Lettera di Giannis Michailidis dal carcere di Malandrinos
Dopo otto anni e mezzo di carcere, dopo tutte queste azioni arbitrarie contro di me, ho deciso di mettere uno stop ai miei undici anni di sofferenza, fermando questa prassi della carcerazione preventiva o delle altre punizioni inflitte dalla fuga, solo tramite delle scappatoie legali.
Dopo una condanna ad altri cinque mesi di detenzione preventiva, ho iniziato lo sciopero della fame per ottenere il mio rilascio. Questa scelta, che ha come motivazione profonda la tanto desiderata libertà, la sosterrò con la stessa coerenza con cui ho sostenuto le mie scelte finora e per le quali sono perseguitato.
“Guai a chi accetterà la prigione come condizione di vita,
e dalla luce del sole più splendente, il più piccolo raggio”
– Il grido d’allarme del carcere di Alikarnassos in rivolta.
Per 11 anni ho sperimentato la vendetta dello Stato contro le scelte in linea con i miei valori e le mie idee.
Il difficile percorso, del quale scelgo di condividere qui alcuni chiari atti di libero arbitrio vendicativo nei miei confronti, è iniziato nel lontano 2011, quando è stato emesso un mandato di arresto nei miei confronti in un caso riguardante la Cospirazione delle Cellule di Fuoco, dal quale sono stato assolto non esistendo neanche il più minimo collegamento tra me e le accuse contro di me. Successivamente mi incriminano per aver mantenuto una relazione solidale con alcuni anarchici latitanti e vengo messo con loro, nel momento del loro arresto.
Dopo due anni di latitanza, anch’io ho varcato le pesanti porte del carcere, il mandato di cattura che pendeva sulla mia testa, con accuse per oltre dieci anni mi ha portato a determinate scelte e ad alcuni conseguenti errori.
Come compagni che fummo arrestati all’epoca della rapina in banca a Velvetò, a Kozani, abbiamo subito torture dalla polizia, che è cosa comune, e il Ministero per Ordine Pubblico fece pubblicare i nostri volti tumefatti, il che ha provocato una reazione nell’opinione pubblica.
Naturalmente, il cieco sistema giudiziario greco, non ha accusato nessun poliziotto per queste torture.
Dopo un anno e mezzo, mentre i 18 mesi stavano per finire, sono stato sommerso da un altra richiesta di carcerazione preventiva per alcune azioni della Cospirazione delle Cellule di Fuoco, un fascicolo conteneva il mio nome come partecipante ad atti a cui non ero collegato, nemmeno con una singola prova o testimonianza. Naturalmente, poiché il lavoro sporco era già stato fatto e io ero stato condannato per la rapina in banca, sono stato infine assolto.
Questa particolare strategia di detenzioni multiple senza prove e di frammentazione dei singoli casi è lo strumento con cui lo Stato si assicura che i prigionieri anarchici rimangano in carcere senza processo anche dopo la scadenza del limite massimo di 18 mesi di detenzione, mentre gli assassini fascisti godono della libertà subito dopo la scadenza del periodo di detenzione di 18 mesi.
Sono stato condannato anche, da una giustizia cieca, per tentato omicidio colposo nei confronti di un agente di polizia, nonostante fossi disarmato al momento dell’incidente; secondo l’accusa, avrei tentato di ucciderlo usando l’auto della polizia che avevo rubato per sfuggire all’arresto.
Il culmine dell’arbitrarietà giudiziaria, è la mia condanna ad altri 11 anni di carcere per possesso di munizioni, trovate in casa del compagno Dimitris Politis, che ha subito dichiarato essere unicamente di sua proprietà, e invece adducono una inconcepibile motivazione secondo la quale entrambi le possedevano per commettere atti di “terrorismo individuale”, ognuno separatamente e per conto proprio.
Per la cronaca, a tutt’oggi, questo caso e le pesanti condanne che ha comportato rimangono l’unica applicazione della legge sul terrorismo individuale nelle cronache giudiziarie greche. Il fatto che questa ridicolaggine senza precedenti sia stata confermata anche dalla Corte Suprema dimostra fino a che punto la magistratura “indipendente” sia intrecciata con le direttive dei partiti e del governo e quanto sia diventato comune istituire dei casi utilizzando scappatoie legali.
