Promemoria: i prodromi del “Pianeta Smart” di IBM. Un test statistico chiamato Shoah
Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.
In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.
Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).
Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.
Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.
Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.
Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.
Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documentazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.
Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.
I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.
Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.
In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.
L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.
Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.
(“il manifesto”, 14/02/01)