Una scintilla nella notte. Sulla rivoluzione in Iran (1978-1979)

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Giù il cappello per le donne iraniane che sfidano con estremo coraggio sia il riconoscimento facciale della polizia morale sia il piombo assassino della polizia in uniforme. Se il capitalismo è, ad ogni latitudine, un vasto sistema di corruzione protetto da valori menzogneri, il capitalismo della rendita (petrolifera in questo caso) porta la corruzione a livelli parossistici. Non volendo socializzare le entrate prodotte da quella rendita, esso punta a mantenere il consenso “socializzando”, per i maschi, il corpo delle donne in nome della virtù e della morale. L’hijab, in tal senso, è tanto un’oppressione sessualizzata quanto un velo sulla miseria generalizzata. Poi arriva la goccia: una ragazza uccisa dai poliziotti dei costumi morali. La rivolta femminile contro l’imposizione del velo diventa così (anche) l’occasione per un’ondata di sommosse contro la crescente miseria e contro il regime tout court, coinvolgendo nelle proteste e negli scontri migliaia di ragazzi, soprattutto dei quartieri poveri («pane, non velo!»). Le manifestazioni riprendono e proseguono, per certi aspetti, l’ondata di scioperi del 2019. Se la protesta più accesa è nel Kurdistan, nelle province a maggioranza curda dell’Arzebaijan è stato proclamato lo sciopero generale, determinando una sorta di zona libera dalle autorità. Nonostante le decine di morti e le centinaia di feriti, la rivolta continua in molte città. Il presidente Raisi – proprio come Trump durante la Floyd rebellion… – ha attribuito la responsabilità degli scontri agli anarchici e ai black bloc…

Per cogliere fino in fondo la portata di questa nuova offensiva d’Iran – e per sottrarne l’elogio ai tartufi liberali – ci è parso utile ricordare un’altra offensiva: quella del 1978-1979, spacciata al mondo come «rivoluzione khomeynista». Lo facciamo con due testi. Il primo tratto da un libretto di Serge Bricianer uscito postumo nel 2002, il secondo da un corposo volume scritto nel 1990 da un partecipante alla Bibliothèque des émeutes. Si tratta di due approcci piuttosto diversi tra loro, benché convergenti in alcuni punti. Già membro di Socialisme ou Barbarie e poi di Informations et Correspondances Ouvrières, Bricianer – a cui si deve un dei lavori più importanti su Pannekoek e i consigli operai – ha un punto di vista “consiliarista” classico. Adreba Solneman, invece, fonde in una sintesi originale spunti dell’Internazionale Situazionista e di Os Cangaçeiros: cioè, a grandi linee, il tema della rivolta come comunicazione autonoma tra gli sfruttati e il concetto di «poveri» (o gueux, mendicanti, accattoni, miserabili ecc.) in quanto non-classe che diventa “soggetto della storia” solo attraverso la propria potenza di negazione. Mescolando un certo hegelismo con una teleologia dai tratti messianici – la fine della storia come sua rivelazione –, la categoria della totalità coincide, in questa visione, con la distruzione-realizzazione in terra delle promesse della religione. L’amore, potenza riunificatrice, si annuncia nella forma immediata della sommossa e della vendetta. Un’ampia raccolta di scritti di tale “corrente” – compresa la poderosa analisi della rivoluzione iraniana – la potete trovare qui http://www.laboratoiredesfrondeurs.org/autre/index_autre.html

Le traduzioni che pubblichiamo sono anche un invito a scrollarci di dosso ogni visione eurocentrica delle lotte. Potremmo così capire che magari in questo momento – come nel 1978-1979 secondo Solenman – il luogo in cui avviene il dibattito più vivo e più vero su rivolta e comunicazione, tecnologia e patriarcato, sessualità mercificata (fottere) e amore, libertà e Stato, non sono le università o le redazioni o i circoli di Roma, Parigi o New York, ma le strade di Teheran. Per accorgercene, e praticare la solidarietà conseguente, dobbiamo toglierci il velo progressista (e razzista) dagli occhi. Buona lettura.

