Meglio asociali che disumani

Intervento letto durante un’iniziativa tenutasi a Trento, davanti alla biblioteca universitaria, il 3 dicembre scorso.

 

Meglio asociali che disumani

3 dicembre ’21

Parlo a nome di una categoria: la categoria dei “topi da biblioteca senza green pass”.

Per me le biblioteche sono state uno dei luoghi del fuori tema e il fuori tema è molteplicità.

I mondi che ammettono molteplicità di modi dell’esistenza e di forme di conoscenza sono quei mondi che varcano periodicamente i confini tra ordinario e non-ordinario per modificare ciò che nella quotidianità stringe. Ciò che stringe troppo.

La biblioteca dovrebbe essere un luogo largo, aperto a chiunque voglia entrarci per leggere, studiare, prendere un libro in prestito, gironzolare tra gli scaffali, incontrare un amico, riposare, riscaldarsi se la propria casa è fredda o se la casa non c’è proprio.

Ossia: un luogo umano.

Ora per entrarci occorre avere il green pass: occorre venire identificate all’entrata attraverso un codice.

Un mondo fatto di codici identificativi è un mondo stretto e misero: è un mondo che non ammette il non-ordinario e quelle esistenze non conformi in quanto non del tutto anticipabili e controllabili.

Stando davanti a una biblioteca, meglio, alla biblioteca universitaria che per definizione dovrebbe, credo, essere aperta sia concretamente sia metaforicamente, mi risulta inevitabile pensare alla Letteratura: la letteratura quale anticorpo per far fronte alla stretta autoritaria in atto.

La letteratura che è piena di personagge e personaggi che con le loro esistenze non conformi ci hanno appassionato, che mostra mondi possibili e anticipa – anche di gran lunga – istanze di cambiamento radicale e sollecita domande che parlano alle nostre parti più profonde di esseri umani. Domande dal carattere vincolante.

Mi pare che nel mondo della tecnoscienza domande dal carattere vincolante non siano presenti nella misura in cui non possono essere contemplate.  La tecnica è la forma più alta di razionalità che consiste nel raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi e i suoi valori sono l’efficienza e l’efficacia.

Come insegna Günther Anders, nell’Età della tecnica le nostre capacità immaginative non sono in grado di percepire e avvertire dove la tecnica condurrà l’individuo e come lo trasformerà. In essa non c’è spazio per considerazioni di natura etica sul rapporto, ad esempio, tra mezzi e fini.  E all’interno di questa visione, tutto ciò che non è razionalizzabile va eliminato.

Personalmente credo che un mondo improntato alla sola efficienza sia un mondo misero.

Misero da un punto di vista emotivo, etico, immaginativo. Un mondo povero di fantasia e di tensioni utopiche. Un mondo piccolo in cui c’è sempre meno spazio per la molteplicità e per il fuori tema.

Tornando al “fuori tema”.

Il fuori tema – che reputo un’efficace prospettiva per opporsi a una società sempre più stretta – è per me un’eredità femminista: fu una femminista che anni fa mi fece riflettere sull’importanza del “fuori tema”.

Il femminismo è stato fuori tema. In che senso? Nel senso che grazie al movimento femminista, tutto ciò che fino a quel momento era stato fuori tema (ossia: le esperienze della vita, tutto ciò che aveva a che fare con il corpo, le relazioni famigliari), tutto ciò che per secoli era stato considerato “altro”, “non politico” diventa il Tema. Esperienze universali – ma confinate fino ad allora nel privato – vengono portate al centro della politica e della cultura. Ciò fu rivoluzionario, in primis per le donne, ma non solo.

Elevare a Tema il fuori tema non è rassicurante, non è facile, non è popolare.

E oggi scegliere di essere fuori tema significa opporsi ai progetti di estensione del controllo digitale e ai processi di digitalizzazione della società.

È necessario opporre al mondo misero che si sta delineando un mondo in cui siano gli individui e le individue al centro delle loro vite. Non si tratta di scelte facili: come tutte le rotture richiedono coraggio. Un coraggio che è difficile trovare e, tanto più, declinare nell’individualismo che domina il nostro tempo.

Il coraggio spesso lo si trova unendosi.

Ai progetti della tecno-scienza va opposta una visione dell’umano radicalmente diversa: molteplice.

Difendere la molteplicità significa opporre al processo guidato dall’efficacia e dall’efficienza valori per i quali vale la pena rischiare.

E a proposito di valori per i quali vale la pena rischiare, ricordo uno stralcio di un testo di Stig Dagerman: si tratta della risposta che lo scrittore svedese diede a una ragazza, una maturanda, che gli aveva scritto per avere dei consigli su cosa fare una volta finito di studiare.

Dagerman le scrive:

“[…] Conservi finché può quel senso di libertà di cui sta facendo ora esperienza e che sarà il Suo ricordo più importante della scuola, perché quel senso di libertà è la cosa più preziosa che possiede. Se sarà abbastanza intenso La aiuterà più di qualsiasi consigliere nelle questioni della vita e del cuore. […]

Ma qualsiasi cosa decida di fare, non dimentichi mai che non è prigioniera della strada scelta. Ha tutto il diritto di cambiarla, se sente di essere sul punto di perdersi. La vita Le chiederà prestazioni che troverà ripugnanti. Allora dovrà essere consapevole che la cosa più importante non è la prestazione, ma il Suo svilupparsi in una retta e bella persona. Molti le diranno che questo consiglio è asociale, ma Lei potrà rispondere: quando le forme della società si fanno dure e negano la vita, è meglio essere asociali che disumani”.

E infine, conclude, scrivendo:

“Le auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà”.

È urgente unirsi e ostacolare la direzione che sta prendendo il mondo, lottare per quei valori che ci fanno essere umani: come ha scritto qualcuno, l’umanità è un rischio da correre. Accettare passivamente ciò che è ingiusto stringerà le catene a tutti e tutte, noi comprese.

Partiamo da noi.

I gesti di quotidiana rottura sono importanti: andare in piazza, riunirsi collettivamente, rifiutarsi di mostrare il green pass o, ancor meglio, scaricarlo, sono scelte – e responsabilità – personali che poi si trasformano in collettive.

Quindi: incorporiamo le nostre idee in gesti di quotidiana rottura che forzino la norma e la normalità quando esse sono lontane da ciò che crediamo eticamente giusto e umano.

 Sara