Alla brutalità della guerra
Alla brutalità della guerra
Alla brutalità della guerra, e mi rivolgo a chi è ancora in grado di “sentirla”, occorre rispondere attingendo al meglio della sensibilità, dell’empatia e della solidarietà umana: ma come dirlo, come agirlo, l’abisso etico che ci separa dai signori degli eserciti – se non con la radicalità di un’insurrezione antimilitarista?
Mi fanno pena, e rabbia, tutte le ciniche algide analisi geopolitiche da cui, stringi stringi, si deduce che “il nemico del mio nemico è mio amico”: logica che accomuna tanto i democratici filo-atlantisti che puntano il dito contro l’autocrazia russa (pronti a far valere nella vicenda ucraina i princìpi che evidentemente non valevano per il Kosovo) quanto i difensori di Putin quale baluardo contro l’imperialismo della Nato (i quali non arrossiscono di vergogna all’idea di solidarizzare con chi ha appena stroncato nel sangue la rivolta del popolo kazhako, né di stare con Lukashenko invece di sostenere le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori in Bielorussia).
Mi fa rabbia, e pena, qualsiasi visione del mondo che arrivi a considerare i civili bombardati come pedine di un risiko inesorabile.
Ma non sarà con un pacifismo ridotto a sola dimensione dello spirito, tanto fiero del suo orizzonte utopico quanto auto-assolventesi rispetto alla sua inefficacia materiale, che quella logica potrà essere combattuta e sconfitta.
Partiamo dai luoghi che abitiamo: diciamo forte e chiaro – rendendolo visibile – che i militari nelle strade non rendono più “sicure” le nostre città ma ne sfigurano irrimediabilmente il volto.
E riflettiamo criticamente su ciò che è stato per non rassegnarci impotenti a ciò che sarà.
A me viene in mente questa considerazione: per due anni di seguito, nel momento più intenso della mobilitazione contro il Muos, siamo riusciti a invadere una base Nato.
Lo rifarei cento volte, ma non mi perdono di non essere riuscito a dare il mio contributo – anche in termini di rischio personale – affinché di quelle manifestazioni non restasse solo una pur degnissima testimonianza. Quelle antenne andavano sabotate, smontate, distrutte. Non esserci riusciti, non averci nemmeno provato fino in fondo, con ogni mezzo necessario, è uno dei limiti che ci si ritorcono contro oggi che qualche idiota arriva a ringraziare Putin per essersi frapposto al dominio statunitense.
Non serve che qualcuno mi ricordi l’ipocrisia con cui in Occidente si ricoprono i propri sporchi affari con la bandiera retorica dei diritti umani: so bene cosa significhi essere alleati dell’Arabia Saudita, o dei militari egiziani – così come so bene quanta logica coloniale ci sia nell’imporre a mezzo mondo il proprio discutibilissimo modello politico, mandando commissari dell’unione europea a vigilare sulla correttezza delle elezioni in Palestina o in Egitto per poi revocarne il risultato non appena il consenso popolare va ai fratelli musulmani o ad hamas.
Serve piuttosto ricordarci che opporsi alla guerra in Serbia non voleva dire stare dalla parte di Milosevic, così come opporsi alla guerra in Iraq non voleva dire scordarsi l’uso dei gas contro i comunisti kurdi da parte del regime di Saddam Hussein.
Il rifiuto di questa mortifera logica binaria si nutre e si alimenta di “gesti altamente esemplari” e di conflitti generativi di possibilità inedite: a Napoli, poco più di 70 anni fa, una rivolta degli abitanti cacciò l’esercito nazista senza aspettare l’arrivo dei carriarmati americani; oggi, in galera con l’accusa di strage formulata da chi di stragi se ne intende per averne ordite di tremende, ci sono compagni accusati di aver piazzato ordigni artigianali per dare fuoco a mezzi militari.
Chiunque voglia battersi davvero contro la guerra, cerchi di non far mancare il suo supporto a chi si è servito del proprio cuore come di una molotov – e provi, da sola da solo o in compagnia, a fare lo stesso. Nei modi e con le pratiche che la propria coscienza gli suggerisce.
Claudio Risitano