Risiko, versione 5.0
A proposito delle responsabilità di USA e NATO nella guerra in corso in Ucraina, pubblichiamo questo interessante articolo uscito su “ilponterivista.com” il 19 marzo.
Risiko, versione 5.0
Non essendo esperta politologa, mi limiterò a elencare una serie di fatti relativi a quella che Mosca ha inizialmente definito una “operazione speciale” in Ucraina, sulla falsariga degli “interventi” in Iraq, Libia e Siria, ma subito chiamata “invasione” dall’Occidente e ora diventata “attacco” anche per “Russia Today”. Per una volta tanto non partirò dal 2008, ma dall’aprile 2019, quando la Rand Corporation pubblica un documento dal titolo Overextending and Unbalancing Russia. Assessing the impact of cost-imposing options (Sovraccaricare e sbilanciare la Russia. Valutare l’impatto di opzioni che impongono costi). Il documento completo è consultabile sul sito della Rand. Il giornalista Manlio Dinucci lo aveva ampiamente descritto in un articolo su «il manifesto», che però deve averlo ritenuto troppo osé e dopo averlo per breve tempo pubblicato online lo ha fatto sparire. La Rand è una think tank “no profit” e “no partisan”, finanziata (come si ricava dal sito ufficiale, con tanto di importi in dollari) tra l’altro da governi statali e locali Usa, agenzie governative statunitensi tra cui il Dipartimento della sicurezza nazionale, servizi segreti, organizzazioni internazionali tra cui la Nato, il Pentagono e varie industrie. Tra i clienti risultano, oltre al Dipartimento di Stato e i servizi segreti Usa, il Parlamento europeo, l’Agenzia europea per la difesa, la Nato, l’Ocse, la Banca mondiale e molti altri, tra cui non mancano Arabia saudita e Taipei.
Riporto alcuni passi interessanti: «Il rapporto esamina in modo completo le opzioni non violente e costose che gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero perseguire in aree economiche, politiche e militari per sovraccaricare e sbilanciare l’economia e le forze armate russe e la posizione politica del regime in patria e all’estero.
[…] Il lavoro si basa sul concetto di concorrenza strategica a lungo termine sviluppato durante la guerra fredda, in parte originato dalla Rand. Un fondamentale rapporto Rand del 1972 postulava che gli Stati Uniti dovessero spostare il loro pensiero strategico dal cercare di sopravanzare l’Unione Sovietica in tutte le dimensioni verso il tentativo di controllare la concorrenza e incanalarla nelle aree vantaggiose per gli Usa. Se questo avesse successo, concludeva il rapporto, gli Stati Uniti potrebbero spingere l’Unione Sovietica a spostare le sue limitate risorse in aree che rappresentano una minaccia minore. La nuova relazione applica questo concetto alla Russia di oggi» (sì, dice proprio così, anch’io non potevo crederci).
Si prosegue elencando le possibili opzioni, con tabelle riassuntive sui costi/benefici. Tra l’altro:
«l’espansione della produzione di energia degli Stati Uniti» limiterebbe potenzialmente il bilancio di governo russo e la sua spesa per la difesa;
«l’imposizione di sanzioni commerciali e finanziarie più profonde degraderebbe anche l’economia russa, soprattutto se tali sanzioni sono globali e multilaterali. Pertanto, la loro efficacia dipenderà dalla volontà di altri paesi di partecipare a tale processo. Ma le sanzioni comportano dei costi e, a seconda della loro gravità, dei rischi considerevoli»;
«aumentare la capacità dell’Europa di importare gas da fornitori diversi dalla Russia potrebbe sovraccaricare economicamente la Russia e proteggere l’Europa dalla coercizione energetica russa».
Si prendono poi in considerazione le misure geopolitiche:
«fornire aiuti letali all’Ucraina» avrebbe alti benefici ma altrettanto alti rischi perché «qualsiasi aumento in armi e consulenti statunitensi dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia per sostenere il suo attuale impegno senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi». Viene escluso un rovesciamento di regime in Transnistria, troppo costoso «per gli Stati Uniti e i suoi alleati».
