Regalo di Natale

«Perché colpire la centrale Sarelli proprio la notte di Natale? Non solo per ragioni di sicurezza. Voleva essere una dimostrazione di solidarietà con Gesù, il cospiratore, il nomade, il rivoluzionario, il ribelle, il combattente partigiano, il quale nel Discorso della Montagna diceva chiaramente: “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati! Beati voi che ora piangete, perché riderete… Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione! Guai a voi, che ora siete sazi, perché patirete la fame! Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e nel pianto!”. La nostra è stata una manifestazione di rabbia per la negazione di un Gesù dell’amore, della forza, dei poveri da parte di una religione che da duemila anni è arroganza di classe e di razza, pretesto per genocidi e conquiste; che si sentì obbligata a creare un’immagine di Gesù servile, asceta, trascendente, oppio dei popoli. Le orge natalizie, il consumismo, la falsità in suo nome, senz’altro gli darebbero il vomito, vomito e rabbia! Ma torniamo all’essenziale: il tentativo di distruggere il traliccio della centrale Sarelli è da intendere come protesta contro la distruzione dell’ambiente naturale nei Grigioni, contro la colonizzazione di questa regione da parte della NOK, con l’ausilio dei suoi reggicoda ben inseriti nelle amministrazioni locali. È però principalmente da intendere come attacco a un’impresa che è partecipe del monopolio energetico. Questa mafia è responsabile della costruzione delle centrali nucleari, vuole instaurare lo Stato atomico, vuole l’elettrificazione completa, e quindi la ricattabilità totale della società. Ciò non significa solo minacciare intere regioni e popoli ma, in quanto elettrificazione della società, significa anche spostare in misura significativa il rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto a favore di quest’ultimo tramite l’automazione».
Queste alcune delle frasi pronunciate, il 26 gennaio 1981, da Marco Camenisch di fronte al tribunale svizzero di Coira.
Se dovessi scegliere un cesto di parole da affidare al mare degli sconosciuti del futuro, queste vi entrerebbero senz’altro, a formare una sorta di Rapporto sulla resistenza eco-sociale degli ultimi decenni, sulle sue ragioni e sui suoi moventi etici. Sarebbero parole rappresentative? Non credo. E difficilmente troverebbero posto in un qualche centone di «letteratura rivoluzionaria», trattandosi di dichiarazioni fatte in tribunale (benché in pochi altri luoghi la lingua assuma un peso maggiore, tanto da contribuire a decidere della prigionia o della libertà). A renderle straordinarie è altro. Alla fine degli anni Settanta, non mancavano le analisi sulla nuclearizzazione della società e sull’automazione (più rare quelle contro il sistema stesso dell’elettrificazione di massa), né la gioventù ribelle pronta a verificarne il modo d’uso attraverso il sabotaggio. Ma in quanti altri testi sovversivi – saggi, articoli o comunicati di rivendicazione – si può incontrare «Gesù, il cospiratore, il nomade, il rivoluzionario, il ribelle, il combattente partigiano»? Quanti, con la parola o con l’azione, hanno inteso manifestare la propria «rabbia per la negazione di un Gesù dell’amore, della forza, dei poveri da parte di una religione che da duemila anni è arroganza di classe e di razza, pretesto per genocidi e conquiste»? Non è il centro della questione («ma torniamo all’essenziale…»), eppure quel Gesù che vomita contro «le orge natalizie, il consumismo, la falsità in suo nome» non merita di essere conservato e tramandato, insieme alla resistenza materiale e spirituale di questi decenni contro i padroni della Terra? E chi poteva evocarlo se non un amico dei nomadi e delle montagne, un pastore fuggiasco dall’agrochimica, un capellone che si è presentato davanti ai giudici con una stella rossa dipinta sul viso?
Ho sempre trovato inutili e noiosi gli opuscoli razionalistici sull’inesistenza storica di Cristo; e profondamente umana la posizione controcorrente di Malatesta, secondo il quale privare dell’oppio religioso chi soffre, senza rischiare in prima persona per rimuovere le cause storico-sociali di quella sofferenza, ha un che di crudele. Il mito di un Cristo egualitario e partigiano ha dato le ali a Margherita e Dolcino, alle «empie e scellerate bande dei contadini» (Lutero), agli Anabattisti, ai Fratelli e alle Sorelle del Libero Spirito, ai Molly Maguires, ai Giurisdavidici del Monte Amiata… Ma di quel comunismo dei sensi e dello spirito si son da tempo perse le tracce.
Da ateo e materialista (in senso leopardiano), ho continuato in tutti questi anni a pensare a quel Gesù cospiratore, per raccogliere l’amore – e trattenere il vomito – del quale un pastore e uno zingaro (René Moser) hanno dinamitato un traliccio dell’alta tensione nel canton Grigioni, la notte di Natale del 1979.
Altro che piccoli Lord o piccole fiammiferaie. Questa sì che è una bella fiaba per bimbi e fanciulli d’ogni età. Latrice di un messaggio edificante come pochi altri: l’evasione di sei prigionieri, tra cui lo stesso Marco, dal carcere di massima sicurezza di Regensdorf, il 17 dicembre 1981.
Un’intenditrice come Cristina Campo ha definito in modo magistrale la virtù necessaria all’«eroe di fiaba» per trovare il passaggio segreto in mezzo al bosco sconosciuto o nel giardino tante volte esplorato: «l’incredulità verso l’onnipotenza del visibile». Un’incredulità fatta di attenzione della mente e di scioltezza del cuore, dal momento che «con un cuore legato non si entra nell’impossibile». Attenzione e scioltezza necessarie, forse, anche per scorgere il passaggio a nord-ovest che conduce verso la libertà.