L’aeroporto

«Bisogna che quel vergognoso seguito di giorni in cui niente è accaduto e tutto è stato perduto pesi su tutti noi come ha pesato su di loro [i proletari tedeschi]: spezzando l’ottimismo delle parole d’ordine, la vanità di chi nulla intende rivedere e ripensare, gl’interessi che stanno dietro la volontà d’impedire la discussione facendo come se nulla fosse, lo scarso coraggio di coloro i quali per battersi han bisogno di avere a portata di mano un futuro tinto di rosa. Bisogna, infine, che questa verità pesi pienamente su quanti sono capaci di accettare il grave compito di imparare, rafforzarsi, ricominciare. Perché adesso, sostanzialmente, si tratta di ricominciare da capo».
Con queste parole si conclude 1933: la tragedia del proletariato tedesco, scritto in presa diretta e pubblicato nel 1934 da Hippolyte Etchebéhère. Le cronache-riflessioni del trentatreenne rivoluzionario argentino sono, insieme a La Germania in attesa. Impressioni di agosto e settembre 1932 della ventitreenne Simone Weil, quanto di più lucido sia stato scritto sull’ascesa di Hitler al potere. Il pregio dell’analisi di Etchebéhère è che essa non si forma – come gli sterminati studi storici su quel periodoa conti fatti, ma mentre la tragedia si sta consumando, giorno dopo giorno. E certo non si trattava, per il suo autore, di registrare determinati accadimenti con l’occhio mestierante del giornalista, bensì di cogliere da rivoluzionario compartecipe le ragioni profonde per cui «niente è accaduto e tutto è stato perduto». Predisporsi a un simile sguardo ha significato, per Etchebéhère, liberarsi in fretta di una pesante zavorra: la retorica rivoluzionaria. Egli aveva lasciato l’Argentina alla volta di Berlino, dove arriva insieme con la compagna Mika nel novembre del 1932, convinto di poter partecipare in prima persona a un movimento rivoluzionario che avrebbe risollevato, insieme a quelle del proletariato tedesco, le sorti degli sfruttati a livello internazionale. Una convinzione maturata leggendo gli articoli della stampa comunista – anche quelli di matrice trotzkista – provenienti dalla Germania. Giunto a Berlino, invece, trova il proletariato «più organizzato d’Europa» incapace sia di rispondere alla violenza delle bande naziste sia di contrastarne efficacemente la propaganda (Simone Weil racconta, più o meno nello stesso periodo, di aver udito in alcuni comizi operai gli oratori comunisti affermare che i dirigenti del loro partito non erano affatto ebrei…). Avendo trovato il coraggio di guardare in faccia le cose perché «bisognava dire la verità», l’intuizione che Etchebéhère riesce a trasmettere al lettore è davvero controcorrente: i proletari tedeschi si stanno lasciando bastonare non malgrado l’efficienza organizzativa sia della socialdemocrazia sia del Partito comunista d’osservanza moscovita, ma a causa di queste macchine organizzatrici. Essi sono troppo organizzati dentro istituzioni compatibili con il capitalismo e con lo Stato per scendere sul terreno extralegale dell’autodifesa e della violenza di strada, nel momento in cui il nemico cambia di passo. La lezione mi sembra decisiva: il punto non è quanto si è organizzati, ma su quale terreno.
Veniamo all’oggi. Dopo aver sfruttato fino all’osso la funzione di controllori e pacieri assicurata dai sindacati e dalla politica parlamentare dei partiti di sinistra, funzione di cui il perenne rinvio e le chiacchiere fino allo sfinimento figurano tra gl’irrinunciabili ferri del mestiere, Stato e padroni stanno ormai puntando decisamente sulla controrivoluzione predittiva permessa (e promessa) dall’apparato tecnologico. Programma senz’altro efficace finché l’ordine regna e nulla accade: in caso di rivolta, tuttavia, il dominio rischia di trovarsi privo di organi intermedi di controllo. Questa «dialettica dell’organizzazione» si rovescia sull’attuale inerzia di vasti settori proletari di fronte agli attacchi brutali alle loro condizioni di vita e di lavoro. Non essendo organizzati da propri organi sociali (nel frattempo autonomizzatisi secondo la logica propria dell’organizzazione), si vedono sottrarre le conquiste ottenute nei cicli di lotta del passato. Allo stesso tempo, se passano all’azione contro il mondo che li organizza nella passività, trovano di fronte a sé direttamente lo Stato, che nel frattempo non ha «né dormito né giuocato». L’apparato giudiziario-poliziesco, infatti, si è allargato e affinato nella misura in cui l’asticella del conflitto sociale si è abbassata. Quello della polizia, intendendo con ciò l’insieme degli organi repressivi dello Stato, è stato l’unico sindacalismo davvero efficiente degli ultimi quarant’anni, in grado di potenziare gli strumenti tecnologici del settore e di riqualificarne gli addetti, senza che venisse operato alcun taglio al personale. Quasi fosse un aeroporto in costante crescita nonostante la diminuzione del numero dei suoi passeggeri, che un tempo si contavano a decine di migliaia e ora faticano a riempire un pullman. Benché l’assai estesa insorgenza sociale (e armata) degli anni Settanta si sia ridotta alle sparute minoranze rivoluzionarie di oggi, l’apparato giudiziario-repressivo non ha conosciuto licenziamenti. Sono crollati partiti, sindacati, prime e seconde Repubbliche, ma l’industria dell’Emergenza permanente ha garantito tutti i suoi posti di lavoro, e anche quelli dell’indotto. Ci fossero anche solo dieci passeggeri, l’aeroporto è sempre rimasto aperto! Non solo, ha proiettato sul paesaggio circostante i propri fanali oscuri, accesi giorno e notte allo scopo di imporre in tutta la sua materialità la sola ideologia che gli importi – quella che fa perno sull’ineluttabile – dentro cui ha cercato di fondere l’energia dei vivi che ha catturato nella storia.
A ciò che pretende d’essere ineluttabile non si resiste né con l’ottimismo delle parole d’ordine, né con i richiami a un futuro tinto di rosa, né con l’accumulazione progressiva delle forze, bensì facendo pesare pienamente sulle proprie vite certe verità. «Bisogna prendere atto che non può esserci alcun interesse comune tra sfruttati e sfruttatori. In questo caso, non c’è nulla da tentare per rimediare alla crisi, azione che potrebbe realizzarsi solo con il consenso e sotto il controllo della classe dirigente. C’è solo da organizzare immediatamente la lotta» (Simone Weil). Cioè da disorganizzare questo
vergognoso seguito di giorni.