Saronno: Corteo contro la sorveglianza speciale

Riceviamo e diffondiamo:

SABATO 9 LUGLIO ’22
𝗖𝗢𝗥𝗧𝗘𝗢 𝘾𝙊𝙉𝙏𝙍𝙊 𝙇𝘼 𝙎𝙊𝙍𝙑𝙀𝙂𝙇𝙄𝘼𝙉𝙕𝘼 𝙎𝙋𝙀𝘾𝙄𝘼𝙇𝙀
𝗼𝗿𝗲 𝟭𝟳.𝟬𝟬 𝗽.𝘇𝘇𝗮 𝗖𝗮𝗱𝘂𝘁𝗶 𝗦𝗮𝗿𝗼𝗻𝗻𝗲𝘀𝗶, 𝗦𝗔𝗥𝗢𝗡𝗡𝗢

Che nessun leader spenga la fiamma della rivolta, recitava uno scritto diffuso a Barcellona nel 2019 durante le proteste e gli scontri, contemporanei alla rivolta di Hong Kong, cui si richiamavano.
Allargando lo sguardo si può vedere come negli ultimi anni il mondo sia stato scosso da rivolte e ribellioni, dalla Francia al Cile, da Hong Kong a Barcellona, dal Libano alla Colombia fino all’Italia, che hanno fatto tremare l’ordine di questo eterno presente fatto di disastri ed emergenze. A ogni latitudine è emersa chiaramente la volontà di non avere leader, di non essere rappresentati, di non voler avanzare richieste e, dall’altro lato, si è manifestato il bisogno di incontrarsi, di trovarsi, di esprimere un totale e netto rifiuto per una vita fatta di sfruttamento, oppressione, isolamento e competizione.

Le misure messe in atto con la gestione della pandemia sono state anche funzionali al soffocamento di queste ribellioni.
L’abbiamo visto durante il lockdown, quando ad essere duramente represse sono state le azioni di solidarietà e supporto nei confronti dei detenuti che, per la mancanza di protezione e di copertura sanitaria, oltre che per la limitazione dei colloqui, davano fuoco alle sezioni distruggendole. L’abbiamo visto, altresì, con la violenza ordinaria della polizia sui lavoratori in sciopero, questa volta moralmente assolta dallo stato d’emergenza.
Invocando il sacrificio, presentando ciascuno come un pericolo per l’altro – basti pensare all’idea di distanziamento sociale – sono state create comunità fittizie e passive che cantavano l’inno nazionale dai balconi rimanendo in casa e siamo stati spinti a sempre più rinunce. È la stessa retorica che viene ora utilizzata per la guerra e per gestire le conseguenze della crisi economica. Retorica che sovrappone in entrambi i casi il concetto di comunità – inteso come comunanza di persone con un sentire comune –, a quello di società, questa società civile volutamente annichilita e i suoi sistemi oppressivi in cui non solo non ci riconosciamo, ma di cui non ci sentiamo di voler fare parte né di difendere.
Sempre più, chiunque poteva essere indicato come un pericolo per l’altro e chi non si è sottoposto ciecamente a regole arbitrarie e insensate, abbia espresso dubbi o contrarietà è stato additato come nemico della società, da isolare e deridere quando non da punire. Lo testimoniano le multe-covid comminate in grandissimo numero a tutti coloro che decidevano di rompere in qualunque forma.

L’introduzione del green-pass ha accelerato pratiche di controllo che già da tempo venivano sperimentate e implementate.
Chi ha riempito le piazze e bloccato le strade per dire no a questo ulteriore dispositivo, che prevede una selezione per l’accesso a ogni luogo di vita, è stato represso attraverso strumenti già esistenti proprio per allontanare soggetti sgraditi dalle città o da alcune porzioni di queste (fogli di via e DASPO urbano, che ultimamente hanno trovato un incremento con il cosiddetto DASPO Willy, che ha selezionato e reso off limits molti luoghi e zone della città ai ragazzi che vivono nelle periferie).
Questa gestione non è rimasta senza risposte, sia individuali che collettive.

