Profezie virali

In un sito che non si occupa di medicina né di critica sociale, ma di filosofia ed estetica, è uscito, a marzo, un singolare articolo che, partendo dal film L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gillian, arriva alla gestione dell’attuale epidemia da coronavirus. L’autore sviluppa dei ragionamenti che ci sono sembrati interessanti sulle pretese predittive della scienza e sul loro uso politico. Ve lo proponiamo.

Profezie virali

di Diego Ianiro

(25 marzo 2020, antinomie.it)

1.

Voglio che il futuro rimanga un mistero[1]

(James Cole/Bruce Willis – 12 Monkeys)

12 Monkeys è un’opera che, nella pur complessa produzione di Terry Gilliam, supera Brazil per densità di temi affrontati e per la raffinatezza con cui vengono consapevolmente confezionati per il circuito mainstream. Grande metafora della malattia mentale e dei sistemi preposti al suo riconoscimento e contenimento, il film fa scorrere ed elabora su questo binario principale una serie di problemi a volte antinomici, come l’aleatorietà della rudimentale tecnica del time travel ivi adottata in confronto all’irrimediabile stabilità del principio di autoconsistenza di Novikov, che riescono soprendentemente a intrattenere lo spettatore: senza restare in sottotraccia, tali questioni si incastrano perfettamente nel tessuto narrativo fantastico in cui la minaccia che governa la storia, a ben vedere, non è mai davvero resa visibile. Con ciò viene tra l’altro rispettata, evidentemente, la peculiarità stessa di una minaccia virale, vale a dire il suo essere empiricamente rilevabile, a un livello sensoriale brutalmente immediato, solo a partire dagli effetti del suo passaggio – quindi solo ed esclusivamente dopo il suo effettivo avvenimento.

È in questa stratificazione tematica dei contenuti – dunque non per l’aspetto formale/produttivo – che il film travalica ampiamente i limiti (voluti) dell’opera di Chris Marker da cui trae ispirazione, laddove il non visibile e il non rappresentato non riguardano (solo) la minaccia futura – che infatti non è di natura virale, ma bellica – ma l’intera struttura della pellicola, «un photo-roman» in cui la continuità dell’immagine-movimento, l’effetto di realtà, viene discretizzata in intervalli fotografici che lasciano allo spettatore il compito ermeneutico di “riempire” la storia. Se questo non avviene nel film di Gilliam, se tutte le tematiche – a eccezione, appunto, dello stesso contagio virale – vengono esplicitamente mostrate a incastro, è anche e soprattutto grazie al lavoro di sceneggiatura di David e Janet Peoples, la cui production draft risale al 27 giugno 1994.

Scorrendo la sceneggiatura ci si imbatte in quelle battute della dottoressa Kathryn Railly, riprese poi integralmente nel film, che in modo forse stucchevolmente didascalico richiamano il mito di Cassandra alla platea riunita in occasione della presentazione del suo libro:

Cassandra, lo ricorderete dalla mitologia greca, era condannata a conoscere il futuro ma anche a non essere creduta, e di conseguenza all’angoscia della preveggenza si aggiungeva l’impotenza di fronte agli eventi.[2]

La battuta immediatamente successiva tocca invece al Dr. Peters, il personaggio che solo alla fine del film (qui siamo ancora intorno alla metà) si scoprirà essere il reale responsabile del futuro, apocalittico contagio virale. Nella calca che circonda Railly per farsi autografare una copia del libro, Peters si rivolge all’indaffarata e distratta dottoressa con le seguenti parole:

Il suo discorso ha peggiorato la già cattiva reputazione degli allarmisti. Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria, il degrado dell’ambiente… in questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita, e il motto dell’homo sapiens “andiamo a fare shopping” sia il grido del vero malato mentale?[3]

La scena si svolge in un ipotetico 1996 ed è stata scritta nel 1994; indipendentemente dal suo presunto quanto volontario profetismo, ex post potenziale pane per le teorie del complotto più ardite, si tratta certamente di una delle battute più importanti del film, quella in cui si svelano le motivazioni ideologiche che hanno fatto agire la mano dietro il contagio, la mano che il protagonista non riuscirà a fermare ma che, come nel più classico degli stilemi tragici, contribuirà indirettamente ad armare.

