Luci da dietro la scena (IX)

Vivere pericolosamente

In una società in cui qualsiasi contropartita all’insoddisfazione dominante non è più nemmeno tollerata, tutto ciò che si rifaceva all’ordine modale si è ritrovato mutato in imperativo categorico. S’impone in tutte le manifestazioni della vita quotidiana un “devi accettare di vivere pericolosamente”. Senza dubbio, la situazione del mondo è stata sempre critica, ma il nostro tempo si distingue dalle epoche passate per il fatto che, per la prima volta, è la sopravvivenza della specie umana ad essere in gioco. Tutte le attività umane non ricevono in effetti più alcuna giustificazione negli ambiti ristretti della società tecno-burocratica; che infatti promuove, sotto il totale controllo dello Stato, la distruzione delle forze produttive umane e dell’ambiente naturale nel quale gli uomini hanno fondato, in origine, i loro rapporti sociali.

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La disinvoltura con la quale le tecnologie nucleari civili possono venire stornate a fini militari si deve alla loro originaria esistenza militarmente determinata; il che attenua anche il carattere fittizio della separazione tra sfere civili e militari. Al di là della distinzione del nucleare civile dal nucleare militare si afferma la realtà del nucleare come forza distruttiva statale.

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È abbastanza chiaro ora che l’uso militare del nucleare, poiché non permette ad alcuno Stato di conquistare l’altro senza rischiare la distruzione totale, trova il suo fine nella regolazione dei rapporti sociali. Così, in campo militare, il controllo dell’uso del nucleare è strettissimo, nonostante che, nel momento stesso in cui gli Stati sviluppano tecnologie finalizzate ad erigere una barriera protettiva contro la distruzione totale, la guerra nucleare potrebbe essere accidentalmente scatenata da una erronea valutazione o peggio ancora dal difetto di un microchip.

L’industria bellica è sempre stata il laboratorio dello sviluppo delle forze produttive, tant’è vero che dall’arte della guerra ci si è sempre potuti attendere eccellenti ricadute nelle professioni civili. Nell’epoca in cui viviamo, comunque, i rapporti sociali di distruzione non possono essere còlti nella sola prospettiva della condotta della guerra; più precisamente, le forze dette produttive, nuclearizzate o informatizzate, non sono distruttrici unicamente per il loro uso militare, lo sono immediatamente per il loro uso sociale generalizzato; quelle che l’ideologia fredda nasconde sotto la denominazione controllata di “nuove tecnologie” devono piuttosto chiamarsi forze distruttive; e l’operazione che consiste nel distinguere ciò che è legato alla pace da ciò che è legato alla guerra, al fine di meglio separare ciò che appartiene alla sfera civile da ciò che appartiene alla sfera militare, non ha più alcuna ragion d’essere dal momento che non può giustificare i pericoli tecnologici che si corrono in tempo di pace e che valgono precisamente quanto i vecchi rischi che si correvano in tempo di guerra. In verità, i tempi sono molto cambiati, e quel che oggi si chiama tempo di pace è a immagine e somiglianza di un tempo di guerra.

[…] La tanto vantata economicità di questa energia viene contestata dal costo sociale dei disastri che provoca il suo impiego e che attesta il numero attuale dei futuri condannati a morte, quale compariva ad esempio in seguito alla crisi tecnologica di Chernobyl: centomila persone resteranno sotto sorveglianza medica per il resto della loro vita, e secondo le stime di esperti americani quattromila tumori provocati dal cesio 137 tra i cento milioni di abitanti delle regioni occidentali dell’Unione Sovietica, dell’Europa dell’Est e della Scandinavia, ottomila altri direttamente causati dall’emissione dello iodio 131, e almeno quarantamila dovuti alla contaminazione delle catene alimentari da parte dello stesso elemento, sono attesi per i prossimi anni; e tutto questo senza considerare le zone geografiche contaminate, i danni che hanno subìto i prodotti degli allevamenti, i raccolti ecc. In un sol colpo questa crisi tecnologica sintetizza da sola, sia nello spazio planetario, che all’occorrenza non possiede più entità geografiche pertinenti a ciascuno Stato, e sia nel tempo che essa riduce a un punto che è quello stesso dell’esplosione, gli effetti differenti delle molteplici crisi tecnologiche apparentemente, ma solo apparentemente, di minore portata, quali l’infragilimento delle filiere biologiche della foresta ad opera delle “piogge acide”, le fratture geologiche provocate da sbarramenti giganteschi, le manipolazioni genetiche, in breve tutto ciò che concorre ad una distruzione industriale di quel che si può ancora, forse per poco tempo, chiamare vivente, ma che appare espressione del movimento autonomo del non vivente.

Coloro che volessero giustificare l’interesse per il nucleare arguendolo dal fatto che non sono stati, fino ad oggi, testimoni di una guerra nucleare generalizzata, potrebbero ritenersi anche soddisfatti dello stato di guerra permanente che esigono le forze distruttive nuclearizzate. L’organizzazione sociale è di già effettivamente regolata sui pericoli permanenti che le forze distruttive racchiudono; pertanto, non sorprende affatto vedere moltiplicarsi le occasioni per tenere un atteggiamento degno del comportamento e della disciplina militari; questo nuovo atteggiamento sociale umano consiste nella sottomissione obbligata all’oggettività del funzionamento tecnologico così come ne è stata data prova ancora in Europa a seguito della crisi tecnologica di Chernobyl.

