Cemento. Arma di costruzione di massa
Riprendiamo dal numero 27 (dicembre 2022) di “Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio” questa interessante intervista. L’oggetto specifico è il cemento, ma il tema generale non potrebbe essere più landaueriano (e morrisiano): l’affinità tra conservazione del passato e rigenerazione utopica, contro quel «putsch permanente» che è l’innovazione tecno-industriale. Buona lettura.
Cemento. Arma di costruzione di massa
Intervista di A. Soto a Anselm Jappe
Ansel Jappe (Bonn, 1962), filosofo, si è laureato a Roma con Mario Perniola per poi conseguire un dottorato presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Già membro del gruppo Krisis e autore di alcuni importanti saggi sul pensiero di Guy Debord, è anche noto per essere uno dei teorici appartenenti alla corrente della Wertkritik, la «critica del valore», un tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx alla luce degli sviluppi più recenti della società capitalista. Attualmente insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha pubblicato numerosi saggi tra cui, tradotti in italiano, Guy Debord (manifestolibri, 2013), Contro il denaro (Mimesis, 2013), Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione (Mimesis, 2014), Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore (Aracne, 2019) e Cemento. Arma di costruzione di massa (elèuthera, 2022)
Da dove viene il tuo interesse per questo particolare oggetto di studio, il cemento armato?
Già nella prima adolescenza ho detestato il capitalismo e le condizioni di vita che esso ci infligge, ritrovandomi rapidamente nella contestazione libertaria dell’esistente. In quell’epoca si parlava spesso di “progresso” e di “progressisti”; essere “progressisti” era praticamente un sinonimo di “sinistra” e veniva opposto a essere “conservatori” o “reazionari”. Il progresso tecnologico e il progresso sociale erano considerati strettamente correlati. Ho fatto parte della prima generazione che aveva cominciato a dubitarne, durante gli anni Settanta: inizi di una coscienza ecologica e poi di un movimento ecologista, contestazione del nucleare, lotta contro la costruzione di autostrade in piena città e generalmente contro l’onnipresenza dell’automobile, rifiuto della “società dei consumi”.
Sul piano teorico, fui abbastanza segnato dalla lettura di Ivan Illich, che si affiancava alla mia formazione essenzialmente marxista. Allo stesso tempo provavo un’avversione spontanea, epidermica, per l’architettura contemporanea, e una grande attrazione per le architetture tradizionali, soprattutto nel Mediterraneo. In seguito ho sempre più approfondito questa doppia critica: quella del capitalismo e quella della società industriale. Purtroppo, fino a oggi questi due approcci rimangono spesso distanti. Per me, non basta combattere la distribuzione dei frutti del capitalismo (“lotta di classe” o semplicemente salariale), bisogna anche combattere i contenuti stessi del capitalismo, il tipo di vita che ha creato.
La figura dell’“esperto” viene oggi molto sopravvalutata (la sua critica costituiva un altro grande contributo di Illich) e io stesso non mi sono voluto far rinchiudere in una specializzazione eccessiva. Oltre i miei studi su Marx, sui marxismi e sui situazionisti, e il mio impegno nella “critica del valore”, ho pure riflettuto sull’architettura e sulla sua decadenza: l’azione congiunta del capitalismo e della società industriale spiega perché in tutto il Novecento sono stati costruiti ben pochi edifici che meriteranno di sopravvivere.
Il cemento gioca evidentemente un ruolo centrale in questo «carattere inospitale delle nostre città», come l’ha chiamato lo psicanalista tedesco Alexander Mitscherlich già negli anni Sessanta. Dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova, che era un’evidente conseguenza della fiducia insensata nel cemento che prevaleva all’epoca della sua costruzione, ho deciso di approfondire le mie osservazioni che avevo accumulato nel corso del tempo. Poi ho fatto alcune altre letture importanti, in primis i libri di Bernard Rudofsky. Dunque, il mio libro non è l’opera di un architetto o di un ingegnere, ma uno sviluppo della critica sociale.
Alla luce della tua ricerca, come inseriresti il tema del cemento armato nel dibattito in corso tra chi utilizza il termine “antropocene” per definire l’epoca attuale e chi invece preferisce il termine “capitalocene”? Cioè tra chi considera responsabile del disastro attuale l’essere umano in quanto tale e chi invece addossa le colpe al sistema di produzione capitalista.
È già stato proposto di introdurre il termine di “cementocene”: lo strato geologico che corrisponde al XX-XXI secolo sarà riconoscibile dalla concentrazione di cemento, che è il materiale più utilizzato sulla terra. La Cina ha colato in tre anni più cemento che gli Stati Uniti in tutto il Novecento! Il cementocene potrebbe allora costituire una sottodivisione del capitalocene. Questo termine è effettivamente appropriato per indicare gli enormi sconvolgimenti che ha comportato lo sfruttamento capitalistico della natura.