Diciamo qualche parola sul “sacro” processo educativo nel contesto dell’istruzione penitenziaria. Dopo lo sciopero della fame del compagno Nikos Romanos, al quale ho avuto l’onore di partecipare per solidarietà, è stato conquistato il diritto al “permesso di istruzione” per tutti i detenuti, indipendentemente dal loro status. Così, dopo ritardi e procrastinazioni, passati 5 anni di prigionia sono riuscito a frequentare i corsi della scuola di Agraria di Atene per 1 anno e mezzo. A 6 anni e mezzo, e dato che sono già in un carcere agricolo e avendo già ricevuto molti permessi scolastici per muovermi da li, il procuratore di Tirinto decide che la mia università è lontana e quindi taglia i miei permessi. Mi illudono che mi daranno un permesso per l’esame, cosa che non avviene. Mi viene poi comunicato che mi taglieranno anche i permessi regolari, sempre con un cavillo legale, il che significava che sarei tornato a stare chiuso in carcere perdendo il mio prezioso stipendio, e sono spinto a fuggire di nuovo. Dopo essere stato ricatturato e aver fatto richiesta di trasferimento a Korydallos per motivi educativi, come previsto dalle loro leggi, il KEM (Comitato Centrale per i Trasferimenti), non potendo respingere le mie richieste, decide di non rispondere. Nonostante siano “obbligati” per legge a rispondere entro 40 giorni… io sto ancora aspettando… E nonostante abbia seguito tutti i corsi teorici della mia scuola in condizioni avverse (per i laboratori è richiesta la presenza fisica, che a quanto pare non mi è consentita).
Il 29 dicembre 2021, dopo aver scontato i 3/5 della mia pena di 20 anni e i 2/5 della pena per l’evasione, per un totale di 8 anni e 3 mesi di pena effettivamente scontata, la cancelleria del carcere mi chiama per firmare la domanda di libertà condizionale come stabilito.
Arriviamo ora all’ultimo episodio. Mi sono trovato a mia volta di fronte al classico meccanismo carcerario, quello di vendicarsi dei detenuti non sottomessi rifiutando di concedere la libertà condizionata, nonostante la condizione essenziale di dover completare con successo il mio percorso scolastico (impedendomi di completarlo) e il fatto di aver già trovato un lavoro. Ancora una volta, con una scappatoia legale. Questa volta con l’argomento della potenziale pericolosità… come misura precauzionale. Poiché non è passato abbastanza tempo perché io possa essere “riabilitato” e corretto… Assurdità ovvie a cui non credono nemmeno loro, ma che riproducono in modo processuale mutilando la vita di tanti detenuti. Naturalmente alle persone veramente pericolose e recidive, come gli stupratori, non vengono posti questi limiti perché, soggetti ignobili quali sono, collaborano perfettamente con il sistema correzionale e beneficiano della liberazione anticipata e della libertà vigilata. Le persone pericolose sono solitamente descritte come coloro che hanno fatto la dignitosa scelta di evadere, che la legge non dovrebbe punire severamente perché la legislazione riconosce che è normale per ogni essere umano affermare la propria libertà. Per questo motivo i funzionari del sistema non sono soddisfatti dell’applicazione della legge e ne ampliano l’interpretazione.
La scappatoia legale è la regola del funzionamento del sistema. I giudici che la attuano sono stati probabilmente nominati in qualche modo come tirapiedi dal partito, costruendo carriere sulle spalle dei poveri prigionieri che mandano al patibolo con grande facilità, distribuendo anni come ceci, mentre enormi somme di denaro passano attraverso i grandi avvocati per far rilasciare o addirittura non imprigionare quelli che ce l’hanno. Così come i loro stessi figli, per i quali esistono molte scappatoie legali per uscire…
Come il poliziotto Korkoneas, assassino del compagno Alexandros Grigoropoulos, che la mafia giudiziaria si è affrettata a rilasciare in anticipo, provocando però un’ampia opposizione che ha fatto sì che lo incarcerassero nuovamente.
Come i poliziotti che hanno ucciso Nikos Sampanis a sangue freddo a Perama.
Come gli agenti penitenziari che hanno torturato a morte Ilir Kareli e che sono stati assolti.
Come la signora Vlahaki, coinvolta nello scandalo milionario di Energa, che è evasa tagliandosi il braccialetto e che ha trascorso pochissimo tempo in carcere, ottenendo la libertà condizionata immediata.
Come Fourthiotis, che grazie alle lusinghe del Ministero della Giustizia è riuscito a uscire di prigione dopo 6 mesi, ma poi è stato nuovamente incarcerato, visto che ha reso evidenti i panni sporchi del governo.