Per quanto riguarda le misure ideologiche, l’opzione migliore, che presenta moderate probabilità di successo, così come moderati costi e benefici è quella di «minare l’immagine della Russia all’estero». «Ulteriori sanzioni, la rimozione della Russia dai forum internazionali non Onu e il boicottaggio di eventi come la Coppa del mondo potrebbero essere attuati dagli Stati occidentali e danneggerebbero il prestigio russo. Ma la misura in cui questi paesi danneggerebbero la stabilità interna russa è incerta».
Tra le misure che impongono costi aerei e spaziali la preferita prevede «il riposizionamento dei bombardieri entro un facile raggio d’azione dai principali obiettivi strategici russi»: alta probabilità di successo, benefici moderati ma bassi costi e rischi. Un buon successo potrebbe avere il dispiegamento «di ulteriori armi nucleari tattiche in località europee e asiatiche», ma i rischi sono alti perché «potrebbe portare Mosca a reagire in modi contrari agli interessi degli Stati Uniti e degli alleati». Altre misure prendono in considerazione le forze navali statunitensi, l’aumento delle forze statunitensi in Europa e della capacità di forze di terra della Nato in Europa (basso successo, ma alti benefici e basso costo), il dispiegamento di un gran numero di forze Nato al confine russo (moderato successo e benefici, ma alto rischio) e l’aumento delle esercitazioni Nato in Europa (che dovrebbero però inviare segnali rischiosi per suscitare una costosa risposta russa).
Le conclusioni individuano come opzioni più promettenti quelle che «incidono direttamente sulle vulnerabilità, ansie e punti di forza della Russia, sfruttando le aree di debolezza mentre minano gli attuali vantaggi». E la più grande vulnerabilità è l’economia, «relativamente piccola e fortemente dipendente dalle esportazioni di energia». Va comunque tenuto in considerazione il fatto che «la maggior parte delle opzioni discusse […] sono in un certo senso escalation e probabilmente richiederebbero una contro-escalation russa», inoltre sia gli Usa sia la Russia dovrebbero dirottare le risorse nazionali da altri scopi, per cui le opzioni «devono essere considerate nel più ampio contesto della politica nazionale basata su difesa, deterrenza e – ove gli interessi di Usa e Russia coincidono – cooperazione».
Il documento è pubblico, quindi l’avranno letto a Mosca e anche a Pechino, tirandone le proprie conclusioni.
I fatti successivi: nel marzo 2021 Biden, da poco insediato, accusa Putin di essere un killer (appeasement, versione 0.0), con conseguente crisi nei rapporti diplomatici tra i due paesi; Mosca aumenta la pressione sul Donbass, ammassando truppe al confine con l’Ucraina. In giugno e dicembre si tengono due vertici tra Biden e Putin, in cui vengono definite le rispettive “linee rosse” e si parla di Ucraina e allargamento della Nato a est. Intanto si svolgono esercitazioni militari Nato a giugno, luglio e settembre e in Georgia a fine luglio (queste ultime con militari ucraini). Nel Mar Nero si tengono esercitazioni nel maggio e da aprile a fine giugno quelle chiamate «Defender Europe», presso i territori dei Paesi Baltici, Nord Africa e Balcani. Dal 28 giugno al 10 luglio si svolgono esercitazioni denominate «Sea Breeze» nell’area nord-ovest del Mar Nero, capeggiate da Washington e Kiev, con 17 paesi membri Nato e circa 15 Stati partner. Il settembre dello scorso anno, si apre con il vertice Biden-Zelensky; in agenda l’aggressione russa, il supporto militare Usa e l’integrazione euro-atlantica. Dal 13 al 19 si è svolta un’esercitazione militare Nato-Ucraina presso Odessa, per «contrastare le sfide ibride presenti nella regione del Mar Nero». Dal 20 settembre al 1° ottobre Ucraina e Stati Uniti avviano l’operazione «Rapid Trident», con 6.000 soldati di 15 paesi Nato, tra cui l’Italia, e partner (tra cui Georgia, Giordania e Pakistan), «un passo importante verso l’integrazione europea» secondo un generale ucraino, dove per la prima volta si sono tenute esercitazioni tattiche a fuoco vivo. Le esercitazioni si sono tenute nella base di Yavoriv, ufficialmente denominata «Centro internazionale per la pace e la sicurezza», dislocata a 25 km dalla Polonia su una estensione di 360 km quadrati e bombardata dalla Russia il 12 marzo scorso. Tra i morti (numero imprecisato, forse 35) e feriti (130) ci sono stati diversi cittadini olandesi, come confermato dal coordinatore della Legione straniera dei Paesi Bassi; 4 portoghesi «con esperienza militare» risultano “irraggiungibili” e per ora non si sa se hanno trovato campo per il cellulare. Rainews ha titolato il tutto “La Russia attacca la base dei peacekeepers”. Dal canto loro Russia e Bielorussia avevano tenuto una massiccia esercitazione congiunta dal 10 al 16 lungo il confine con la zona Nato, la Zapad 2021, con nientemeno che 200.000 soldati, 80 velivoli militari, 290 carri armati e 15 navi da guerra e la Polonia ha avviato, il 10, esercitazioni su larga scala.
In precedenza, in aprile, Biden aveva posticipato il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan dal 1° maggio, come deciso da Trump, all’11 settembre; a inizio luglio, nello sconcerto generale, annuncia invece che il ritiro si sarebbe concluso il 31 agosto, con le ben note conseguenze.
Nel 2021 il bilancio della Difesa statunitense aveva previsto 250 milioni di dollari come «pacchetto di aiuti militari», con un ulteriore pacchetto di 60 milioni previsto dopo l’incontro Biden-Zelensky del primo settembre, che includerebbe anche i missili anticarro Javelin. Inutile proseguire con l’elenco di armi e finanziamenti Usa all’Ucraina, in continua crescita, come d’altra parte gli aiuti da parte della Ue dell’Italia, su cui vige il segreto militare. Attualmente il nostro paese destina l’1,4% del Pil alla difesa ma l’impegno della Camera del 16 marzo è di arrivare al 2% richiesto dall’Alleanza atlantica, «dando concretezza a quanto affermato dal presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, a tutela degli interessi nazionali, anche dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici».
Per restare ai fatti nostri, è invece interessante notare come il bilancio della Difesa per il 2022 sia già cresciuto di 1.372,9 milioni di euro rispetto all’anno precedente, per un totale di spesa di 25.956,1 milioni, a cui vanno aggiunti gli stanziamenti di altri ministeri come il Mise. Lo scorso 29 settembre il lungimirante Draghi, presentando il Nadef in vista della legge di bilancio, dichiarava: «ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora». La spesa militare è in crescita dal 2017, con buona pace della pandemia e arriverebbe a 38 miliardi l’anno a seguito dell’impegno di destinarvi il 2% del Pil. Tutto questo nell’ottica di un nuovo tipo di rapporto tra Forze armate e industria, non più del tipo “cliente- fornitore” ma “sistema di difesa”, secondo la «Direttiva per la politica industriale della Difesa» emanata dal ministro Guerini il 29 luglio scorso. Come se non bastasse, l’Italia si appresta ad assumere il comando della missione Nato in Iraq, a seguito del programmato ritiro delle forze americane, per cui si era candidata nel febbraio dello scorso anno e che dovrebbe avere inizio nel prossimo maggio. Previsione di spesa non pervenuta, ma dal 2003 al 2021 il costo dell’impegno italiano in Iraq ha raggiunto i 3 miliardi e 275 milioni, cui vanno aggiunti 418 per costi indiretti proporzionali alle singole missioni. Per questa nuova impresa, i comandi militari italiani hanno chiesto di armare i droni con missili aria terra e bombe a guida laser e di dotarsi di droni “kamikaze”, che si autodistruggono quando colpiscono l’obiettivo.
