Governamentalità pandemica: emergenziale, emotiva, scientifica, algoritmica
Riceviamo e pubblichiamo volentieri queste riflessioni. Particolarmente pertinente – e prospettica – ci sembra l’analisi della “scatola nera” algoritmica come macchina cibernetica di comando e di governo, vero motore della ristrutturazione economica, politica, sociale e sanitaria in corso.
Governamentalità pandemica: emergenziale, emotiva, scientifica, algoritmica
Le forme di governo che sono emerse con la gestione della pandemia aggiornano e rafforzano dinamiche di stili di governo presenti ma non centrali nella configurazione neoliberale del governo, caratteristica degli ultimi decenni. Tramite l’emergenza sanitaria quelle che sono state sotto-tracce hanno assunto un nuovo vigore, tanto da delineare un nuovo modo di governare che rischia di caratterizzare il prossimo futuro. Ha senso esaminarne i presupposti e le logiche sottostanti perché come ogni forma di governo, costruisce una immagine di sé come necessaria e indispensabile, benefica, anzi salvifica, indispensabile per la pacifica continuazione dell’ordine, paladino della sicurezza. In questo processo irradia rappresentazioni che tendono a soprassedere sulla problematicità delle sue azioni che invece, come cittadini, ci riguardano.
L’epoca pandemica ha segnato una discontinuità nell’arte del governo. Se il neoliberalismo ha messo a profitto individui coraggiosi, autonomi e liberi, imprenditori inclini al rischio, fermamente credenti nella auto-determinazione della scelta e realizzati nel consumismo confortevole; il governo emergenziale genera persone impaurite e prone ad auto-limitarsi, annoiate e dipendenti da sussidi, tese innanzitutto a proteggere la propria nuda vita e pronte a sacrificarsi per eliminare insicurezze. Se durante il neoliberismo si teorizzava la drastica riduzione dei tentacoli burocratici statali ma anche dell’offerta di servizi sociali, la gestione pandemica ricolloca lo Stato al centro, sia nelle sue interferenze coercitive che nei suoi sussidi. Se il neoliberismo sollecitava emozioni narcisistiche nell’affermazione del sé mediante il possesso di beni in grado di estendere comodità e piaceri, con la pandemia il martellamento mass-mediatico ci ha condotto ad esplorare in profondità ansie, paure e terrore: ci viene continuamente ricordato che il senso di profonda e prolungata angoscia è l’emozione appropriata di fronte alla emergenza sanitaria. Sebbene la nuova governamentalità si presenti con i caratteri dell’eccezionalità e quindi della transitorietà, le forme di controllo accentuate e l’intima minuzia nella pianificazione rese pervasive in periodo pandemico sono destinate a costituire pilastri del governo del prossimo futuro. La straordinaria autorità prodotta dalla emergenza si sta ormai sedimentando come forma di comando abituale in grado di restringere ulteriormente e in maniera significativa sia le libertà individuali che la possibilità di esprimere alternative.
1. Governo emergenziale
Rispetto alle crisi precedenti, un cruciale salto di qualità del governo emergenziale è nella identificazione del pericolo: questo era identificato in un evento catastrofico (terremoto, tsunami, alluvione, eruzione vulcanica, etc.) oppure associato ad una particolare tipo di umanità ritenuta estranea per identità e valore (i nemici in guerra, i brigatisti, i terroristi islamici, i mafiosi, i migranti portatori di malattie e violenza); con la pandemia siamo tutti potenziali generatori di terrore, potenziali assassini virali. Il pericolo non è più associato ad un’alterità (naturale o umana) malevola ma è identificato nel vicino, familiare, collega di lavoro. Il nemico è in noi e intorno a noi, ubiquitario e impalpabile. Così concepito, il pericolo (inteso come potenziale causa di danneggiamento identificabile) lascia spazio all’angoscia generalizzata (intesa come minaccia generalizzata e quindi incontrollabile).