Una scintilla nella notte. Sulla rivoluzione in Iran (1978-1979)

Comitati e consigli

La distruzione dello Stato dello scià da parte della popolazione iraniana fu accompagnata dalla creazione di nuove forme di organizzazione politica. Dall’inizio della rivolta fino alla caduta del governo Baktiar, il 22 febbraio [1979], di tutti gli organi dello Stato restavano sotto il controllo del regime soltanto le istituzioni repressive – l’esercito e la polizia. Nel corso di uno degli scioperi più lunghi della storia moderna [durato quasi sei mesi], i vecchi dirigenti persero praticamente il controllo di quasi tutte le altri istituzioni: banche, scuole, ministeri, industrie di Stato e private, televisioni e radio, giornali ecc. Il crollo del potere centrale e lo spirito rivoluzionario del momento avevano creato le condizioni per l’emergere di organizzazioni popolari di base. Centinaia di comitati si diffusero così spontaneamente ovunque nel paese, allo scopo di assicurare i bisogni immediati del popolo e di estendere la lotta contro il vecchio regime.

Nelle città, i comitati di distretto utilizzarono le moschee come luogo di riunione. Essi erano essenzialmente organizzati e diretti dalla comunità. All’inizio, erano indipendenti da ogni controllo politico. In diversi luoghi – in particolare a Mashad, la quarta città del paese con 800 mila abitanti, ma anche in molti quartieri di Teheran – questi comitati funzionavano sotto il controllo di assemblee quotidiane. Parallelamente a questi comitati, dei consigli d’impiegati e di operai si formarono su quasi tutti i luoghi di lavoro. Giocando un ruolo decisivo negli scioperi e nelle manifestazioni, questi consigli assunsero un carattere nettamente politico. I consigli più importanti erano quelli dei lavoratori del petrolio, seguiti da quelli delle banche e dei giornalisti. La lotta condotta da questi consigli era così efficace che nessun governo avrebbe potuto sopravvivere senza il loro consenso. Così, non è esagerato affermare che i consigli e i comitati furono lo strumento principale della lotta popolare che distrusse il regime dello scià [occorre ricordare: la sesta potenza militare del mondo, nonché alleato degli USA]. Costituirono la struttura organizzativa dello sciopero generale; organizzarono le comunicazioni all’interno del paese (mentre televisioni, radio e giornali non funzionavano più); organizzarono la distribuzione di cibo e di medicinali e trasformarono gli edifici pubblici e gli hotel in ospedali. La città di Mashda fu così diretta dai consigli durante più di due settimane.

Una volta al potere, il governo islamico non ebbe grandi difficoltà a sciogliere i comitati di distretto o a prenderne il controllo. Durante la lotta, il coordinamento di questi comitati era caduto nelle mani dei mullah, i quali possedevano una propria organizzazione e perseguivano i propri scopi politici. Era la via ineluttabile, dal momento che la sinistra tradizionale non aveva alcuna alternativa da offrire – tanto più che la struttura religiosa aveva il vantaggio di poter fare riferimento a un simbolo nazionale, Khomeyni –, il che non era senza importanza in un paese arretrato come l’Iran.

D’altro canto, molti consigli operai (e talvolta persino d’impiegati) entrarono in resistenza allorquando la collaborazione tra il nuovo potere politico e i padroni divenne palese. Alla fine del 1979, Barzagan [capo del governo provvisorio] deplorava ancora il rifiuto di alcuni comitati di abdicare al loro controllo sulle fabbriche. Khomeyni stesso ne esprimeva il biasimo. Numerosi consigli dei soldati, i quali erano nati nell’ultima parte della lotta contro lo scià, rimasero ostili al ritorno della gerarchia militare.

