Giudizio universale senza pause (e senza appelli)

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Giudizio universale senza pause (e senza appelli)

Anche il Giudizio Universale ha le sue pause.

Christian Friedrich Hebbel, Diari (1835-1863)

L’appello di rado evita di cadere nel missionario; e v’è chi se ne turba. Certo, tutti sanno quanto siano rudi e per nulla pensosi di sé e degli altri gli edili e i villici; dubito, tuttavia, che se andremo ad avvertirli che la guerra atomica fa male, quelli si metteranno a scuotere le teste dialettali, chiosando: «Be’, se lo dicono quelli, qualcosa di vero ci deve essere». […] Certo, a firmare o compilare codesti documenti «si ha ragione»; ma non v’è una qualità corruttrice, qualcosa di stranamente degradante nell’«aver ragione», quasi quanto nel vincere una guerra?

Giorgio Manganelli, «Alcune ragioni per non firmare gli appelli»,

in Lunario dell’orfano sannita, 1973

«Mai mettere in gioco la propria sorte se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità». Il vecchio adagio non vale solo per i poveri e per i rivoluzionari, ma anche per gli Stati, i capitalisti e i tecnocrati. Quando i dadi sono tratti, e oggi lo sono, si possono pagare care tanto le avventure della potenza quanto la titubanza delle mezze misure. Le prime possono diventare la classica fine nell’abisso, le seconde l’altrettanto classico abisso senza fine.

La mossa da parte della Federazione russa di annettere i territori di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporož’e alza drammaticamente la posta in gioco, rendendo, come noto, eventuali attacchi dell’esercito ucraino oltre i nuovi confini una «minaccia esistenziale» per lo Stato russo, minaccia che consentirebbe l’uso di ogni mezzo, comprese le armi atomiche “tattiche”. La concomitante «mobilitazione parziale» di trecentomila riservisti è stata accompagnata da due fenomeni interni opposti: da un lato, il riaccendersi delle proteste (e delle azioni dirette contro i centri di reclutamento) nonché la fuga di migliaia di giovani dal Paese; dall’altro, gli inviti dei settori più bellicisti a schiacciare le forze ucraine una volta per tutte. La volontà dichiarata, da parte del governo di Kiev, di riconquistare tutti i territori persi dal 2014 in poi, Crimea compresa, presuppone una partecipazione ancora più diretta della NATO. L’obiettivo di sconfiggere l’esercito russo implica, a maggior ragione, una guerra mondiale sempre meno regionalizzata e sempre più potenzialmente nucleare. In maniera ancora più esplicita, l’ultimo decreto di Zelensky vieta ogni trattativa con la Russia finché Putin sarà al potere (nel doppio azzardo che quest’ultimo possa essere sostituito senza scosse mondiali, e che il suo successore sarebbe meno guerrafondaio…). Nella pur creativa storia della decretazione d’urgenza, è probabilmente la prima volta che si proibiscono per legge dei negoziati di pace. Se sono vere le notizie – confermate da più parti – che davano il presidente ucraino disponibile, il 19 febbraio scorso, a riconoscere la Crimea e a mantenersi neutrale rispetto alla NATO, quest’ultimo decreto conferma che le forze “banderiste” controllano definitivamente il governo di Kiev, diventato ormai avamposto della guerra degli USA contro la Russia. Galvanizzato dai recenti successi militari e dall’arrivo di armi occidentali sempre più potenti, il blocco sociale che si è creato tra gruppi neonazisti, una parte della popolazione e gli apparati dello Stato ucraino può accusare – ora persino in senso giuridico – ogni appello a un cessate il fuoco di tradimento. Dentro questa spirale, azioni deliberate e «incidenti di percorso» – compreso quel piccolo dettaglio che è una deflagrazione atomica – potrebbero improvvisamente intrecciarsi. Imboccata una certa strada, non si va dove si vuole andare, ma dove porta la strada.

