a compiere trent’anni di vita comunitaria in alto Salento; gruppi costituitisi in tempi abbastanza recenti come la Falegnameria Autonoma Libertaria, che per la prima volta si è espressa pubblicamente sulle sue pratiche correnti e intenzioni future, e chi, come Usciamo dagli sche®mi, sentì tre anni fa l’urgenza di un segno esplicito e plateale quando le strade erano vuote e i bambini carcerati in casa dietro ai monitor.

La ricetta per ricostruire le comunità polverizzate dal rullo compressore degli apparati tecnoindustriali non ce l’abbiamo, ma qualcosa da mettere in campo pare di sì.

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Santa Fede Liberata è un antico edificio che si trova nel cuore del centro storico di Napoli, a un passo dalle nobili piazze sulle quali si distende Spaccanapoli, un tempo farraginosa arteria del traffico centrocittadino e oggi condotta forzata in cui la fiumana turistica esercita la sua potenza omogeneizzatrice, qui come ovunque fluisca. Era il luogo migliore dove organizzare Napadema, forse l’unico possibile. I secoli l’hanno un po’ usurata e porta fieramente i segni del tempo: per ristrutturarla completamente ci vorrebbero diversi milioni di euro, ma non sembra questo un evento che sarà attuato a breve termine. Decidiamo che l’intervento inaugurale, quello che il venerdì pomeriggio dà l’avvio all’incontro, sarà destinato alla spiegazione del sentiero sinora seguito da Santa Fede (qualcosa potete trovare in Quale deserto fegato, pubblicato da La Fiaccola tre anni fa) che da un’occupazione simbolica da parte di un comitato radicato nel quartiere ha attraversato fasi variegate che hanno condotto a una parziale separazione dagli altri cosiddetti “beni comuni” napoletani e – lo scrivo senza voler attribuire etichette di alcun genere – ad ospitare negli ultimi anni numerose iniziative di impronta libertaria che hanno difficoltà a trovare spazio altrove. Napadema rappresentava anche la volontà di richiamare l’attacco disciplinare subìto nel 2020-21, e il racconto per immagini e voce del periodo in cui sfolgoravano le prestazioni del governatore campano a base di minacce di esser bruciati con i lanciafiamme, da parte di un gruppo composto in gran parte da donne (molte di loro insegnanti e/o mamme) che scelse di chiamarsi Usciamo dagli sche®mi. Ci hanno restituito la consapevolezza di una delle armi più importanti che abbiamo nei confronti del Sistema, ovvero il saper dire no, facendolo – quando si può – attraverso l’ironia, la consapevolezza e il gioco. Viste malissimo dal gregge restiamoacasa/tsopertutti, ci hanno raccontato con garbo e senza melodrammi delle loro iniziative nel deserto urbano e del grande e imprevisto impatto mediatico ottenuto («i giornalisti ci telefonavano per sapere cosa avremmo fatto nei giorni a venire!»). Da quel gruppo, che decise a un certo punto di dissolversi nel cosmo, sono nate diverse altre entità sparse, ad esempio la Jamm’ Band che ha splendidamente suonato per noi la sera di venerdì.

Il sabato mattina ci siamo invece inoltrati nel settore dell’indissolubile rivoluzionario amore tra materiale e immateriale, discorrendo di legno prima e di cibo poi. La Falegnameria Autonoma Libertaria è una cooperativa di fondazione relativamente recente che si è insediata in una bottega storica del centro con persone che cercano di concretizzare quanto afferma la ragione sociale scelta attraverso la condivisione delle decisioni e del lavoro. Parlando del rispetto del tempo proprio e altrui, della relazione con chi arriva per riparare qualcosa (la psiche non è esclusa) e della semplice ed efficiente organizzazione interna i falegnami hanno fatto serpeggiare la malcelata invidia di chi impiega la propria giornata in lavori più drasticamente concettuali. Più delicata è l’impresa nella quale si cimentano da alcuni anni cuciniere e cucinieri di Cucina Clandestina che si ostinano a diffondere una pratica che concili qualità dei prodotti e arte culinaria anche in luoghi dove storicamente ciò che si mangia pare essere l’ultimissimo problema (e com’è? Prima la sovversione e dopo l’alimentazione?). Se Napadema è andata bene è stato in grandissima parte grazie alle due cucine (alla Cucina Clandestina si è infatti associata la Cucina dell’Amore) che ci hanno sfamato e di Urupìa che ci ha dissetato con il suo vino.