Non si tratta qui di contribuire a costruire un mito dei consigli operai iraniani. Le organizzazioni che abbiamo appena descritto brevemente non rappresentano un tentativo di organizzare il potere della classe operaia sulla società. Gli interessi autonomi dei proletari ch’essi rappresentavano rimasero subordinati agli scopi limitati e talvolta persino reazionari della rivolta. Nondimeno, la loro esistenza testimonia un fenomeno importante. In Iran, società fortemente religiosa, la classe operaia giocò un ruolo chiave in un movimento di ribellione popolare; essa condusse uno sciopero generale di sei mesi, organizzato al di fuori dei sindacati e dei potenti partiti di sinistra, e caratterizzato da un elevato livello di azione di massa e di organizzazione. Come nei movimenti rivoluzionari dei paesi capitalisti più sviluppati, questo fu reso possibile dalla formazione di comitati operai e di consigli. Il che conferma che ci trovavamo davanti alla forma di organizzazione naturale della classe operaia. Malgrado gli elementi limitati della loro lotta, l’esistenza di queste forme di organizzazione ha integrato gli operai iraniani nella storia dei movimenti della classe operaia. E tale esperienza ritroverà tutto il proprio senso non appena la lotta rinascerà su nuove basi, autenticamente rivoluzionarie.

(Babak Varamini, «Root and Branch», n. 8, Boston, 1979, in Serge Bricianer, Une étincelle dans la nuit. Islam et révolution en Iran 1978-1979, Ab irato, Paris, 2002)

Sciopero generalizzato

[…] Dal momento che non esiste alcuna organizzazione operaia, alcun sindacato, alcuna unità, tutti gli scioperi sono selvaggi e spontanei, eterocliti e desincronizzati, ammirevoli per coraggio e ostinazione. Da fine ottobre [1978], quando i primi grandi ancorché corti scioperi sono noti, fino a inizio novembre, il rifiuto del lavoro diventa generale e permanente. Il suo sviluppo resta caotico e mal conosciuto. […] le giornate isolate di sciopero generale, lungi dallo stancare gli scioperanti come sperano tutti i recuperatori del mondo, li hanno uniti nel più pericoloso dei forum: la strada. Così, lo sciopero iraniano, la cui fine è ancora più inafferrabile del suo inizio, aveva sviluppato al massimo grado le virtù di uno sciopero selvaggio riuscito: paralizzare il nemico rimanendo disponibili all’insurrezione; fornire armi a coloro che la fanno contro coloro che la subiscono; rovesciare in tal modo l’ordine della pace e del lavoro civili nel quale coloro che lavorano forniscono armi a coloro di cui subiscono il potere.

[…] per un economista, uno sciopero generale di due giorni passa per una catastrofe irreparabile; al termine di una settimana, il paese comincia a mangiare le sue conserve; al termine di due, ridotto alla mendicità, spinto indietro di alcuni secoli sulla capricciosa ruota economista del tempo, si comincia a morire di fame. Questo olocausto creato per l’immaginario operaio non si è evidentemente nemmeno delineato in cinque mesi di sciopero in Iran. Di più, gli operai del petrolio, la merce più coccolata, sulla quale i proiettori e gli affetti degli economisti rimasero concentrati al punto che ogni altra ne risultava eclissata, diedero davvero il cattivo esempio. Benché meglio pagati degli altri, questi avevano cominciato a pretendere degli aumenti di salario. Ma cosa fecero questi ingrati una volta raggiunto tale obiettivo? Invece di riprendere il loro invidiabile lavoro, rivendicarono dell’altro: il 3 novembre, pretendendo l’ottenimento di tutte le richieste espresse da Khomeyni, formulano un pretesto comune a tutti gli scioperanti, e superando con sovrana disinvoltura le elemosina e il quadro stesso dei padroni e degli economisti, si avvicinano pericolosamente alla critica del lavoro in quanto tale. Da quel giorno, gli economisti si sono fatti assai discreti sull’Iran, unendosi al silenzio dei giornalisti sullo sciopero.

Ma gli scioperanti iraniani hanno provato ai poveri di tutti i paesi che, di fronte alla peggior legislazione e malgrado il loro ordine del tutto disperso, si poteva realizzare lo sciopero più lungo che si conosca, e il più efficace. Le qualità che occorse dispiegare, in un mondo in cui la separazione tra i poveri ha raggiunto un tale livello di raffinatezza poliziesca, per riuscire in un’impresa che tanto disperata appariva ai poveri in giro per il mondo, sono il miglior omaggio al soffio che i miserabili d’Iran avevano creato.

