Omaggio all’atleta

Omaggio all’atleta

Per commentare adeguatamente lo spettacolo (geo)politico, insieme grottesco e vomitevole, andato in scena con gli Europei di calcio e con la vittoria dell’Italia (rappresentata, secondo la ben nota figura retorica della sineddoche nazionalista, da undici ragazzoni in maglietta e calzoni corti), ci vuole una penna dotata di feroce ironia, un moralista sotto mentite spoglie, un grande prosatore. A chi rivolgersi se non a Giorgio Manganelli? Questo suo pezzo, uscito nel novembre del 1968 sul mensile «Quindici» (e poi raccolto in quel capolavoro di sarcasmo e di stile che è il Lunario dell’orfano sannita), dice tutto quello che c’è da dire: «Non v’è sentimento tipico delle relazioni tra cittadino e Stato e tra Stato e Stato che non trovi il suo miniaturizzato ma indubitabile simbolo» in una dozzina di atleti chiamati alla vittoria, consapevoli che «nella patria lontana vessati e vessatori finalmente affratellati guardano a loro». Il 1968 è l’anno dei giochi olimpici svoltisi in Messico poche settimane dopo il massacro degli studenti; l’anno dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia; l’anno del napalm in Vietnam… Ma anche questi Europei di calcio non arrivano in un momento qualsiasi, bensì a coronamento – e a sgambettante rimozione – di un anno di Emergenza, di confinamenti, di coprifuoco, di linguaggio bellico, di governo di unità nazionale, di un generale Nato nominato commissario straordinario. I Nostri diventano allora il simbolo della Ripresa, di una “comunità che sa reagire alle difficoltà”, di un’Europa unita contro i traditori della Brexit… Tutti in coro, giornalisti, allenatori e cantanti: “V” come Vaccino,“V” come Vittoria.

L’unica obiezione a mio avviso ragionevole al recente successo conseguito dalla squadra dei Granaderos di Città del Messico sulla locale rappresentativa studentesca (si parla di settanta o ottanta a tre o quattro – il risultato esatto è in discussione, ma sull’esito non ci sono dubbi) è che l’incontro si è svolto in modo sportivamente non del tutto ineccepibile. Se, come tutto fa credere, i Granaderos sono stati allevati al bel culto sportivo della vittoria, dovranno convenire che gli handicap imposti alla squadra degli studenti, e per di più in modo tanto subitaneo e in assenza di arbitri convenuti e accettati (donde, tra l’altro, l’incertezza sulla misura esatta della vittoria, che in ultima analisi non giova al prestigio sportivo dei Granaderos) hanno fin dall’inizio grandemente limitato le possibilità di gioco articolato e mosso; pertanto, se non di scorrettezza, dovremmo parlare almeno di comportamento poco sportivo.

Certo, nessuno di noi vuol sollevare obiezioni in termini di correttezza: da sempre, per consuetudine e diritto, sappiamo e riconosciamo che i gestori dello Stato – che ci piace ora vagheggiare come un grande Stadio, nel corso del quale si svolgono le gare e i concorsi dei cittadini – hanno facoltà di imporre handicap variamente onerosi ai loro sudditi, con limiti assai vaghi, e condizioni vincolanti solo per i destinatari; che possono, insomma, dar loro spintoni – ma non riceverne – «caricarli», come si dice in gergo calcistico, domandare loro che cosa pensano, dove sono andati o intendono andare, dargli del tu, picchiarli, incarcerarli, infine con mezzi adeguati agevolarne il comunque inevitabile decesso. Lo ius angariae è cosa tanto sancita e santa che le eventuali, e peraltro sporadiche lagnanze dei cittadini, non possono che apparire sintomi di incapacità a vedere le cose nella loro giusta prospettiva storica, anzi, a parer mio, di vera rozzezza mentale, se non pura e semplice malignità, quella «coazione a disobbedire» che le madri ben conoscono nei loro indocili figli. Infatti, non negheranno i cittadini che l’esistenza stessa di consuetudini, come che sia vessatorie, è arra e pegno di continuità, di ordine, infine di garantita ed economica gestione di quel grande Stadio nell’ambito del quale i cittadini tengono le loro piccole, private competizioni. Se poi codesti cittadini fossero anche di solo media cultura, potremmo loro suggerire la lettura di quei Classici del Pensiero nei quali si dimostra in qual modo la galera, e solamente la galera, ci faccia liberi.

Pertanto, lo handicap del cittadino, di cui si discorreva a proposito dell’incontro messicano, è non solo ammesso, ma del tutto corretto: la nostra obiezione alla vittoria dei Granaderos – cui, non dubitiamo, altre seguiranno – è più di stile, di animus, che non di legge.

D’altra parte, non possiamo negare che anche altrove il sano spirito sportivo ha sofferto per qualche comportamento non del tutto impeccabile: ad esempio, il recente incontro russo-cecoslovacco è parso a taluni intenditori un poco confuso, anche pesante; e sebbene sia vero che in amore e sport ci si impegna per vincere, è anche vero che lo sportivo vuole bel gioco. Quanto all’incontro che oppone gli atleti nordamericani agli indigeni vietnamiti, non possiamo negare che vi siano arbitri riconosciuti e autorevoli; ma l’interesse dell’incontro è limitato dal fatto, che non mi pare abbastanza rivelato dai nostri quotidiani sportivi, che si tratta di un incontro tra professionisti e dilettanti; e il fatto che i professionisti, come spesso accade in questi sport, non appaiono alla lunga né brillanti né efficienti, non tocca l’obiezione di fondo.