Sabato pomeriggio ci siamo dedicati innanzitutto all’editoria autogestita, con Malamente, una delle piccole case editrici libertarie più attive negli ultimi anni, che pubblica dal 2015 una rivista arrivata al trentesimo numero, «Perché l’incertezza e la crisi di questi tempi sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano». Visto che avevamo deciso di dedicarci al centro sud la partecipazione marchigiana è stata il tocco settentrionale (vabbeh’) all’iniziativa. Il fatto che non nasca in ambito metropolitano è una buona indicazione per ribadire quanto dovrebbe essere ormai chiaro da due decadi almeno: visto che centro non c’è, ogni luogo è adatto per cominciare a tirarsi su le maniche.

La massima suspense si è raggiunta con l’intervento di Marco Piracci, unico invitato “singolo” in quanto autore di Cyborg (sempre La Fiaccola a pubblicarlo) per la particolare attualità degli argomenti di cui tratta. Con il suo intervento che ha descritto con spietata gentilezza il binario imboccato dall’ideologia transumanista, perfettamente consona agli sviluppi della società digitalizzata, paradiso del controllo incessante sugli individui, con risultati che vanno oltre l’immaginazione della maggior parte di noi.

Il resto della serata è stato dedicato invece a chi è venuto dalla Sicilia sia a illustrarci la lunga storia di “Sicilia Libertaria” e La Fiaccola (Ragusa), sia rivolgendosi alla microeditoria d’urgenza come “Scirocco” (Madonie), nata dall’impellenza di dire la propria nei momenti più bui della coazione distanziatrice. L’invito includeva la specifica richiesta di un sommario inquadramento sulle condizioni di vita in un’isola che ha la sorte – malasorte, potremmo dire – di star piazzata al centro di uno dei luoghi strategicamente cruciali per il potere militare-politico planetario (sì, lo so che qualcuno vorrebbe ch’io scriva “capitalismo”, ma rassegnatevi: per il Sistema il capitalismo, ammesso che esista, non è né motore né carrozzeria, e manco pneumatici: al massimo fa da specchietto retrovisore per le allodole). Si è parlato di basi militari che infestano il nostro sud e di Muos, con diversi approcci per provare a contrastarlo, e con modalità che possono anche causare episodi di scarsa sintonia; ma tant’è, se volevamo l’assoluto accordo facevamo un partito marxista, non certo un’adunata di insofferenti alla servitù volontaria.

Abbiamo chiuso (al sole, che è stato sempre dalla nostra parte senza esitazione alcuna per tutti e tre i giorni) con Panchovilla in Sabina, una realtà abbastanza giovane formata da persone che si dedica alla campagna – perché «Con la fine della metropoli c’è bisogno di concepire un altrove» – senza rinunciare alla città (Roma-Pigneto), anzi attivandosi per intense e proficue sinergie, e con la comune Urupia, che invece la terra l’ha scelta integralmente da quasi sei lustri. Eppure mai uscita dalla fase sperimentale, cosa che la fa mantenere giovane e vitale: chi c’è stato dieci o venti anni fa e volesse tornarci troverà lo stesso posto (modificato), alcune delle stesse persone (un po’ cambiate, manco tanto), altre comunarde che prima non c’erano e un’aria diversa. Migliore? Peggiore? Potrei dire più aperta e forse meno visionaria e sognatrice; in ogni caso tutto fuorché un posto che «dopo tanti anni ancora resiste», come spesso ho sentito dire, ma che continua a sperimentare e a reinventarsi.

Non voleva, dicevamo, essere un convegno e non lo è stato, e neppure una rassicurante rassegna per gli amanti della libertà ormai orfani di tutto. Casomai un principio di messa a punto per cominciare a capire dove metter mano per l’avvenire.

In margine, vanno ringraziati i sostenitori del nazionalismo ucraino, quelli dell’imperialismo russo e gli esponenti della lega scientista “in Pfizer we trust” per averci fatto la grazia di non manifestarsi in alcun modo. Possiamo ben sperare che in qualche modo la nostra minuscola opera di ricostruzione sia ricominciata. Pazientissimamente e festina lente perché, come disse quel meccanico di León tanti anni fa, ancora non abbiamo paura delle macerie.

Giuseppe Aiello, aprile 2023