Prima grande sconfitta del lavoro e dell’economia

Il grande sciopero del 1978 è stata una catastrofe per i valletti: i poveri hanno sperimentato che è possibile sopravvivere senza lavorare, durante cinque mesi; i valletti hanno sperimentato che al termine di cinque mesi diventa difficile per loro sopravvivere se i poveri non lavorano. I poveri hanno sperimentato che è impossibile vivere lavorando, mentre i valletti hanno sprimentato che la propria sopravvivenza è inutile se i poveri non lavorano. Così è stata minacciata la teoria sulla quale si fonda tutta l’organizzazione sociale: la teoria del lavoro obbligatorio, la teoria fonte di ogni ricchezza. La minaccia è considerevole: la teoria del lavoro dei valletti, da sola, giustifica che i poveri lavorino e, soprattutto giustifica, da sola, l’esistenza dei valletti.

Gli scioperanti hanno sperimentato l’insurrezione, la presa d’armi, la festa, la vendetta, l’amore, l’abbondanza dei dibattiti. Loro, che ignoravano che la sopravvivenza potesse avere un al di là quaggiù, hanno cominciato a vivere. Cominciare a vivere ha dato loro la misura della propria potenza: a mani nude, a volto scoperto, hanno sconfitto una polizia feroce, poi un esercito intero, preso le armi e messo in fuga i loro padroni, quand’anche sostenuti per anni da tutti gli Stati del mondo.

Devono questa sbalorditiva vittoria, così carica di emozione, alla carica di questa emozione, e cominciano a capirlo. Cominciano a capire che fermare il lavoro e prendersi la strada è la condizione di tutta la loro forza e di tutto il loro piacere. L’essenziale per loro è questo contrasto estremo, da essi stessi constatato, tra la miseria quotidiana, dal lavoro al divertimento, e la ricchezza storica degli ultimi cinque mesi. Così, quando Bazargan chiede loro di riprendere urgentemente il lavoro il 17 febbraio, hanno l’impressione di un’altra maniera di esigere la resa delle rami, il ritorno della tirannia.

Poiché la sventura dei valletti è che, quando i poveri non lavorano più, questi non sono né disoccupati né nullafacenti né oziosi: discutono. La parola, questo organo del padrone che nell’organizzazione sociale dei valletti appartiene all’oggettività, è improvvisamente utilizzato contro di essa, e dunque contro di essi, i magnaccia. In Iran, i valletti dànno per acquisito il fatto che il lavoro ha come prima funzione la censura. Non è infatti l’impossibilità di scrivere e di leggere che separa il povero d’oggi dall’uomo totale progettato da Marx, bensì quella di parlare: finché i poveri lavorano, non hanno nulla da dirsi. Il problema centrale dei valletti non è più quello di rimettere i poveri al lavoro, ma di farli tacere. Ecco il dialogo tra la Frazione Economista che ancora non lo pensa e la Frazione neo-Islamica dei valletti, che è nata, senza saperlo, dalla violenta demistificazione del lavoro in Iran:

(febbraio 1979)

F.E. – Rimettere gli scioperanti la lavoro è la priorità. Una volta al lavoro, non parleranno più.

F.I. – Per noi, al contrario, è questa la fortuna.

F.E. – Ovunque nel mondo, dopo ogni rivoluzione la fortuna si stabilisce solo quando viene ristabilita la pace sociale; e la pace sociale si ristabilisce solo quando il lavoro riprende.

F.I. Questo è vero, ma è soltanto un risultato. Essendo vero nella storia (ci adattiamo), ordineremo la ripresa del lavoro (su questo non transigiamo) nel nostro linguaggio, cioè per la vittoria della parola, per l’Islam. Ma non fatevi illusioni: la cosa più difficile sarà spiegare che la vittoria della parola, la vittoria dell’Islam, è il silenzio.

[…] Gli operai iraniani sono in una situazione molto diversa rispetto agli operai dei paesi in cui la classe operaia è un monumento storico. Sono nettamente minoritari tra i poveri, e nessuna organizzazione produce quella mediazione sociale che li determina in quanto operai. D’altronde, cinque mesi di sciopero in un paese in cui dominano le imprese con meno di dieci dipendenti hanno portato quasi tutte le imprese al fallimento, e gli economisti stimano il numero dei disoccupati tra i 3 e i 4 milioni su 10 milioni di «attivi» (metà 1979).