Sono ormai i circuiti stessi del capitale totale a muovere verso la guerra. Il capitalismo statunitense – quell’egemonia del dollaro che si regge sul potere combinato di Tesoro, Federal Reserve e Pentagono – può rallentare il proprio declino solo andando ai resti. Il che non significa soltanto strangolare la potenza militare russa (e, in prospettiva, quella economico-tecnologica cinese), ma scaricare i costi economici (e i rischi nucleari) sull’Europa. Gli attacchi ai gasdotti Nord Stream I e II rappresentano, in tal senso, un indubbio, inedito e preoccupante salto di qualità. Un atto di guerra rivolto – e come tale percepito, al di là delle dichiarazioni ufficiali di Scholz e soci – soprattutto contro il capitalismo tedesco, il principale concorrente manufatturiero e tecno-industriale degli USA in Europa. La stessa crisi energetica, a differenza dell’Emergenza da Covid-19, non è affatto mondiale, ma quasi interamente europea. Per Cina e India, ad esempio, i prezzi di gas e petrolio sono diminuiti; mentre gli industriali italiani pagano l’elettricità quasi dieci volte di più dei loro omologhi nordamericani. Quella Atlantica si dice «Alleanza», ma la guerra contro la Russia nasconde uno scontro sempre più aperto nello stesso «campo occidentale». Analogamente, quella Europea si dice «Unione», ma i rispettivi capitalismi – basti pensare al giubilo di quel politico polacco dopo l’attacco ai Nord Stream, o ai benefici che ne ricavano le società finanziarie norvegesi, svedesi, olandesi… – giocano su più tavoli contemporaneamente e sono tutti intenti a barare nel modo più sfacciato. Finché il governo tedesco – retto oggi dalla coppia con l’elmetto socialdemocratici-Verdi – aumentava le proprie spese militari di 100 miliardi di euro, gli «alleati» europei non avevano niente da obiettare. Ora ch’esso decide di stanziarne 200 per salvare le proprie imprese – negli stessi giorni in cui la mozione dei Cristiano-democratici sui nuovi invii di armi in Ucraina viene sconfitta a larga maggioranza… – è tutto uno strillare: «Ma come, avete imposto la scure sociale del “pareggio di bilancio” a mezza Europa, e adesso fate i “socialisti di mercato”?». Un bel ritorno di realtà anche per tutti quegli strani economisti che spiegano le tendenze del capitale a partire dalle «dottrine economiche» e non il contrario.

Ora, far quadrare certi cerchi appare impresa degna dei grandi sofisti greci («che il discorso falso fanno sembrare vero»). Non siamo tra coloro che pensano che un giornale come «Repubblica» sia semplicemente carta da culo. In realtà, a un prezzo tutto sommato modico, grazie a quelle pagine possiamo quotidianamente sapere sia cosa dice la CIA sia cosa dovrebbe pensarne l’«opinione pubblica» italiana. Se già non era male il sofisma di un esercito che bombarda una centrale nucleare da esso stesso controllata, la tesi di un autosabotaggio russo ai gasdotti nel Baltico avrebbe fatto impallidire Gorgia e le sue dimostrazioni per assurdo. In realtà, essendo «Repubblica» un terminale, i suoi impiegati devono talvolta interrogarsi pensosi su certe dichiarazioni della CIA, quando queste, come le parole dell’oracolo di Delfi, «non dicono né nascondono». Prendiamo l’articolo pubblicato di recente sul «New York Times», dal quale emerge che i servizi segreti statunitensi attribuiscono ad agenti ucraini l’omicidio di Darya Dugina, la figlia del «filosofo eurasiatista». Come interpretare la notizia?, si chiedono negli uffici di via Cristoforo Colombo. Excusatio non petita? Avvertimento al governo di Kiev di non tirare troppo la corda? Avevamo allora fatto male, nel commentare quell’omicidio, ad appoggiare la versione di Zelensky sulla matrice russa dell’attentato? Il punto rilevante è un altro. In un Paese in cui, a ottant’anni di distanza, non si sono ancora esaurite le «polemiche» sull’uccisione del filosofo-ministro fascista Giovanni Gentile da parte dei GAP fiorentini, i giornalisti liberali ci avevano suggerito per giorni che la signora russa la sua tragica fine se l’era in qualche modo cercata, stante il suo appoggio al regime putiniano. Se ci importasse qualcosa della sorte di questi scribacchini, suggeriremmo loro una maggior cautela: affermando a mezze parole che è lecito eliminare i giornalisti e gli intellettuali russi sostenitori della guerra, potrebbero cominciare a circolare strane idee anche in Occidente…