Decretando l’emergenza lo Stato si può permettere forme di autoritarismo inedite senza suscitare critiche e mantenendo le sembianze della continuità repubblicana, almeno apparenti visto che è stato decretato lo stato di emergenza e di fatto sospesa la costituzione da più di un anno. Decretare un’emergenza permette di soffocare le alternative e le voci critiche anche di fronte a provvedimenti schizofrenici (la continua modifica di ciò che è lecito), ambigui (l’incertezza su cosa sia permesso), irrazionali (ad esempio il coprifuoco notturno, le chiusure di alcune corsie dei supermercati, la quarantena degli oggetti, la mascherina obbligatoria quando ci si muove nei locali ma non quando si è seduti). Le misure prese durante la pandemia esprimono non solo contenuti (l’annullamento delle libertà individuali) ma anche procedure proprie dei governi totalitari (decisioni prive di contrappesi, contraddittori pubblici, limiti). Nella lettura emergenziale, sono proprio le misure totalitarie (quarantene obbligatorie, protocolli di condotta generalizzati, norme sul distanziamento, chiusura di scuole e attività, bando su eventi pubblici, piani vaccinali, etc.) ad essere individuate come l’unica speranza di salvezza per una popolazione presentata come perennemente sull’orlo della catastrofe. L’unica salvezza è nel rassicurante Stato pandemico e nei colossi farmaceutici che come dovrebbe essere evidente pensano ai profitti piuttosto che alla salute dei cittadini. Una popolazione atterrita che si reputa incapace di immunizzarsi secondo dinamiche fisiologiche deve affidare a loro le speranza di salvezza.
2. Dalla politica all’ etica, attraverso la paura
Quello odierno è uno Stato che ha progressivamente rinunciato a immaginare trasformazioni “utopiche”: non ha più una visione del futuro da offrire. Uno Stato senza visione rischia di essere percepito come ente esclusivamente repressivo (gestore di tasse, polizia e prigioni): ha quindi un disperato bisogno di un riconoscimento emotivo positivo su cui fondare la propria legittimazione. Lo trova in un paternalismo securitario che prospera nelle tragedie ed emergenze, nelle insicurezze e imprevedibilità. Molti votanti apprezzano la capacità dello Stato di schermare la vita umana dai rischi: uno stato di controllo totale che permette uno Stato protettore.
Non solo ci discipliniamo a partire dalla percezione di un terrore imminente e indecifrabile ma sorvegliamo anche gli altri diventando meccanismi attivi e diffusi nel dispiegamento dei precetti della governamentalità pandemica quando invitiamo ad indossare le mascherine correttamente, richiamiamo gli altri a monitorare la distanza sociale, esortiamo ai diversi tipi di sanificazione, pretendiamo che chi ci sta vicino sia sottoposto a tampone se ha la tosse, denunciamo condotte ritenute irresponsabili, critichiamo i ragazzi se si “assembrano” per fare quattro chiacchiere. Ciò consente di condurre una politica della sorveglianza, anche lì dove non ci sono sorveglianti istituzionali: la polizia ormai spesso interviene in base alle segnalazioni di cittadini responsabili. Questi convinti della propria superiorità morale dovuta alla capacità di auto-disciplinarsi nella condotta responsabile, possono – anzi devono – dire alle personalità confuse, deboli, irrazionali quale sia la condotta emergenziale corretta: il professore disquisisce sui benefici della mascherina di fronte alla classe, la cassiera del supermercato intima di rispettare le distanze, il proprietario del negozio dirige prudentemente il traffico all’interno del suo esercizio e il lavoratore intima al collega raffreddato di verificare se è positivo. C’è quindi uno spostamento dalla politica – intesa come confronto dialogico e polifonico sull’orientamento di ciò che ci lega, che ci accomuna – all’etica intesa come grado di allineamento del singolo ai dettami morali superiori. Lo scrutinio delle libertà dell’individuo diventa invasivo e giudicante: si indossa la mascherina correttamente, in tutti i luoghi? Si rispettano le leggi sul distanziamento o ci si accalca in maniera sconsiderata? Si sono scaricati i dispositivi di tracciamento? Si partecipa ad assembramenti frutto della sete di puro divertimento (denominato in termini dispregiativi movida)? Si è disposti a vaccinarsi (e rivaccinarsi tutte le volte che saremo chiamati a farlo)? Questi – una volta cancellata la discussione sui presupposti dell’emergenza – diventano i soli quesiti immaginabili. La loro principale funzione – se visti con un po’ di distanza prospettica – è quella di spostare l’onere della risoluzione pandemica e anche l’ambito di ciò di cui si discute dalle strategie verticali di gestione (che metterebbero in imbarazzo i vertici delle istituzioni allineate) al rigore con cui il singolo si disciplina e crede nelle direttive che scendono dall’alto (che mettono in imbarazzo gli irresponsabili). L’emergenzialità pandemica riesce a spostare compiutamente il focus dell’attenzione sociale dall’azione istituzionale all’impianto morale del singolo.