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Il modus vivendi che gli Stati elaborano concerne la “responsabilizzazione” delle popolazioni di fronte alla sindrome delle tecnologie, cioè l’accettazione non più di sopravvivere con i potenziali pericoli che le tecnologie racchiudono, come finora si chiedeva loro, più o meno esplicitamente, ma di imparare a sussistere con le crisi tecnologiche. Queste crisi esprimono una forza che sfugge agli uomini di Stato, i quali non le padroneggiano meglio di quanto i borghesi di un tempo non padroneggiassero le loro crisi economiche; ciò, tuttavia, non impedisce affatto a questi uomini di Stato, pur nella loro incapacità di previsione, di arrogarsi il diritto di decidere della sorte dei popoli.

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Uno degli scopi fondamentali della statalizzazione dei rapporti sociali è di mantenere l’illusione che le sfere della società, o anche semplicemente qualcuna fra esse, siano in grado di controllare lo Stato, mentre quel che succede è esattamente il contrario.

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Quanto all’intero complesso della popolazione, il suo comportamento può essere paragonato a quello degli spettatori in questo passo di Kierkegaard: «L’incendio si sviluppò nelle quinte di un teatro. L’attore comico si affacciò ad avvertire il pubblico. Questo credette ad una battuta ed applaudì. L’attore si ripetè. Gli applausi raddoppiarono. Sarà così, penso, che il mondo moderno perirà: fra l’esultanza generale delle persone di spirito, persuase che si tratti di uno scherzo».

Il processo di nuclearizzazione della realtà sociale non è, come generalmente si pensa, compimento del sistema di produzione mercantile borghese, ma il segno sintomatico del passaggio da un sistema di produzione mercantile a un sistema di produzione statale nel quale la potenza antisociale su cui si fonda l’esistenza dei rapporti statali è espressione dell’autonomia dello Stato. È questa una considerazione fondamentale dato che intende porre il problema della liquidazione dei rapporti mercantili, generati dal modo di produzione borghese, a beneficio dei rapporti sociali statalizzati, derivati dal modo di produzione statale. Non si tratta naturalmente di una scomparsa pura e semplice della ragione mercantile, ma ormai della giustificazione che quest’ultima trova nella sua subordinazione alla ragione statale. Cosicché gli uomini, che non hanno saputo trasformare i rapporti sociali sopprimendo le precedenti condizioni di dominio, dovranno adesso sopportare maggiormente questo Stato che minaccia di far scomparire tutto ciò che progettava, o permetteva di progettare, la sua stessa scomparsa. Indubbiamente, le forze produttive sono sempre state controllate dalla borghesia in maniera tale che il proletariato non potesse riappropriarsene, tuttavia permaneva da parte del proletariato la possibilità di riappropriarsi di ciò che costituiva la somma dei propri sforzi, e questo in ragione dello sviluppo dei suoi interessi di classe. Di tale contraddizione storica lo Stato vuole fare tabula rasa: perciò il dispiegamento tecnologico finanziato dallo Stato deve essere del tutto privo di interesse per i moderni poveri.

Storicamente la tecnica precede la scienza, ma, da quando la scienza si va impossessando della tecnica, quest’ultima, semplice protesi dell’uomo, si trasforma in tecnologia. Nel processo di appropriazione statale delle conseguenze di tale mutazione, la tecnologia, ormai ideologia di Stato materializzata, condiziona un controllo sociale al quale lo Stato moderno ha affidato la sua esistenza; e gli uomini, spossessati di tutto, non potendo padroneggiare le “nuove tecnologie”, a seguito del fatto che non vi traggono alcun interesse specifico, sono controllati da esse o, meglio, da coloro che le animano: tecnocrati, funzionari, amministratori e altri membri della burocrazia universale. È dalla fine della seconda guerra mondiale che lo sviluppo tecnologico si effettua in verità agli ordini dello Stato, essendo il suo indirizzo largamente dipendente dalle istanze militari che dominano negli apparati statali. Accaparrandosi le forze produttive del sapere scientifico, i militari rafforzano il proprio potere all’interno delle sfere dirigenti, e contemporaneamente impongono alla realtà il loro modo burocratico di dominio. La burocratizzazione militare del sapere scientifico, col suo sviluppo su scala mondiale, va implicando una ristrutturazione dei rapporti di classe la cui posta diviene il mantenimento o l’annientamento dello Stato. In tal modo, lo Stato è portato a stornare a proprio vantaggio ciò che finora era la garanzia dell’esistenza della borghesia, e cioè il plusvalore. Il processo di appropriazione del plusvalore da parte dello Stato si generalizza via via che il condizionamento della tecnologia da parte della burocratizzazione militare del sapere scientifico va sempre più esigendo, a livello della ricerca, dello sviluppo e della produzione militare, le plusvalenze in precedenza indirizzate verso la produzione industriale civile. Simultaneamente, questa produzione industriale civile viene ad essere anch’essa determinata nel suo sviluppo dall’indirizzo burocratico del sapere scientifico che concepisce il mondo solo sotto forma di un mondo tecnologico, le cui attività sono tutte rivestite di un senso tecnologico.

P. R. Mercier, Lettera di un franco tiratore su alcuni aspetti del modo di distruzione statale (1988), edizioni Anarchismo, 2013