[…] Ma in un paese in cui i partiti operai sono composti da studenti in esilio, e in cui nessun sindacato indipendente è riuscito a farsi tollerare, né dallo Stato né, alla sua caduta, dagli scioperanti, gli operai, prudenti ma decisi, si sono comportati in maniera esemplare. Si sono innanzitutto protetti dai distruttori di scioperi prendendo possesso delle fabbriche; e si sono premuniti contro il recupero unendosi soltanto all’atto pratico. A partire da febbraio, il rifiuto del lavoro trasmuta il loro coraggio in euforia, la loro ostinazione in fierezza, il loro prudente codismo in aperta insubordinazione. […] Si sono così indirizzati al cuore del dibattito sul mondo, sul limitare del gioco. Questo, evindemente, il nemico non poteva nemmeno riconoscerlo. Così come nel neo-Islam non si parla di operai, presso gli economisti non si parla di operai ostili al lavoro.

[…] E poi, i cinque mesi di sciopero contro lo scià, l’esercito, e in seguito il governo di Bazargan, avevano abituato gli operai ad affrontare l’avversità attraverso le loro nuove organizzazione. Lì, nei loro consigli e comitati, tutti i poveri d’Iran avevano cominciato a balbettare le prime formule contro la povertà. Avevano preso le armi, avevano preso la parola. Avevano preso fiducia nella propria forza, nel proprio giudizio. […] Anche per questo la comunicazione tra i poveri d’Iran e i poveri del mondo è intercettata e rimpiazzata dalla pseudo-comunicazione tra i valletti d’Iran e i valletti del mondo. […] La frontiera è una posizione tracciata dal nemico; finché non è distrutta, mitraglia contro il corso della storia.

Organizzazione dei poveri

I consigli, operai, contadini, dei soldati, dei marinai, di fabbrica, di quartiere, Soviet, Räte, Shoras, fin dalla loro nascita nel 1905 a Pietroburgo, sono sempre stati sconfitti. Gli Stati, differenti tra loro, che hanno dovuto combatterli li hanno fucilati quando potevano essere uccisi, calunnianti se occoreva riconoscerli, e si sono insinuati attraverso l’ipocrisia e l’inganno in quelli che non potevano né recuperare né assassinare.

I “consiliaristi” si meravigliano calorosamente, come gli uomini di Stato s’irritano in silenzio, del fatto che ogni insurrezione ne crei di nuovi. La ragione è semplice: scoppia uno sciopero selvaggio o un’insurrezione; le organizzazioni preesistenti non vi sono né preparate né coinvolte; scioperanti o insorti sono allora costretti a coordinarsi, a delegare delle responsabilità senza aspettare che partiti e sindacati vi si interessino o vi si integrino: nasce il consiglio. Una definizione così ampia è come una nuvola di gas: ognuno può immaginarvi al di sotto ciò gli piare; e nessuno osa toccare un simile concetto per la paura di essere deluso. La teoria dei consigli, dopo Pannekoek, si è fermata. La pratica dei consigli, vale a dire l’organizzazione dei poveri quando si rivoltano, si muove in profondità, senza la sua ombra, senza la sua teoria.

La rivoluzione iraniana è stata il più vasto movimento dei consigli che si conosca, e il meno conosciuto. Questo paradosso dimostra ancora una volta, e in modo evidente, quanto l’informazione sia un monopolio nemico (dei consigli). Fin dall’inizio del grande sciopero del 1978, gli operai iraniani, privi di magnaccia sindacali e di eunuchi politici all’epoca in esilio o in clandestinità, furono ben obbligati a organizzarsi da soli e insieme, per difendere il loro sciopero e per appropriarsi delle loro fabbriche. Quando l’impegno oltrepassa il punto di non ritorno, quando quindi comunicare diventa necessario, vi è germinazione spontanea di consigli. […] Nessun movimento di consigli ha avuto da inizio secolo un battesimo del fuoco così lungo, così profondo. Nel febbraio del 1979, mentre lo Stato è in rovina, l’organizzazione della società in consigli è un cantiere le cui fondamenta sono già terminate.

