La cibernetica spiegata da un generale

 

Le armi cyber cambieranno la guerra. L’Esercito ha bisogno di nuovi tecnici

di Gianluca Di Feo

Intervista al generale Serino: “Possiamo formare medici e informatici per tutta la pubblica amministrazione. Gli scenari di crisi rendono necessari i mezzi corazzati, ma in Italia nessuno li produce più”

10 NOVEMBRE 2021

“Poche settimane fa durante un’esercitazione i nostri specialisti hanno paralizzato un’autoblindo Centauro senza sparare un colpo: con un virus informatico hanno bloccato il computer che controlla il motore. Usare la cyber per conseguire ‘effetti inabilitantì ci può permettere di ottenere gli stessi risultati senza impiegare strumenti letali. Questo porterà a rivedere completamente il modo di condurre le operazioni: la componente cyber avrà una crescita esponenziale”. Sette mesi dopo essersi insediato al vertice dell’Esercito, il generale Pietro Serino parla per la prima volta e descrive gli scenari di cambiamento della forza armata. Ufficiale delle trasmissioni, Serino ha una passione per l’innovazione tecnologica e una lunga esperienza di pianificazione strategica. E sin dall’inizio della pandemia, come capo di gabinetto del ministro Lorenzo Guerini, ha contribuito a gestire l’intervento dei militari contro il virus.

 

Che lezioni vi ha lasciato l’emergenza Covid?

“Quella principale è che siamo riusciti a reagire bene perché siamo addestrati al combattimento: un termine che può sembrare forte, ma è la sintesi dei fatti. La capacità di operare anche quando noi stessi siamo sotto minaccia penso ci distingua dalle altre strutture. Mantenersi preparati all’eventualità di un conflitto è l’essenza della nostra professione ed è quello che ci mette in condizione di essere utili al Paese in ogni situazione”.

Non a caso, molti capi di Stato hanno paragonato la pandemia a una guerra. Eravate pronti per affrontarla?

“Nell’emergenza abbiamo compreso l’importanza dell’autonomia logistica. Cosa significa? La forza armata deve essere indipendente in tutti i suoi reparti. Venti anni fa avevamo fatto valutazioni diverse: all’epoca sembrava che ci fossero solo le missioni all’estero e pensavamo di potere affidare alcuni compiti ad aziende ed enti civili, ottenendo risparmi. Ad esempio, è accaduto nella sanità militare che ha subito tagli molto forti o in alcuni settori del trasporto. Infine si è dimostrato il valore di una presenza distribuita sul territorio. Se non avessimo avuto reparti dislocati in tutta la Penisola non saremmo riusciti a contribuire in modo capillare al contrasto della pandemia”.

Oggi le brigate dell’Esercito sono in tutto quindici, meno delle Regioni

“I singoli reparti però sono presenti in maniera omogenea e coprono le zone più popolose. Forse manca un’unità maggiore in Lombardia, dove però c’è il comando Nato di Solbiate Olona che ha dimostrato grande prontezza”.

I nostri soldati oggi hanno un’età media molto alta. Cosa pensate di fare?

“Vogliamo cambiare i criteri di reclutamento. Il disegno di legge preparato dal mio predecessore, il generale Salvatore Farina, elimina la figura dei volontari arruolati per un solo anno: la ferma minima sarà di tre anni, rinnovabili per altri tre. E così con un periodo di servizio lungo potremo investire nella formazione. Più il personale è specializzato, più diventerà facile l’inserimento nel mondo del lavoro una volta lasciato l’Esercito. C’è già un accordo con Confindustria per corsi di qualificazione”.

Il suo predecessore aveva presentato in Parlamento l’urgenza di aumentare l’organico dell’Esercito

“Penso a un incremento mirato perché abbiamo bisogno di professionalità specifiche. Anzitutto medici, infermieri e tecnici di laboratorio. Poi ingegneri e informatici per rispondere all’esigenza cyber e a quella spaziale”.

Sono le figure più richieste sul mercato del lavoro. Come pensate di reclutarle?

“Noi abbiamo la capacità di formarle. Disponiamo di scuole di alto livello con la possibilità di fare crescere i giovani attraverso l’attività operatività. Inoltre tutte le amministrazioni pubbliche hanno bisogno delle stesse figure: si può ipotizzare che vengano selezionate e preparate dalle forze armate, per poi passare dopo un certo numero di anni a disposizione delle altre strutture statali”.

Quindi non volete fanti, ma specialisti. Quanti?

“Non numeri altissimi: qualche migliaio. Altro personale sarà recuperato con il calo dell’impegno nell’operazione Strade Sicure, che è nata come risposta temporanea all’ondata di attentati e poi è proseguita. Le linee guida del ministro hanno permesso di ridurre mille uomini nel 2021 e altri mille sono previsti per il prossimo anno. Poi speriamo che la pandemia finisca presto e anche quei militari tornino alle loro attività”.

Lei ha parlato di specialisti spaziali. Li ha anche l’Esercito?