Parlare di antropocene significa invece creare una notte dove tutte le vacche sono nere: una vera “chiamata di correità” come si dice in giurisprudenza. Il problema non sarebbe allora un certo tipo di società, ma l’essere umano in quanto tale, sempre e comunque. Certo, l’uomo, nella sua storia, ha cominciato presto ad alterare gli equilibri naturali; forse ha contribuito alla sparizione dei mammuth con la caccia eccessiva; probabilmente ha creato le steppe del Medio Oriente con la deforestazione nel neolitico; sicuramente ha causato un disastro climatico con il disboscamento del Brasile dopo la sua colonizzazione. Ma questi danni erano limitati e gli equilibri potevano ristabilirsi, almeno in parte. È il capitalismo che ha introdotto una frattura decisiva nel consumo delle risorse e nell’inquinamento: non l’ha fatto per migliorare la vita degli abitanti della terra, ma perché è spinto dalla cieca logica dell’accumulazione del valore e del capitale. L’unico scopo è la moltiplicazione del denaro; i valori d’uso, e dunque il sostrato materiale delle cose, sono un semplice “portatore” di quella sostanza astratta, invisibile, che è il valore creato dal lavoro vivo.
A me pare che il cemento armato abbia svolto storicamente una funzione positiva. Oggi, mutato il paradigma del rapporto tra uomo e ambiente, rivela appieno la sua negatività contribuendo alla rapida e progressiva usura del mondo. Condividi questo ragionamento?
Un tale ragionamento fa parte dell’idea, dura a morire, secondo cui il capitalismo abbia svolto una “missione civilizzatrice” che è stata positiva all’inizio e che ha perso la sua funzione solo in seguito. Questo ragionamento costituiva, e costituisce tuttora, uno dei pilastri del marxismo tradizionale. Le invenzioni tecnologiche farebbero dunque avanzare l’umanità e bisogna sopportarne le conseguenze negative in quanto “prezzo del progresso”. Solo al di là di una certa soglia il suo effetto diventerebbe controproduttivo e non si giustificherebbe più. Penso che bisogna radicalmente mettere in dubbio questa visione e riconoscere che si trattava di un errore colossale quando le forze “progressiste” volevano continuare e accelerare la società industriale, cambiandone solo la distribuzione dei risultati. Lenin e Gramsci facevano perfino l’elogio del taylorismo, cioè della riduzione dell’operaio a macchina tra le macchine. È allora molto più interessante oggi studiare autori come Gustav Landauer e Simone Weil.
Per quanto riguarda il cemento armato, i suoi difetti erano presenti fin dall’inizio, cioè dalla fine dell’Ottocento, e venivano denunciati da alcuni spiriti chiaroveggenti – cito qualche esempio nel mio libro. Si afferma spesso che il cemento era indispensabile per dare “un tetto a tutti” nel dopoguerra. Ma questa presunta necessità era soprattutto il risultato dell’esodo rurale, che costituiva in quanto tale un evento catastrofico che si sarebbe dovuto evitare (per esempio, nell’Italia meridionale con una vera ridistribuzione delle terre). E sarebbe in ogni caso meglio, dal punto di vista della gestione delle risorse, costruire belle case solide di pietra che casermoni di cemento. Ma questo sarà possibile solo in un contesto sociale che sa pensare a lungo termine, che non è certo quello del capitalismo e della sua ricerca del profitto rapido. Basta confrontare un antico paese della Puglia con la periferia di Milano per vedere dove sta la civiltà e dove sta la barbarie, e dunque il regresso.
Durante migliaia di anni, l’umanità ha dispiegato un’enorme inventività per trovare soluzioni abitative adatte a ogni contesto e a ogni clima, utilizzando materiali locali e impiegando il saper-fare di artigiani – che non sono né architetti diplomati né semplici dilettanti. Non c’era bisogno né di cemento né di aria condizionata, e nemmeno di architetti. Dunque, oggi non si tratta di inventare nuove architetture, o nuovi materiali, ma di riscoprire i modi tradizionali, eventualmente integrandovi certe innovazioni tecniche. Se queste soluzioni già esistenti sono state abbandonate, non era perché sarebbero inadeguate, ma perché non permettevano abbastanza profitti e non servivano la macchina capitalista – soprattutto il suo bisogno di obsolescenza programmata e di rapidi cicli di costruzione e distruzione.