[…] È come se, nell’argilla silenziosa in cui è incastrata l’apatia dei poveri, l’assenza di rispetto e il piacere d’agire cominciassero a insufflare un movimento impercettibile a milioni di golem, condannati a morire senza aver vissuto.

Vendetta

Uno Stato senza polizia non è più un territorio. In Iran non c’è più polizia. Un territorio senza esercito è un deserto o un campo da gioco. In Iran l’esercito è esploso e si è fatto spogliare della sua autorità, della sua capacità di essere polizia. Armati e ingovernati, i poveri d’Iran sono indisarmabili e ingovernabili. La critica, la passione e a ciasuno la sua arma – ecco ciò che distingue l’uomo libero.

L’Islam è un’ideologia costruita per soggiogare tali guerrieri attraverso il verbo, e poi i nemici attraverso la spada. […] se gli ideologi dell’Islam sono stati i soli a sperare d’imporsi ai rivoltosi di Teheran, i rivoltosi di Teheran non sono stati soggiogati dal verbo, ma dalla spada, che è stato necessario piantargli nella schiena.

La prima misura di questi ideologi è quella di voler ristabilire lo Stato. Ristabilire lo Stato significa disporre di mezzi di coercizione, cioè di armi. La sola consultazione islamica, nel senso tradizionale del termine, vale a dire indirizzata ai guerrieri liberi, con l’unica autorità della conoscenza e della superiorità spirituale, ha avuto luogo il 13 febbraio 1979: si tratta del secondo discorso pubblico di Khomeyni dalla caduta dell’ultimo governo nominato dallo scià.

Come in quello pronunciato la vigilia, in cui si proclamava fin da subito che «ogni atto d’incendio o di sabotaggio equivale a un atto di tradimento», in questo discorso non vi è omaggio alle vittime, elogio o programma da vincitori; ma solo un’ingiunzione in cui l’assenza di scopi confessati sottolinea gli scopi nascosti, dove l’autorità del tono sostituisce l’autorità degli argomenti e la violenza del verbo ha la funzione di dissimulare la violenza dell’angoscia: coloro che si rifiutano di consegnare le armi saranno considerati come «nemici dell’Islam e della rivoluzione».

Del fottere

Le condizioni a Teheran sono state ideali per l’amore: gioventù, libertà, sole, festa e guerra civile. Nella guerra civile, autorità, legge e tradizioni cadono, il campo dell’amore, che non si soddisfa d’alcun limite, s’apre improvvisamente a un baccanale d’incontri, d’emozioni, di parole.

Il tutto o niente, l’effimero, il coraggio d’osare, la distruzione delle abitudini, il disprezzo della morte, tutta la grazia e l’intelligenza del quattrocento [in italiano nel testo] in Italia nascono in quest’anno 1356 dell’egira [la «secessione» all’origine dell’èra musulmana]. È dunque impensabile che l’amore, questa pratica eminentemente rivoluzionaria, tanto leggera quanto profonda, tanto grave quanto divertente, la più intensa e la meno essenziale, questo superfluo indispensabile, non si sia esercita nel 1978 in Iran più che ovunque nel mondo. Che la gioventù di Teheran abbia condiviso sull’amore lo stesso silenzio asfissiante del proprio nemico, segna innanzitutto il limite di ogni movimento di cui la gioventù è il cuore. Se la teoria di una cosa è la verità del suo superamento, non è ancora dall’Iran che ci arriverà la teoria dell’amore.

Tuttavia, il dibattito sull’amore, sul fottere [la baise] e sulla sessualità nel 1979 ha avuto luogo solo in Iran. Ed è questo, d’altronde, che ci autorizza a parlare di rivoluzione iraniana. Questo dibattito, sussurrato nella confusione, scandaloso in mezzo alle passioni più varie, in una spessa nebbia ideologica, si è svolto nelle peggiori condizioni. Ma non ne esistono altre: cominciare quel dibattito vuole dire sopprimere allo stesso tempo le condizioni esistenti. La questione della riproduzione, dei costumi e del piacere, non è mai stata separata come in queste righe dall’insieme delle altre questioni che affollano lo spazio pubblico di Teheran: al contrario, essa rappresenta la loro emozione e la loro violenza, la loro irrazionalità e la loro vita – in una parola, la loro unità.