La legge di bilancio approvata dal Parlamento prevede un aumento di 2 miliardi per la sanità e di 900 milioni per la scuola.
Dietro questo scenario da Risiko non proprio virtuale, incombe lo spettro del terzo incomodo, la Cina, che per ora sembra se ne stia sulla riva ad aspettare i cadaveri che passano, pronta comunque a scendere in acqua se il cadavere torna utile. Senza stare a elencare le solite esercitazioni militari dell’una e dell’altra parte intorno a Taiwan e nel mare delle Filippine, è intrigante, come si dice ora, ricordare alcuni semplici fatti, e cioè che dallo scorso anno la Cina ha fatto freneticamente incetta di grano e mais. Come conseguenza, e come già segnalato dalla Fao, si è avuto un notevole aumento dei prezzi alimentari, soprattutto da ottobre in poi. Lo stesso direttore della Amministrazione nazionale delle riserve alimentari e strategiche, Qin Yuyun, ha dichiarato lo scorso ottobre che nel suo paese le riserve di cereali erano a un «livello storicamente elevato» e che le scorte di grano erano ormai sufficienti a garantire il fabbisogno interno per un anno e mezzo. Nel 2020 la Cina ha speso 98,1 miliardi di dollari in importazioni alimentari e tra il gennaio e settembre 2021 ha importato più cibo di quanto avesse mai fatto dal 2016. Sempre lo scorso anno il Wh Group, principale operatore cinese nel settore carni e indirettamente controllato dal governo, ha acquisito aziende in Germania, Polonia e Olanda, con un aumento da due a cinque volte in più rispetto al passato delle importazioni di carni bovine e suine. Nella prima metà di quest’anno la Cina si garantirà il 69% di riserve mondiali di mais, il 60% di quelle di orzo e il 51% di grano. Durante le Olimpiadi invernali ha inoltre approvato le importazioni di grano e orzo da tutte le regioni russe, mentre in precedenza – dallo scorso ottobre – aveva aperto alle esportazioni solo dalle estreme regioni orientali. In molti si sono interrogati su cosa facesse la Cina, ma hanno risolto il problema pensando a una manovra speculativa dei soliti cinesi, all’impatto dei cambiamenti climatici o al timore di un riacutizzarsi della pandemia. Nel gennaio scorso qualcuno comincia ad accorgersi di queste non tanto oscure manovre cinesi, tra cui la Coldiretti, che le attribuisce alla pandemia, e la Commissione europea, a seguito di una richiesta di Tajani per ForzaItalia-Ppe di intervenire sui prezzi agricoli e le criticità conseguenti alle politiche aggressive di Pechino, ma con un niente di fatto.
Con lo scoppio del conflitto in Ucraina, e col senno di poi, ora sono in molti a porsi delle domande (i cinesi sapevano qualcosa in anteprima?) e a temere un consolidamento del blocco russo-cinese. Quel che è certo è che gli occidentali non riescono, con tutta la buona volontà e l’aiuto delle think tank, a capire a fondo il pianeta Cina, così “diverso” da restare sostanzialmente alieno.
Finiamo con l’ultimissimo showdown di Nato & Co., cioè l’annunciata esercitazione Cold Response in Norvegia, 14 marzo-1° aprile, in un’area vicina alle basi di sottomarini e bombardieri russi della penisola di Kola. 27 i paesi coinvolti, incluse Svezia e Finlandia, 30.000 soldati, 220 aerei, 50 navi e chi più ne ha più ne metta. L’Italia partecipa con la portaereomobili Garibaldi, con a bordo i fucilieri della San Marco di Brindisi, che fa tanto Marine Corps, e un’aliquota di un reggimento alpino perché ci fa freddo.
Attendiamo le prossime mosse.
What? Over? Did you say ‘over’? Nothing is over until we decide it! […] Hell, no! It ain’t over now, ’cause when the going gets tough, the tough get going… (Animal House, 1978).
Patrizia Bernardini