Spostata su un piano etico, l’adesione alla rappresentazione emergenziale diventa semplice e dicotomica: aderisci alla narrazione emergenzializzante e alle sue regole (ti comporti responsabilmente, ligio alle regole, attivo nelle campagne di salvaguardia nazionale?) oppure rifiuti la narrazione, infrangi norme precauzionali e mini il benessere collettivo? La dicotomia in termini emotivi restringe drasticamente i margini di contraddittorio proprio delle relazioni sociali, basate sul confronto dialettico, la negoziazione di interessi, la fiducia reciproca: di fronte ad un torto manifesto la soppressione della libertà è percepita come un’indispensabile questione di salute pubblica. Di fronte alla negazione di una verità palese, non c’è spazio per dissensi: il deviante irresponsabile è criminalizzato. Con chi non si allinea nell’auto-disciplinamento emergenziale non si discute, non ci si confronta, non lo si ascolta; l’atteggiamento prevalente verso gli “irresponsabili” è in prima battuta quello della predica paterna e – se priva di conseguenze – il ricorso alle forze dell’ordine.
3. Governo senza alternative
L’emergenza – nella dinamica della governamentalità contemporanea – richiede azioni concrete ed immediate. Si sposta il focus di ciò di cui si discute da un confronto su cosa abbia senso fare sondando un ampio spettro di alternative ad un’attenzione meticolosa sulla efficienza e la tempistica di quelle che sono state presentate come linee programmatiche ovvie, indiscutibili, indubitabili, auto-evidenti. Di fronte alla emergenza il sapere necessario per la pianificazione si presenta come tecnico, post-ideologico, scientifico in quanto basato su forme di quantificazione e calcolo. Dissentire nelle istituzioni, se rimane ancora pensabile, è indicibile. Di fronte alla pandemia non sono ammesse non solo critiche ma anche confronti informati e polifonici: la ragione pandemica è trascendente, unica e superiore. Per mantenere l’apparente unanimità di intenti, si deve squalificare come assurda qualsiasi narrazione alternativa: chi dubita viene presentato come un essere moralmente indegno, sospetto, irragionevole. La derisione colpevolizzante e senza appello è l’unico spazio mediatico riservato a narrazioni che escono dagli obbligatori canoni argomentativi emergenziali. L’impostazione emergenziale non prevede la possibilità di auto-critica: la narrazione è spinta con tale sicumera che fare un passo indietro sulle misure emergenziali metterebbe in discussione l’intera impalcatura narrativa. Ogni restrizione anche quelle evidentemente assurde del primo lockdown possono svanire senza che si faccia un’autocritica, senza ammettere che si è esagerato con la diffusione della paura, senza spiegare su quali basi siano stati presi i provvedimenti e su quali siano stati revocati.