Benché immediato e onnipresente, per un disastroso paradosso, questo dibattito si è sempre posto nei termini che gli sono propri: così, la vendetta è la sua prima manifestazione.

[…]

La frazione dei poveri di gran lunga più numerosa sostiene che la sessualità moderna, abbasso lo scià, avvilisce. La minoranza sostiene che scopare libera, sempre e comunque abbasso lo scià. Le due posizioni non sono mai state enunciate così chiaramente nel fuoco dell’azione, la qual cosa avrebbe avuto il primo merito di mostrare ch’esse non sono per nulla antagoniste. Fottere avvilisce e libera. Libera distruggendo i mille divieti che permettevano alla comunità di padroneggiare le emozioni asfissiandole, ed avvilisce sopprimendo appunto tale maestria, trasformando gli individui in giocattoli disorientati d’una sessualità senza scopo. Qui è la divisione profonda dei poveri d’Iran. Le due frazioni, intestardendosi nella loro disputa, si sono indebolite.

Per una volta non sono stati gli ideologi a impadronirsi di un dibattito per falsificarlo. Non hanno nemmeno saputo ch’esso avesse avuto luogo. Sono le due frazioni dei poveri, via via più scaldate da questo disaccordo sordo e intermittente, che si sono impadronite delle ideologie correnti per dare peso e forma financo nello spettacolo ai loro rispettivi argomenti. Si tratta di sicuro dell’errore decisivo dei poveri d’Iran. Come se nel 1871 una metà dei comunardi avesse aperto le porte di Parigi ai Versagliesi, mentre l’altra faceva entrare i Tedeschi, allo scopo di aver la meglio in una disputa. La paura ha avuto la meglio sul piacere e ben presto ci si è trovati con il sinistrismo che difendeva questa attività abominevole che è fottere, e il neo-Islam che difende questa abominevole morale patriarcale compromessa dal fottere. La difesa ha ormai la meglio sull’offensiva, il che è una follia in quel momento della guerra civile. Quando l’ideologia riprende il primato sulla teoria, i poveri ricominciano ad agire secondo dei dogmi invece che discutere secondo la loro pratica. È a proposito dello chador, il velo che portano le donne, che il dibattito sul fottere accede alla pubblicità. Lo scià lo aveva proibito; nel 1978, quindi, le manifestanti lo brandivano come uno stendardo. Ed ecco ora gli hezbollah che pretendono di renderlo obbligatorio!

A partire dall’8 marzo si svolge la prima manifestazione delle donne, senza velo, al grido «Abbasso Khomeyni»; gli hezbollah contro-manifestano: «Lo indosserai o ti picchieremo»; le donne rispondono: «preferiamo essere picchiate ma libere». Il 10 e il 12, gli hezbollah attaccano le donne con gli insulti, i bastoni e i coltelli! La sessualità di queste aggressioni (perché gli hezbollah non hanno usato delle armi da fuoco?) diventa troppo torrida per i sinistri fedayin: essi ritirano il loro consenso alla manifestazione femminista del 13 col pretesto ch’essa “destabilizzerebbe” il governo Bazargan, che questi aspiranti valletti hanno appena deciso di sostenere. Questa manifestazione, la quale ha tuttavia avuto luogo, è stata «annegata nella contro-manifestazione». Il giornalista che utilizza questa immagine interessante, omette purtroppo qualsiasi spiegazione su questo annegamento al quale egli è fortunosamente sfuggito. A partire da questo momento, sinistri e islamisti evitano la strada come teatro di questa scena di matrimonio. E cercano di lì in poi di fottere in maniera più discreta.

Lato poveri, il dibattito sul velo è un velo sul dibattito. La paura di strappare il velo è la paura di parlare del fottere e dell’amore, ed è condivisa tanto dai difensori quanto dagli avversari dello chador, ben felici di trovare in esso un fortino tanto avanzato, un simbolo tanto concreto.

(da Adreba Solneman, «Offensive d’Iran», in Du 9 janvier 1978 au 4 novembre 1979, Belles Emotions, 1991)