“Certo, e sono fondamentali. Le comunicazioni satellitari vengono incrementate da anni: le nuove camionette Lince saranno in gran parte dotate di questi strumenti. E poi abbiamo la rete di sorveglianza: ci siamo organizzati per ricevere in tempo reale le informazioni raccolte dai satelliti e utilizzarle sul campo”.

E quanto influirà la nuova guerra cibernetica?

“Quando ero un giovane ufficiale ci insegnavano a pianificare operazioni come all’epoca di Giulio Cesare. Tutto si basava su tre fattori: forze, spazio e tempo. Ora la dimensione cyber ha contratto il tempo in maniera enorme; non si parla più di ore ma di minuti. Ha superato il concetto tradizionale di spazio: anche in paesi lontani dai confini la Nato ha individuato minacce cibernetiche. E non so neppure se l’idea di forze ha ancora stessa rilevanza. Insomma, stanno cambiando tutti i parametri dell’idea di conflitto. E ci vuole umiltà nel definire il futuro”.

Negli ultimi trent’anni siete andati in missione all’estero per mantenere la pace. Oggi però nel mondo tornano scenari di guerra convenzionale, che richiedono forze pesanti come carri armati e cannoni

“Stiamo rivedendo tutto in questa prospettiva, che dalla fine della Guerra Fredda era passata in secondo piano. Nel 1993 avevamo circa millecento carri, oggi sono poco più di cento. L’ammodernamento delle forze corazzate è un’esigenza ma anche un’opportunità per l’intero Paese. È l’occasione per soddisfare l’ambizione dell’Esercito ad avere un interlocutore forte nel settore dell’industria, come lo è Fincantieri per la Marina, che diventi il nostro referente”.

Nessuna industria italiana produce questi mezzi. Voi pensate a un’azienda nazionale o europea?

“La virtù è nel mezzo. Credo che la soluzione sia un’industria nazionale capace di partecipare a consorzi europei. Producendo mezzi in numeri elevati, in modo da abbassare i costi, e mantenendo in patria il know how. Il ministro Guerini dice spesso che la sovranità nazionale passa anche dall’industria della Difesa e abbiamo visto con il Covid come nell’emergenza non si possa contare tanto sulle forniture dall’estero”.

Ricostruire le forze pesanti richiederà parecchi miliardi. Ci sono le risorse?

“Sono stati previsti fondi iniziali pari a due miliardi, soprattutto per sostituire i cingolati da combattimento Dardo. Proprio perché gli investimenti sono rilevanti, non possiamo limitarci ad acquisire un sistema all’estero: dobbiamo trovare le modalità perché industria italiana partecipi da protagonista. Per questo stiamo ipotizzando di estendere la vita operativa dei Dardo per dieci anni: il tempo guadagnato ci consentirà come Paese di attrezzarci a essere parte dei programmi europei che stanno nascendo”.

Ammodernare i mezzi è la soluzione migliore? Avranno comunque più di trent’anni

“Leggo che i tedeschi lo stanno facendo con il Marder, un mezzo simile ai nostri Dardo ma ancora più anziano. Anche se volessimo comprare nuovi carri armati, oggi non ne esistono sul mercato: il progetto franco-tedesco è nella fase di studio. Credo quindi che i nostri cento Ariete resteranno in servizio a lungo. Le posso dire però che un reparto da tempo è schierato in un poligono tedesco, dove sfidano come “aggressori” i tank americani: grazie alla preparazione degli equipaggi, i risultati degli Ariete non sono affatto inferiori a quelli degli alleati”.

I poligoni sono un altro problema. Per tornare ad addestrarsi alla guerra convenzionale servono grandi spazi, che in Italia non ci sono quasi più

“Disponiamo però di una serie di poligoni virtuali all’interno delle nostre basi. E abbiamo mandato la nostra artiglieria ad addestrarsi in Qatar: era da tanto tempo che non avveniva. Lì i semoventi Pzh hanno sperimentato e certificato i nuovi proiettili a lunga gittata Vulcano, che hanno una guida laser o gps nella traiettoria finale. Queste munizioni hi-tech ci permettono di ottenere prestazioni innovative, senza bisogno di cambiare i cannoni”. 

La missione in Afghanistan che si è appena conclusa è stata la più lunga e difficile condotta dall’Esercito

“Mi è capitato durante una recente esercitazione di chiedere agli ufficiali perché si schieravano sul terreno in un certo modo. Mi hanno risposto: “In Afghanistan facevamo così…”. Quella afghana è stata un’esperienza dura, costata sacrifici e che ha insegnato molto, ma dove la controparte aveva caratteristiche difficilmente replicabili altrove. Adesso bisogna recuperare la preparazione a rispondere a uno spettro completo di scenari e minacce. E quello che è avvenuto all’aeroporto di Kabul, con la necessità di creare uno scudo contro minacce vicinissime, ci mostra un’altra esigenza: i sistemi mobili per proteggere contro i droni e i lanci di razzi. Completeranno e integreranno le capacità della Folgore, i parà con cui possiamo intervenire per rendere sicuro un aeroporto e aprire un corridoio umanitario. Una situazione che si è già verificata in passato durante l’evacuazione di connazionali”.

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