Certo, il problema non consiste nel cemento in sé, semplice miscuglio di sabbia, calcare e argilla, e che in quanto tale è meno nocivo della plastica o del petrolio, per citare altri due materiali fondamentali della modernità. Quello che è nocivo è il suo uso massiccio che soffoca il suolo, esaurisce le riserve di sabbia, crea problemi di smaltimento e genera molta CO2. La sua facilità di impiego ha comportato l’abbandono delle architetture tradizionali, che erano molto più adeguate ai contesti diversi, e ha impoverito il mondo rendendolo monotono. Ma il suo uso più grande avviene in costruzioni come le dighe o le centrali nucleari, che rappresentano ugualmente dei disastri per l’ambiente.
Tu interpreti il cemento armato come concretizzarsi dell’alienazione. Ci spieghi questa tesi?
Si tratta allo stesso tempo di un gioco di parole e di un discorso che punta al cuore del problema. Marx ha introdotto il concetto di «lavoro astratto», o, per essere più precisi, di «lato astratto del lavoro»: nel capitalismo, quello che conta in un lavoro è solo il dispendio di energia umana, misurato attraverso il tempo. Questo è sempre identico, è una pura quantità senza distinzioni qualitative. Che cosa si produce in questa unità di tempo – cioè il «valore d’uso» – è secondario. In effetti, è la pura quantità di lavoro, ridotto al semplice dispendio di «muscoli, nervi e cervello», come dice Marx, che si traduce, in ultima analisi, nel valore di una merce e finalmente in una quantità di denaro. La dominazione del lato astratto del lavoro sul suo lato concreto esiste solo nel capitalismo: lo scopo della produzione è allora l’accumulazione di capitale, e non la soddisfazione dei bisogni.
Da un punto di vista “economico”, la produzione di bombe può convenire più della produzione di grano, e costruire grattacieli in cemento che saranno smantellati dopo qualche decennio può convenire rispetto a edificare case in pietra che potrebbero durare un’eternità. Marx stesso afferma che questa massa indistinta di lavori di cui conta solo il tempo forma una «gelatina». Si può allora associare questa “gelatina” al cemento: una massa sempre uguale, senza distinzioni qualitative. Il cemento sarebbe dunque il “lato concreto”, la “concretizzazione” del lavoro astratto. Lo stesso discorso si può fare per la plastica. Certo, si tratta di una metafora, ma essa trae una forza supplementare dal fatto che cemento si dice in inglese proprio concrete!
Nel testo consideri Notizie da nessun luogo di William Morris un esempio positivo di una urbanistica e di una società a misura d’uomo. Maria Luisa Berneri in Viaggio attraverso utopia, che le Edizioni Malamente hanno recentemente rieditato, a sua volta la considera come un’utopia libertaria. Cosa ti affascina di questa opera di Morris?
Il libro di Maria Luisa Berneri, troppo poco diffuso, è in effetti uno dei pochi che mostra che le “utopie” più conosciute – quelle di Platone, Moro, Campanella – sono piuttosto delle prefigurazioni del totalitarismo moderno. Essa presenta invece le Notizie da nessun luogo di William Morris (1890) come una delle poche utopie basate sulla libertà. Morris esprime un’articolata condanna di tutti gli aspetti della vita nel capitalismo, e mentre la sua critica si basa in parte sulle teorie di Marx, essa va anche più lontano per certi versi. Prevede nel suo romanzo di anticipazione – ambientato negli anni in cui viviamo adesso! – l’abolizione del mercato e dello Stato, del denaro e del colonialismo, delle disuguaglianze sociali e delle gerarchie, e una società basata sull’agricoltura e sull’artigianato esercitati collettivamente. Ma egli preconizza anche – ben diversamente da gran parte del movimento operaio – una società di bellezza e di restaurazione della natura (Morris è uno dei primi a notare l’inquinamento), di amorevole attenzione alle costruzioni e alle decorazioni e di ricerca della qualità in tutti gli oggetti della vita quotidiana.
Morris, diversamente da quanto talvolta si afferma, non era contrario a ogni uso delle macchine, ma le voleva limitare ai lavori più ingrati. La sua opera costituisce il punto più alto della convergenza tra critica al capitalismo e critica alla società industriale – e senza gli accenni reazionari che spesso distinguono la critica del progresso, per esempio nel suo maestro John Ruskin. Egli si oppone nettamente a ogni dominazione degli uomini sugli uomini, a ogni sfruttamento, e non fa ricorso alla religione. Ma esprime anche l’orrore della fabbrica e della produzione in serie, delle città troppo grandi e delle abitazioni scadenti, della paccottiglia imposta al popolo e dell’inutile arte sfarzosa per una presunta élite. I marxisti l’hanno altezzosamente classificato tra i sognatori “romantici”, incapaci di capire il progresso, mentre la borghesia inglese si è entusiasmata per la sua produzione artistica – l’Arts and crafts – passando sotto silenzio la sua attività politica. Eppure Morris potrebbe essere oggi una delle fonti principali di ispirazione per un movimento che voglia davvero superare il capitalismo.
(Qui il pdf dell’intervista da scaricare)