A noi pare non solo bello, ma significativo, e anche nobile, che le Olimpiadi siano ospiti di una città in cui si è or ora svolta una così impetuosa – fino a intaccare i limiti della tradizionale correttezza latinoamericana – battaglia di contrapposti atleti: stupendo decatlon, che coinvolge inseguimento, corsa in piano e a ostacoli, salto in alto e in lungo, strisciata, arrampicata, scherma, pugilato, infine tiro a segno. Nulla posso pensare di più squisitamente olimpionico e, con le riserve sopra dette, di più tipicamente sportivo. Confesso di non capire le perplessità di coloro che parlano di «pacifica festa sportiva», e che hanno in uggia quei sudditi deceduti nel corso di uno scontro abbastanza tradizionale. Pacifica festa? Ma non è forse l’animus sportivo tutto di estrazione bellica? Non si parla forse di avversari, di nemici, di sconfitta, di vittoria, di trionfo, di soccombenti? Non si danno alleanze, non patti pubblici e segreti? Non ci si rallegra per la vittoria dei Nostri – i Nostri! non vi ricorda nulla, questo termine brutale e infantile? Non si infierisce con ogni dileggio, ogni indegnità, sul nemico battuto? O non lo si vilipende con la schernevole stretta di mano? Mancando di meglio, non gusteremo quella squisita e delicata tra tutte le gioie sportive, la sconfitta che altri ha procurato di un avversario a noi specialmente odioso? E in quale modo lo riconosceremo per «odioso»? Ma guardate i nomi di queste squadre: non domestiche, rurali intitolazioni di circoli paesani; oh, no; grandi e solenni nomi che essi con ogni diritto sfoggiano: si chiamano Stati Uniti, e Russia, e Italia e Francia, eccetera. I Grandi Stati, le Nazioni, i Continenti, le Razze, si sfidano, si affrontano, si provocano, tramite quei loro anonimi cittadini, quei devoti, ubbidienti atleti.

E guardate quei giovani, che da ogni parte del pianeta confluiscono alla festa violenta delle Olimpiadi. Non si danno convegno questi giovani, come si può sospettare, conoscendo la facilità emotiva delle acerbe generazioni, per abbandonarsi ad eccessi di cibi e bevande, per danze o disordinati svaghi sessuali. Oh, no; ipnotizzati dal basilisco della vittoria, essi rinnegano quelle indulgenze della gola e della libidine che illanguidiscono il morbido corpo; si vogliono e si coltivano aspri e asciutti; rinunciano alle private passioni; sanno di essere stati scelti come i migliori dal loro Stato, sanno che nella patria lontana vessati e vessatori finalmente affratellati guardano a loro. E credo che avremo detto tutto il necessario sulla figura mitologica dell’atleta, quando ricorderemo che non v’è elogio migliore che dirlo «valoroso»; che al vittorioso si danno trofei e medaglie; riconoscendo dunque in costui il profilo anonimo in cui si confondono l’Allievo Uccisore e l’Allievo Cadavere, il Soldato.

Non v’è sentimento tipico delle relazioni tra cittadino e Stato e tra Stato e Stato che non trovi il suo miniaturizzato ma indubitabile simbolo nelle belle prove sportive. Infatti, se abbiamo riconosciuto la qualità bellica del linguaggio sportivo, non ci sarà difficile notare quanto ci sia di sportivo nel linguaggio guerresco. Non si parla forse di gara di armamenti, di arrivare primi a qualche traguardo catastrofico e decisivo, di battere l’avversario – che non mancherà mai, giacché tutti sono avversari – nella corsa a nuove escogitazioni e trame di potenza? Ma non potremmo allora, forse un poco arditamente, vedere in quelle più minuscole gare non solo il simbolo di queste altre, di tanto più spaziose ma rigorosamente omogenee, ma anche una più comprensiva allegoria della mirabile gara in cui tutti noi, sudditi di questi Stati, siamo impegnati: la sempre più veloce gara per arrivare primi alla morte? Noi tutti, a nostro modo atleti, badiamo a tastare, coltivare, dentro di noi, il nostro duro scheletro; come quegli altri atleti fanno del loro effimero corpo; calcoliamo, strologhiamo, insidiamo affinché a noi, a noi soli, spetti innalzare la bella, trionfale tibia su cui svetta la fiamma olimpica.

Forse l’amore per lo sport mi ha tradito; ma non posso non esaltarmi, riconoscendo come il destino di questo pianeta, attorno al quale ruotano perplessi dischi volanti provenienti dagli spazi gelidi e inospiti, si riassuma nell’emblema geometrico e duro dello Stadio, sul quale si affrontano i valorosi atleti, minuziosamente preparati, magri al punto giusto, sessualmente astinenti, i figli migliori, i Nostri.