4. Una scienza autoritaria
Nel corso dell’emergenza pandemica la curvatura della nozione di scienza verso una connotazione associata alla certezza dogmatica è particolarmente preoccupante. La scienza, da essere un processo complesso di costruzione di conoscenza fondato sul confronto dialogico da aggiornare e perfezionare sulla documentazione disponibile in base a varie interpretazioni, la “scienza” pandemica si presenta come evidenza incontestabile impedendo di fatto una messa in discussione critica di procedure, parametri, numeri. La scienza emergenziale rivendica certezza e chiede allineamento.
Non avendo interlocutori accreditati, o meglio rendendo impossibile l’emergere di altri punti di vista scientifici alternativi, la “scienza” diventa un monolite che conferma e rafforza la narrazione istituzionale. I dati, le interpretazioni e di conseguenza le politiche diventano indiscutibili proprio perché non è stato lasciato alcuno spazio per alternative sia scientifiche (nella produzione del sapere) che dialogiche (nella discussione mediatica e pubblica). È paradossale che un campo, quello della “scienza”, rafforzatosi negli ultimi secoli in Europa come processo complicato e mai concluso di costruzione di discorsi plausibili, e quindi antagonista della narrazione fideistica, dogmatica, elitaria ed esoterica del cristianesimo, riproponga nella sua degenerazione emergenziale molti dei tratti di una narrazione teologica. La scienza emergenziale si proclama verità assoluta e richiede un fideismo laico nella esattezza dei numeri.
5. Decisioni algoritmiche per un potere anonimo
La gestione del Covid ha amplificato la dimensione algoritmica del governo produttore di una incessante serie di elaborazioni numeriche (non verificabili se non dalle istituzioni) che permettono di fissare parametri di distanziamento; colorare regioni, provincie e comuni; chiudere attività e fissare coprifuochi in modo apparentemente neutro e giudizioso, egualitario e legittimo perché fondato sull’autorità superiore del calcolo di una macchina all’apparenza neutrale sebbene programmata da umani. La governamentalità algoritmica rivendica il pregio di essere flessibile e modulare, differenziata e dinamica, in aggiornamento continuo per ottimizzare il regime di movimento legale o di interazione umana possibile. Quello algoritmico è un governo che svuota il senso della contrapposizione politica: si può cercare di abbattere un computer o manifestare contro una formula matematica? Chi protesta contro la governamentalità algoritmica non si trova a battagliare con le decisioni arbitrarie di un umano potente o di un gruppo o di una classe ma contro la scienza fatta elaborazione informatica trascendente.
Così emergono e si moltiplicano figure di “tecnici” in grado di stabilire il giusto nesso tra lettura “scientifica” e “governamentalità emergenziale”. Privi di orientamento politico, incorporano e garantiscono l’assoluta neutralità e oggettività del governo emergenziale: virologi, professori, banchieri, militari, esperti incarnano l’assenza di scelte di un governo che segue i dettami della verità oggettiva. Il fatto che siano organi collegiali (la cabina di regia, la protezione civile o il comitato tecnico-scientifico) è un’ulteriore conferma di una unanimità gestionale iscritta nel pericolo emergenziale.
Ad essere più precisi le decisioni non sono attribuite ai politici ma neanche ai comitati tecnici. Tutte le politiche amministrative emergenziali hanno un’unica causa e responsabilità: il virus. La catena umana di comando è ridotta ad un tecnicismo neutrale in grado di interpretare i numeri, ma sono questi la ragione prima e ultima delle politiche. “L’andamento del virus”, “il numero dei contagi”, “la curva pandemica”, “la situazione sanitaria” o più semplicemente “l’emergenza” o “i numeri” diventano attori protagonisti in grado – nella rappresentazione mass-mediatica – di chiudere scuole e negozi, costringere la gente in reclusione domestica, far crollare l’economia, aumentare le diseguaglianze e generare disoccupazione.
S. Boni, Giugno 2021