Luci da dietro la scena (VIII)

1870

La differenza delle due posizioni, quella di Bakunin e quella di Kropotkin, non può essere più radicale, anche se ambedue, quasi con gli stessi accenti accorati, si preoccupano dei destini della grande nazione che ha fatto la rivoluzione «madre di tutti noi» [la Francia]. Per Bakunin, l’occasione non è tanto la guerra, ma la guerra perduta, disastrosamente perduta, l’invasione prussiana, il nemico alle porte.

[…]

Davanti a noi sta una coscienza rivoluzionaria che valuta le condizioni di un conflitto militare dove in alcun modo c’è da scegliere. Viceversa, la scelta si pone, e dalla parte del popolo, perché il militarismo prussiano è alle porte. […]

L’importanza di questa scelta di Bakunin non sarà mai abbastanza sottolineata. Egli prende una strada che in quel momento nessuno sosteneva, nessuno osava nemmeno immaginare, sia per la sua originalità, sia per la sua pericolosità. Infatti, le tesi di Blanqui, come per altro quelle di Marx, si riassumono nelle parole: «In presenza del nemico, né partiti, né contrasti». Come dire che la guerra patriottica di liberazione passa avanti alla guerra di classe. Quindi, collaborazione col governo di difesa nazionale, considerata indispensabile anche per i rivoluzionari giacobini. Per i marxisti, sebbene con motivazioni diverse, […] la conclusione era la stessa, in quanto la vittoria di Bismarck assolveva ad una parte del compito rivoluzionario della classe operaia tedesca, rendendo possibile, attraverso un rafforzamento del capitale tedesco in Europa, un parallelo accentramento della classe operaia in Germania. Non occorre dire quanto fosse distante la posizione di Bakunin, e quanto, alle luce dei fatti accaduti dopo e delle indagini storiche successive, per non aggiungere le esperienze che tutti abbiamo vissuto in questi ultimi anni, fosse tragicamente veritiera. Egli sosteneva, in dettaglio e con analisi minuziosa, che la sconfitta militare francese era anche e principalmente una sconfitta e un dissolvimento dell’apparato amministrativo, giuridico, politico, finanziario dello Stato francese, quindi che lo scatenamento al massimo livello della guerra di classe, lungi dal mettere in pericolo la Francia di fronte al nemico, poteva anzi salvarla, determinando un’insurrezione popolare, diffusa su tutto il territorio, libero e occupato, tale da risultare non affrontabile da un esercito per quanto vincitore e ben armato. Sono due quindi gli elementi tenuti in considerazione da Bakunin: primo, il dissolvimento dello Stato francese di già in corso; secondo, la tattica militare della guerriglia e della guerra di popolo, da contrapporre alla guerra tradizionale dei battaglioni prussiani (e francesi, in questo caso). Forse mai, su nessun argomento, la distanza degli anarchici dai marxisti fu tanto grande e incolmabile. Chi aveva in mente la conquista dello Stato non poteva che suggerire pratiche differenti, come Marx che sosteneva essere una follia davanti al nemico abbattere il governo legittimo francese, e che gli operai al contrario dovevano «con calma e risoluzione» approfittare della libertà repubblicana per procedere alla propria organizzazione di classe. […]

La posizione dei giacobini borghesi, degli autoritari repubblicani, rappresentati nel migliore dei casi, a quell’epoca, da Blanqui, dimostra il limite di questo modo di pensare: una concezione primariamente nazionale, la necessità di difendere il territorio al di là di ogni cosa, al di là della stessa divisione di classe. Non si può tacere il fatto, per altro evidente alla luce delle successive esperienze storiche, che questa stessa concezione, sia pure modificata sulla base di espedienti vari, passerà poi nella politica dei “fronti popolari”, generalmente legati a vicissitudini di guerra, come quello analogo del ’36 e come quelli che nasceranno nell’ambito della resistenza di fronte alle occupazioni naziste. La logica è la medesima: tutti insieme contro l’invasore, anche le forze borghesi e reazionarie, purché non dichiaratamente collaborazioniste. Questa politica è stata accettata purtroppo anche dagli anarchici in diverse occasioni, rivelandosi completamente suicida, come in Spagna, appunto, in Russia, in Messico e all’interno dei vari movimenti di liberazione. […]

[…] qui non si sta dicendo di astenersi dall’intervento nel caso non si possa formularlo su basi anarchiche, al contrario, si sta affermando che il progetto rivoluzionario, anche in situazioni collettive di “fronti popolari”, deve essere sviluppato fino in fondo, perché è sulla base di questo progetto che si possono identificare e coordinare le forze anarchiche in grado di realizzarlo, sia pure in parte. E la mancanza di approfondimento e di chiarezza ha spesso condotto molti compagni, i quali da soli non trovavano modo d’intervenire, ad entrare in formazioni e strutture che per mille motivi non potevano essere le loro.

Alfredo M. Bonanno, introduzione a Michail Bakunin, La guerra franco-prussiana e la rivoluzione sociale in Francia 1870-1871, Opere complete, vol. VII, 1993

Post-scriptum

Ogni popolazione oppressa può diventare una nazione, il negativo fotografico della nazione-oppressore, un luogo in cui l’ex-imballatore è direttore del supermercato, dove l’ex-agente è capo della polizia.

Applicando la corretta strategia, ogni agente di polizia può seguire l’esempio della guardia pretoriana della Roma antica. Gli agenti di sicurezza di un gruppo minerario straniero possono proclamare una repubblica, liberare il popolo e continuare a liberarlo fino a quando il popolo non abbia altro da fare che pregare affinché termini tale liberazione. Anche prima della presa del potere, una cricca può chiamarsi fronte e offrire ai poveri, bastonati dalle imposte e perennemente controllati dalla polizia, qualcosa che ancora manca loro: un’organizzazione che raccatti il bottino e una truppa d’assalto, nella fattispecie più esattori e poliziotti, in ogni caso la loro truppa. In questa maniera le persone possono essere liberate dagli ultimi lineamenti dei loro avi perseguitati; tutte le reliquie che ancora sopravvivono, sorte dall’epoca pre-industriale e dalle culture non-capitaliste, possono finalmente essere estirpate per sempre.

L’idea che la conoscenza dei genocidi, che il ricordo degli olocausti conducano forzatamente le persone a voler smantellare il sistema, è sbagliata. Il fascino persistente del nazionalismo suggerisce piuttosto l’opposto, ossia che la conoscenza dei genocidi ha portato le persone a mobilitare eserciti, generatori di genocidi, che il ricordo degli olocausti li ha indotti a perpetuarli.

[…]

Ogni minuto consacrato al modo di produzione capitalistico, ogni pensiero che contribuisce al sistema industriale, rafforza sempre più un potere che è nemico della natura, della cultura e della vita. La scienza applicata non è estranea; è parte integrante del modo di produzione capitalistico. Il nazionalismo non viene da fuori, ma è un prodotto del processo di produzione capitalistico, come gli agenti chimici che inquinano i laghi, l’atmosfera, gli animali e le persone, come le centrali nucleari che contaminano i micro-ambienti ancor prima di contaminare il macro-ambiente.

Come post-scriptum, desidererei rispondere ad una domanda prima che mi sia posta: «Non credi forse che il discendente di un popolo oppresso se la caverebbe meglio se potesse essere direttore in un supermercato o commissario di polizia?». Risponderei con un’altra domanda: «Qual è il direttore di un campo di concentramento, qual è l’esecutore nazionale o il carnefice che non sia il discendente di un popolo oppresso?».

Fredy Perlman, Il fascino persistente del nazionalismo, 1985