Scritto di Anna dal carcere in occasione di una giornata dedicata a Marilù

Ci sono persone che sono un porto sicuro a cui approdare. Marilù ne aveva tutte le caratteristiche, benché spinosa ed ironica nella discussione ed in certi cinici aneddoti delle miserie di movimento, sapeva esser accogliente, sempre e comunque, senza paure e difficoltà. Nel suo raccontare e raccontarsi, fuori dalla retorica di certi suoi scritti che indugiano in un certo compiacimento agiografico nel dipinger ritratti di compagni ed episodi degli anni ’80, dava il meglio nella concretezza quotidiana, con la semplicità di chi ha conosciuto e vissuto le più svariate esperienze. Affioravano così l’onda rivoluzionaria ed i tempi di risacca ed i compagni di una vita di militanza (termine adesso un po’ retro, ma denso di significato sulle sue labbra): dai vecchi partigiani anarchici carrarini descritti in forma antiretorica, nell’atto di disseppellire i loro infracichiti tesori per aiutare i giovani di AR, ai “compagnucci” degli squat romani anni ’90 da supportare nelle occupazioni; da Horst Fantazzini negli scarsi periodi di libertà tra una galera e l’altra, avido di vita e di avventure, a Gianfranco Faina, intellettuale in lotta ed in latitanza; Fernando Del Grosso, partigiano abruzzese di cui raccontava il non darsi pace fino a quando non raggiunse tutti i responsabili della morte dei suoi fratelli trucidati dai nazi-fascisti. Il tutto mescolato tra ricordi di un viaggio in Nicaragua per appoggiare la lotta ed i racconti sul bancarellaro del Bangladesh sotto casa da aiutare con i suoi problemi di irregolare nella metropoli, i manifesti di Casa Pound sotto i portici di Piazza Vittorio da strappare (“e se nessuno mi aiuta ci vado io”, e ci andava davvero!) e la frequentazione del coro delle cantrici della tradizione popolare e di lotta, le scarpette da flamenco mostrate con orgoglio e le medicine da cardiopatica “dimenticate” nel cassetto, la sua presenza a qualsiasi corteo, prendendosi gioco dello sguardo sgomento delle guardie a veder questa signora con il cappotto color cammello e le scarpe a mezzo tacco attorniata da giovini punk, lo stesso sorriso con cui sussurrava, venti anni fa nelle strade di Genova, “si va assieme” prendendo sottobraccio i compagni che vedeva appesantiti da zaini “troppo” carichi.
La stessa densità d’esperienza stratificata catturava subito l’attenzione di chi varcava per la prima volta la soglia della vecchia casa di piazza Vittorio, anch’essa di vissuta e stropicciata nobiltà, tra il market bangla ed i negozietti cinesi, aperta giorno e notte per i compagni. Ai muri si alternavano i ritratti ad olio di un’accigliata antenata ottocentesca (Marilù proveniva da una nobile e “fascistissima” famiglia ferrarese di cui era la figlia refrattaria) ed i manifesti di lotta contro le carceri speciali; le foto dei compagni morti e le tovaglie di pizzo sciorinate per accogliere quelli vivi, i noccioli di pesco intagliati in forma d’anello “regalo di Horst quand’era in galera” e l’”agenda” con i numeri di telefono scritti a penna sul muro (“così quando vengono alla prossima perquisizione, anche se si portan via l’agenda li ho”), dietro la pesante cornice che racchiudeva la suddetta nobile accigliata.

Si capiva che non c’era alcuno stereotipo di movimento applicabile, valevano però sempre la solidarietà ed i legami indistruttibili, nonostante galere e naufragi ideali; valeva l’orgoglio, nel narrare le esperienze di lotta sue e dei suoi compagni, l’orgoglio di narrare una cosa ben fatta, un lavoro portato a termine fino in fondo.
In questo senso soprattutto è stata illuminante e luminosa nello svelare, in forma fiabesca quasi, la durezza dei colpi ricevuti e la bellezza della resistenza, liberando chi veniva a contatto con lei della zavorra che ci portiamo addosso, per viaggiare leggeri.
Si sarebbe fatta beffe pure dell’infame presenza dei questurini, fino in occasione dell’ultimo saluto a lei, ultimo aneddoto di un’anarchica sorvegliata da viva e da morta, quasi che un funerale potesse essere una manifestazione sediziosa. O forse, in questi tempi cupi, sono considerati i morti, più vivi dei vivi?


Anna, carcere di Rebibbia