I cortei, inizialmente vietati per ragioni di ordine sanitario, sono stati poi proibiti, senza soluzione di continuità, per ragioni di ordine pubblico, ma le manifestazioni e il bisogno di trovarsi in strada sono rimasti.
Le proteste contro il coprifuoco e alcune piazze no green-pass hanno espresso, certamente in piccolo, quello che si stava respirando in giro per il mondo, il bisogno di affermare con forza un no, rivolto non solo a un nuovo mezzo di controllo, ma a tutto un modo di vivere, di rompere l’isolamento, di incontrarsi con altri, di prendersi le strade e decidere insieme dove andare. In alcuni casi da queste sono nate esperienze più durature di confronto, sostegno, mutuo aiuto e desiderio di affrontare il presente lottando insieme, di smascherare la continuità tra lo stato di emergenza sanitario e quello di guerra. La repressione di tutto ciò che si muove in questo senso, per rompere la staticità mortifera di un presente fatto di disastri e guerre e, conseguentemente, di un impoverimento generalizzato sempre più gravoso.

I carabinieri di Busto Arsizio hanno fatto partire la richiesta di sorveglianza speciale per un nostro compagno per la durata di 3 anni. Chi è sorvegliato deve rispettare una condotta decisamente rigida e invadente in ogni ambito della quotidianità. Sono precluse alcune frequentazioni, partecipazione a manifestazioni e assemblee, può essere previsto il rientro notturno o l’obbligo di dimora in un comune, ogni spostamento deve essere comunicato e segnato sul documento del sorvegliato speciale che rimpiazza la carta d’identità. Soprattutto, la sorveglianza speciale potenzialmente può essere reiterata all’infinito. Tutto ciò senza l’imputazione di reati specifici ma solo sulla base di una generica condotta, sulla presunta pericolosità sociale provata in questo caso dalla storia del nostro compagno che da anni si spende attivamente all’interno di percorsi di lotta nel territorio.
Arresti, perquisizioni, denunce, operazioni in ambito penale sono sempre più spesso giustificate dall’esigenza di distruggere legami di solidarietà e complicità e di prevenire un intensificarsi dei conflitti; le misure di prevenzione, tra cui la sorveglianza speciale, basano la loro applicabilità sul concetto di pericolosità sociale, che oggi può essere estesa a ogni comportamento, o addirittura idea, che non si conformi totalmente alla passività imposta dal governo. Non si può non pensare che se esiste una sorveglianza speciale, significa che siamo tutti sorvegliati normali e cioè tutti potenzialmente pericolosi.
L’esigenza di indicare qualcuno che più degli altri costituisce un pericolo e va pertanto ristretto, controllato e isolato ci dice che ciò che inquirenti, media, polizia, governo devono in ogni modo negare è che a volersi incontrare nelle piazze, a voler bloccare le strade e il flusso di una vita che corre verso la rovina, a non abbassare la testa, a dire no, a dire basta, a lottare, sono veramente in tante e tanti, che agiscano individualmente o che abbiamo incontrato qualcuno con cui farlo.
La formulazione sempre più frequente di imputazioni penali per istigazione a delinquere non fa che confermarlo: bisogna sempre postulare l’esistenza di qualcuno che istiga, capeggia o decide perché arduo sarebbe ammettere che in questo mondo altro non resta a chi vuole lottare che incontrarsi e organizzarsi.

Inoltre, le accuse pesantissime inflitte ai compagni accusati di aver scritto o redatto libri, riviste, raccolto documenti storici – contiamo una sorveglianza speciale, diverse operazioni per associazione sovversiva con finalità di terrorismo e stampa clandestina – fino a giustificare il trasferimento di un compagno in regime di 41bis per aver continuato dal carcere a scrivere, e diffondere il suo pensiero, oltre a dare un idea dell’aria che tira, ci mostrano quanto ad essere sotto minaccia sia qualsiasi fioca voce potenzialmente innescante che si sollevi in un momento in cui la vita si farà sempre più dura per tutti.
Per questo, contro la repressione del dissenso, che va dalla criminalizzazione di ogni visione dissidente che sia espressa tramite scelte di comportamento, scritti, azioni, contro ogni tipo di sorveglianza e tanto più di quella che non si vergognano definire speciale, per ribadire tutti i motivi che ci hanno spinto nelle piazze no green-pass, nelle manifestazioni e nelle assemblee contro la guerra, nel sostenere le realtà territoriali contro l’inquinamento mortifero, dei lavoratori in lotta, dei giovani ribelli, per riaffermare la gioia dell’incontro e la forza della nostra unione TORNIAMO IN STRADA!

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