Ad ogni modo, l’atto di guerra contro il Nord Stream – che gli storici futuri, se ancora ce ne saranno, menzioneranno tra le date chiave del nostro presente – è uscito in fretta dalle gazzette, a favore di un nuovo fronte di mobiliazione psicologica. Siccome, nonostante la solerzia dei velinari di regime, le bollette alle stelle stanno creando qualcosa di inedito: e cioè un diffuso sentimento anti-americano tra i ceti medi impoveriti o prossimi alla bancarotta, costretti a essere contrari alla guerra, ecco i servi a libro paga cercare di dirottarlo in senso anti-tedesco…

Riassumiano: gli USA, dopo aver armato fino ai denti l’esercito ucraino e imposto agli «alleati» delle devastanti sanzioni contro la Russia, attaccano un’infrastruttura strategica per l’Europa dell’ovest; il capo dello Stato russo chiama alla «guerra patriottica» contro i satanisti occidentali; la premier inglese Liz Truss si dice pronta a premere il pulsante dell’atomica, e orgogliosa di farlo; il governo di Kiev vieta per legge ogni trattativa di pace. «Sembra che il conto delle “ore del Giudizio universale”, che segnano il tempo rimanente prima di un conflitto globale, stia già segnando i secondi». Queste parole, scritte di recente sulla «Komsomol’skaja Pravda», suonano esatte e terribili come certe pagine del Grande Inquisitore dostoevskijano.

Se decliniamo la metafora biblica nel materialismo della guerra sociale, l’imminenza del Giudizio universale dovrebbe pemettere a ciascuno di riconoscere i suoi. Per il momento, invece, dobbiamo amaramente constatare che il vero assente è il proletariato d’Europa. Gli appelli all’Umanità non servono granché: l’umanità non è un soggetto cosciente, bensì una condizione. Solo gruppi di sfruttati possono cominciare a mettere in gioco la propria sorte – senza aspettare che il nemico gliela segni per sempre. Uscendo dall’angolo, scopriranno di avere un vantaggio su tutte le altre forze sociali. A differenza di chi ha oggi il compito – non solo infame, ma anche decisamente ingrato – di governare la tempesta in arrivo tra i mille lacci del potere, per noi non esiste alcuna compatibilità a cui sottostare. Le cosiddette leggi dell’economia – e della Storia – valgono come i regolamenti penitenziari per i carcerati. Tutti li subiscono e pochi li leggono; qualcuno se ne serve contro gli abusi delle guardie; nessuno ci pensa più durante le rivolte.

Aumentano i prezzi, aumentano le bollette, la guerra – per la prima volta da decenni – s’abbatte direttamente sulle vite di chi ha sempre pensato ad altro. Le proteste sono destinate ad allargarsi, melmose e confuse come la società da cui sgorgano; i colpi della repressione saranno secchi, selezionati ma anche a maglie grosse.

Nessuno ci verrà a cercare perché ha letto i nostri opuscoli sul Giudizio universale.

Per non cadere nello sconforto e nella pigrazia etico-immaginativa, è forse utile cambiare impercettibilmente la nostra nozione di coraggio, portandola più vicina all’antica saggezza cinese che agli eroi della tragedia greca. Il protagonista del primo poema epico cinese non è né un ré né un dio, bensì… il vento. Un moto personale-impersonale ci porta in cima all’albero e fa cadere la scala: saltare diventa a quel punto più una necessità che un atto di coraggio. La virtù rivoluzionaria consiste nel vedere il salto già nel moto che lo prepara, e poi saltare senza aspettare un segno dei cieli.

Se, non potendo più vivere come prima, cominceremo noi a prendere le misure urgenti e necessarie invece di chiederle al governo o all’Europa o a chissà chi altro, tornerà nell’aria il bel motto d’un tempo: i padroni forse non possono pagare di più; possono però scomparire.