Come Vaggelis Marinakis, che è stato scagionato dalle accuse per 3 tonnellate di eroina con la motivazione che un importante uomo d’affari come lui non poteva essere associato a una cosa del genere. Quest’ultimo esempio, anche se non sono in grado di conoscere la sua colpevolezza o meno, e non mi interessa, è di particolare importanza proprio perché dimostra nel modo più chiaro possibile la natura classista del sistema giudiziario. Naturalmente, se un consumatore viene arrestato per possesso di una piccola quantità di droga e si trova in un gruppo di tre persone, viene condannato in base al cavillo legale dell’organizzazione criminale (ed è così che la Grecia ha più organizzazioni criminali dell’Italia o del Messico).
Se dovessi fare tutti gli esempi, dovrei scrivere un intero libro, non so di quanti volumi, quindi arrivo all’essenza di questa lettera. Dopo 8 anni e mezzo di carcere, dopo tutte queste azioni arbitrarie contro di me, ho deciso di porre fine ai miei 11 anni di sofferenza erigendo una barricata alla pratica della carcerazione preventiva, o alla pena aggiuntiva della fuga per cavilli legali. Dopo altri 5 mesi di detenzione preventiva, ho iniziato uno sciopero della fame per il mio rilascio. Questa scelta, con la profonda motivazione della tanto desiderata libertà, intendo sostenerla con la stessa coerenza con cui ho sostenuto le mie scelte fino ad ora e per le quali vengo punito per vendetta.
È mio profondo desiderio che questo sciopero della fame diventi un ulteriore innesco per il rilancio della lotta complessiva contro il capitale e gli Stati. Il sistema capitalista che concentra metà della ricchezza della terra in un’élite dell’1% mentre impoverisce rapidamente il resto, schiavizzando le anime viventi, non solo della nostra specie, alla tortuosa condizione della produttività industriale. Le sue corporazioni, in competizione per il saccheggio delle risorse naturali, impoveriscono il mondo naturale e portano il pianeta sull’orlo del cambiamento climatico, causando la più grande estinzione di specie viventi da milioni di anni. L’organizzazione statale della società, presentata come necessaria dai suoi amministratori di destra e di sinistra, e la sua struttura sociale centralizzata impongono una schiavitù generalizzata e garantiscono la redditività del capitale.
Gli Stati, a ovest e a est, il cui monopolio della violenza legittima spazza via intere popolazioni, sia con armi di distruzione di massa ultramoderne, sia strumentalizzando la fame distruggendo le infrastrutture, come in una serie di recenti conflitti in Palestina, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen, Ucraina. Le alleanze internazionali che hanno trasformato la Terra in una polveriera di testate nucleari che minacciano di farla letteralmente esplodere, dimostrano che gli Stati sono i veri terroristi.
Con l’attacco generalizzato che gli Stati e il capitale hanno sferrato a tutti gli esseri viventi, compresa la nostra specie, è quanto mai necessario e opportuno organizzare e far avanzare la nostra resistenza, rifiutando qualsiasi forma di organizzazione gerarchica che renda la lotta vulnerabile alle manipolazioni producendone o la riproduzione del sistema o la sua assimilazione.
L’affinamento e l’unificazione dei singoli aspetti della lotta contro le macchine statali attraverso reti decentrate di eco-comunità e comunità di lotta è lo strumento chiave della radicalizzazione in direzione dell’indebolimento della dipendenza delle persone dal sistema industriale capitalista che sta distruggendo la terra e minacciando la loro stessa sopravvivenza.
Ecco perché, in un momento così critico, la battaglia che sto conducendo per la mia libertà la intendo anche come un disperato tentativo di partecipare alla lotta più ampia da cui la mia lunga prigionia mi ha tagliato fuori. Per questo non voglio riferirmi solo al movimento ma piuttosto mi propongo di ricollegare la lotta per la liberazione degli anarchici imprigionati alle idee che li hanno portati a scontrarsi con il sistema e che hanno causato la loro incarcerazione. Non cerco infatti l’interesse di nessuno in quanto vittima della repressione statale, ma come soggetto sociale e politico attivo che vede la propria condizione di reclusione come parte dell’attacco dello Stato e del capitale a coloro che vi si oppongono consapevolmente.
Mi riferisco piuttosto ad un rapporto di solidarietà rivoluzionaria sulla base di obbiettivi comuni e di una lotta comune da differenti angolature che coordini la rabbia sentita da diverse persone che vivono condizioni diverse ma per le stesse cause.
E infine, sapendo che è possibile che questo sciopero sia l’ultima parte del mio percorso, desidero dargli proprio quella dimensione che mi rappresenta nella sua totalità:
La lotta per la libertà di uno, la lotta per la libertà di tutti…
…fino alla distruzione dell’ultima gabbia
Giannis Michailidis,
detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Malandrinos
23/5/2022