Un vergognoso delirio

 

«Una visione chiara del possibile e dell’impossibile, del facile e del difficile, delle fatiche che separano il progetto dalla messa in opera basta a cancellare i desideri insaziabili e i vani timori; da questo e non da altro derivano la temperanza e il coraggio, virtù senza le quali la vita è solo un vergognoso delirio».

Sono passati quasi novant’anni da quando la venticinquenne Simone Weil scriveva queste parole nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, un cristallo purissimo di idee al cui confronto le nostre nozioni – di individuo, collettività, lavoro, produzione, scienza, oppressione, progresso, rivoluzione – risultano approssimative, superficiali, incantatorie.

È senz’altro arduo possedere una «visione chiara» in un mondo in cui gli apparati tecnologici, economici, militari, politici e ideologici s’intrecciano in maniera così inestricabile da minare alla base la nozione stessa di causalità. Da qui discende il carattere sempre più inconsistente della teoria rivoluzionaria, a cui si supplisce in genere con abbondanti dosi di retorica (soprattutto per quanto riguarda i suoi possibili punti di applicazione).

Quanto al «delirio», esso è ormai un rapporto degli individui con il mondo. Hegel diceva che un’interiorità senza alcuna esteriorità smette di essere interiorità. Se il reale si confonde sempre più con il virtuale e l’ecosfera con la tecnosfera; se gli oggetti diventano «intelligenti», le cose si dileguano in un mero aggregato di dati e le macchine contendono agli umani la capacità di fare «esperienza», la coscienza, priva dei suoi organi-ostacoli, cioè di quel tessuto di necessità con cui si scontra e da cui cerca di emanciparsi, sprofonda nel delirio. Il «realismo» – cioè il muto conformarsi all’onnipotenza di ciò che appare – è allora prova sicura d’irrealtà. La quale non è affatto l’espressione di un vuoto, bensì di un troppo pieno (di stimoli, immagini, ingiunzioni algoritmiche, condotte automatizzate). Un mondo in cui manca il vuoto, infatti, è un mondo reificato. Senza lo spazio che li separa, tra gli umani non si dà alcun legame, ma solo un fascio di reazioni. Senza una rottura nell’ordine delle vite isolate e connesse, quindi, ogni nozione del possibile e dell’impossibile, del facile e del difficile è priva di virtù, cioè del proprio principio attivo. Impariamo la temperanza quando sperimentiamo che la materia è dura; quando gli altri ci ascoltano davvero e prendono poi le misure di quello che facciamo. Impariamo il coraggio quando ci sentiamo parte di qualcosa che ci oltrepassa; quando il movente del nostro agire è tutt’uno con i bisogni profondi del nostro animo; quando nella fatica per realizzare i nostri progetti ci affranchiamo sia dai desideri insaziabili sia dai vani timori. Il delirio macchinico dell’onnipotenza liquida allo stesso tempo la temperanza e il coraggio, fabbricando esseri pavidi e senza alcun senso del limite; esso s’impone incarcerando i desideri non meno dei bisogni, cioè togliendo alla libertà il suo autentico respiro: il rapporto tra pensiero e azione.

Se non impossibile, difficile dire meglio di Simone Weil:

«La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la sua soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l’azione; sarebbe completamente libero un uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. Poco importa che le azioni in se stesse siano agevoli o dolorose, e poco importa anche che esse siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta non possono umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria facoltà di agire».

Tra precarizzazione del lavoro, abbassamento dei salari, aumento dei prezzi e delle bollette, l’imperio dei bisogni è destinato a crescere. Ora, se è impossibile invertire i rapporti di forza nella società senza lotte dure e moti di rivolta; e se sarà difficile costringere Stato e padroni ad arretrare dai loro piani di guerra, una «visione chiara» ci impone di capire che un maggiore soddisfacimento dei nostri bisogni ci può rendere meno miseri, ma non più liberi, prigionieri come siamo di un sistema sociale di cui non controlliamo né i fini né i mezzi. Anzi, più aumenta la separazione tra il pensiero e l’azione – separazione imposta dai rapporti sociali di produzione e incorporata nelle macchine e negli oggetti stessi della tecnoindustria –, più il nostro giudizio si limiterà a quanto siano «agevoli» o «dolorose» le nostre condizioni di vita.

Senza una concezione della libertà (e dell’oppressione) che non coincida né con i bisogni né con i desideri; senza «separare ciò che appartiene all’uomo considerato come individuo e ciò che è tale da fornire armi alla collettività contro di lui, cercando contemporaneamente i mezzi per sviluppare i primi elementi a detrimento dei secondi», continuerà – più o meno confortevole, più o meno affannato – il nostro vergognoso delirio. «Temperanti» per decreto ministeriale e «coraggiosi» nel rivendicare il nostro «diritto all’alienazione».

Fuori dalle astrazioni filosofiche, i blocchi stradali con cui da due mesi gli allevatori e gli agricoltori olandesi cercano di fermare il piano «green» del governo di ridurre di un terzo il bestiame negli allevamenti intensivi entro il 2030 ci offrono una dimostrazione ben istruttiva delle contraddizioni (e delle proteste) prossime venture. A parte approfittare di simili perturbazioni sociali per i nostri progetti, che «soluzioni» proporre senza cambiare la natura stessa dei problemi?