Stato, mafia, capitalismo. Verità parziali e menzogne totali
Vi segnaliamo questa ampia e preziosa intervista a due compagni siciliani trasmessa da Radio Onda Rossa. Uno dei grandi meriti dello sciopero della fame intrapreso da Alfredo Cospito – e della calorosa, attiva solidarietà ch’esso ha raccolto e raccoglie – è quello di aver infranto la «zona rossa» dell’Antimafia, che è allo stesso un cordone ideologico-mediatico posto a difesa di istituzioni come il 41 bis e un apparato materiale di repressione contro ogni insorgenza.
Stato e mafia sono la stessa cosa? Non esattamente. Sono forze antitetiche? Tutt’altro. Forse la definizione più precisa del loro rapporto storico-sociale l’aveva data tanti anni fa Riccardo d’Este: un rapporto di «simbiosi mutualistica». Per cogliere appieno il quale è necessario un punto di vista di classe e da Sud.
Se la mafia nasce come truppa di mazzieri al soldo dei latifondisti contro le lotte di contadini e braccianti, essa diventa una struttura di potere dotata di relativa autonomia grazie al proibizionismo statale (cioè all’ipervalorizzazione capitalistica delle merci proibite). La sua successiva presa sociale, farà del fenomeno mafioso un utile strumento sia in senso classista (vedi la strage di Portella della Ginestra), sia in senso politico (vedi i rapporti costanti con la CIA e con il neofascismo italiano). La categoria statale del «mafioso» non solo cancella questa storia di collaborazione tra poteri, ma permette di streghizzare l’intero proletariato del Sud, la cui criminalizzazione è l’altra faccia del processo di assoggettamento coloniale delle plebi meridionali in nome della lotta al brigantaggio. In tal senso, più ancora dell’art. 90 usato negli anni Settanta-Ottanta contro i rivoluzionari imprigionati, il precedente storico dell’attuale 41 bis è la Legge Pica del 1863, «mezzo eccezionale e temporaneo di difesa dello Stato» (quando si dice formula vincente non si cambia…) grazie al quale si sono sovrapposti il reato di «brigantaggio» e quello di «camorrismo»: «Le pene comminabili andavano dalla fucilazione, ai lavori forzati a vita, alla carcerazione, con attenuanti per chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia. La legge dettò disposizioni in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse da “organizzazioni criminali” e prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzò il XX secolo». L’Antimafia nasce, insomma, come strumento di pacificazione coloniale il cui scopo non è mai stato rimuovere il «crimine organizzato» (cosa impossibile dentro il capitalismo), bensì assoggettare i proletari recalcitranti allo sfruttamento e allo Stato.
Buon ascolto.
http://www.ondarossa.info/redazionali/2023/01/lettura-critica-mafia-e-antimafia-stato