In Nazismo e management. Liberi di obbedire, uscito nel 2020 in Francia e pubblicato l’anno scorso da Einaudi, Johann Chapoutot descrive, attraverso la figura di Reinhard Höhn, il rapporto mutualistico tra concezione nazista del Diritto, ruolo della scienza e direzione industriale in Germania dagli anni Trenta alla fine degli anni Novanta. Si tratta di una ricostruzione utile per capire non pochi aspetti del nostro presente. Vediamone i tratti salienti.

Führerprinzip, tecnocrazia e meritocrazia. Uno dei motori più potenti del Terzo Reich, secondo Chapoutot, è stato il «darwinismo amministrativo», cioè la competizione costante tra i gerarchi nazisti nella creazione di istituti, agenzie, commissioni ecc. incaricati di risolvere gli stessi problemi, ma spinti a primeggiare nella carriera attraverso l’interpretazione più radicale possibile delle parole del Führer (le quali, come noto, avevano valore immediato di legge). Dentro quel «darwinismo» tecno-burocratico si collocano stato di emergenza permanente, ordinanze e decreti, potere discrezionale della polizia (un imputato rimesso in libertà poteva essere rinchiuso in un campo di concentramento).

«Lentezza» dello Stato e ruolo «rivoluzionario» della medicina. Reinhard Höhn, giurista di diritto pubblico, critica la concezione di Carl Schmitt (principale teorico del Führerprinzip dentro il quadro giuridico costituzionale), in quanto obsoleta rispetto a un’epoca in cui il «movimento comunitario» prende possesso dello Stato e affida i propri destini a due fattori: la «fine della lotta di classe» (festeggiata trionfalmente il 1° maggio del 1933) e il razzismo eugenetico, grazie al quale trasformare i tedeschi in «compagni di razza». Per purificare (e proteggere) un’intera «biomassa» attraverso la selezione del miglior «materiale umano» (Menschenmaterial), lo Stato conta sulla collaborazione entusiastica di migliaia di medici. Un lavoro solerte: tra il 1933 e il 1945, 400 mila sterilizzazioni forzate; tra il 1939 e il 1945, 200 mila «eliminazioni» nel quadro del programma T4. «Non si governa più […], si dirige», scrive Reinhard Höhn. E a dirigere (führt) non possono essere le istituzioni con il loro Diritto, sempre troppo lente rispetto alla «scienza del popolo», bensì il Direttore (Führer), espressione diretta delle leggi della Storia.

Menschenführung e Confindustria tedesca. Reinhard Höhn, «una sorta di Josef Mengele del diritto», fu dapprima professore all’università di Berlino, in seguito colonnello (Standartenführer) e infine generale (Oberfürhrer). Cambiato il proprio nome tra il 1945 e il 1950, e poi pagati 12 mila marchi («circa 30 mila euro attuali») per le idee diffuse durante il nazismo, lo troviamo nel 1953 alla direzione della Società tedesca di economia politica, un istituto ispirato alla Harvard Business School, e dal 1956 a capo dell’Accademia per i quadri dell’industria. Circa 600 mila dirigenti industriali, tra il 1956 e il 2000 (anno in cui Höhn muore), saranno formati lì. Si tratti di ristrutturazione dell’esercito o di pianificazione industriale, il nazista insegna alla Germania democratica i due princìpi fondamentali della Menschenführung («direzione degli uomini», traduzione tedesca di management): centralizzazione degli scopi o «missioni»; libertà nella scelta degli strumenti per raggiungerli. In sintesi: libertà di obbedire, obbligo di riuscire.

Oggi la Menschenführung è affidata sempre di più all’Intelligenza delle Macchine e il Führerprinzip agli algoritmi, più rapidi ed efficienti dei capi nel dirigere la «biomassa» del «materiale umano». Qualche giorno fa, il neo-ministro della Giustizia ha dichiarato che presto gli algoritmi – come sta avvenendo in Estonia, in Cina e negli Stati Uniti – si occuperanno anche di emettere le sentenze di tribunale. (Grazie allo strumento della videoconferenza, in diversi processi si fa già a meno della presenza fisica dell’imputato; per chiudere il processo, si potrà in futuro fare a meno anche del giudice. Effettivamente, il nazista Schmitt è obsoleto).

Quanto all’industria, un mio vecchio amico d’infanzia, che lavora da anni in una fabbrica metalmeccanica multinazionale, mi raccontava proprio oggi di ritmi sempre più insostenibili fissati da algoritmi e fatti applicare da cronometristi selezionati tra i più carogna. Così ha concluso il suo racconto: «Mi sembra di essere tornato sotto la naja».

E allora il mio pensiero è corso a un compagno anarchico che per aver disertato la naja è finito in carcere militare, da cui è uscito dopo un lungo sciopero della fame. Non rifiutava le armi in quanto tali, ma il fatto di essere costretto ad usarle per conto dello Stato contro altri sfruttati. Infatti, anni dopo ha sparato nelle gambe di un Menschenführer di Ansaldo Nucleare, cioè di un manager che gli umani li vorrebbe dirigere (führt) verso un mondo di radiazioni e di potenziali catastrofi atomiche (grazie al solerte lavoro di fisici e di ingegneri).

Non essendo stati sufficienti, nel caso di questo compagno, né l’alienazione tecnologica della vita quotidiana, né la violenza di poliziotti e altri cronometristi, né l’allontanamento nelle sezioni carcerarie di alta sicurezza, ecco che ora l’incarico di seppellirlo vivo è affidato al cemento, al plexiglass, al divieto di comunicare con l’esterno e alla deprivazione sensoriale del 41 bis. Così ha cominciato uno sciopero della fame a oltranza. Caduti gli orpelli che coprono l’intima, infame solidarietà tra nazismo e management, tra esercito, fabbrica e carcere, lo scontro si riduce ai suoi termini essenziale: il corpo contro la Macchina.

Spetta a chi rifiuta la libertà di obbedire e il potere di comandare impedire che un funzionario possa ripetere, questa volta sulla pelle di Alfredo: «L’ordine è stato eseguito».