Quando L’esercito delle 12 scimmie venne distribuito in Italia avevo da poco compiuto diciotto anni, ricordo di averlo visto con un amico in una sala semivuota di provincia, primo pomeriggio, ricordo un senso di disagio che mi restò attaccato addosso per ore. In seguito l’ho rivisto altre volte, sempre tendendo a ridimensionarlo nel suo contesto storico, focalizzando l’attenzione sul montaggio e le inquadrature, tralasciando la storia, ormai nota. In breve, distratto come Reilly mentre le viene rivolta la battuta decisiva. Qualche sera fa, chiuso in casa e a letto, dopo il lavoro e nel rispetto dei decreti emergenziali, ho deciso di rivederlo assecondando il desiderio latente di omaggiare quel particolare settore della fantascienza che da decenni ci intrattiene con il brivido pandemico. E, dopo anni, complice forse la prossimità emotiva con gli eventi narrati nella finzione spettacolare, sono riuscito a seguire nuovamente la storia e ad accorgermi di come la forma con cui Railly richiama il mito di Cassandra sia volutamente didascalica, dal momento che, tra tutti gli altri, il «Cassandra Complex» è il tema centrale del film.

Ciò appare evidente allorquando il protagonista, sopraffatto dall’irrimediabilità degli eventi, tenta di abdicare alla realtà auspicandosi che la sua condizione sia davvero il frutto di una patologia mentale, e che il futuro non sia altro che una proiezione da essa derivata: «I want to become a whole person. I want this to be the present». E l’unico modo per essere una persona intera, l’unica condizione possibile per vivere il presente, è che il futuro rimanga inconoscibile.

2.

Se gli uomini definiscono come reali certe situazioni, esse sono reali nelle loro conseguenze[4]
(William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas,
The child in America: Behavior problems and programs)

Facendosi interprete della cospicua tradizione greco-latina inerente alla leggenda della profetessa, Igino sintetizza così la maledizione di Cassandra nelle sue Fabulae: «cum vera vaticinaretur, fidem non haberet». Da questa formula appare chiara una questione fondamentale: ciò su cui Cassandra non viene creduta è il vero, non il probabile. La capacità predittiva di Cassandra, in quanto relativa a eventi certi del futuro, eventi la cui certezza non può mutare e non può essere messa in discussione, è potentissima e impotente a un tempo, dal momento che non può essere utilizzata in alcun modo. Del resto a cosa servirebbe, se gli eventi non possono comunque essere modificati in quanto veri nel futuro?

Il genio del mito greco coagula nella figura di Cassandra un paradosso fondamentale: il controllo degli eventi e la loro gestione futura è possibile solo a partire dal probabile e dal verosimile, che necessariamente non è e non sarà mai il vero, il reale. E in occidente per molti secoli l’unico antidoto a questo paradosso, al netto delle indiscutibili verità rivelate dalla successiva tradizione cristiana in pari con la stringente ratio della dialettica, sarà la conoscenza storica, la conoscenza degli eventi passati come faro interpretativo del presente a sostegno delle azioni da compiere per il futuro. Detta nella celebre formula ciceroniana: «historia vero… lux veritatis… magistra vitae» (De oratore, II, ix, 36).

La fede generalizzata nelle capacità predittive delle analisi quantitative e dei modelli matematici nelle scienze della gestione e dell’amministrazione sociale, i cui albori sono rintracciabili nell’aritmetica politica del XVII secolo, finisce per scalzare definitivamente quella nella storia, intesa come catalogo di esperienze teoricamente ripetibili e sempre valide, solo nel contesto tardo-positivista. Un’opera come Das Kapital, per dirne una, sarebbe infatti inconcepibile fuori da questo processo, basti pensare a un concetto chiave come la caduta tendenziale del saggio di profitto. La stessa strategia politica del novecento finisce per adattarsi alla statistica inferenziale indipendentemente dalla sua natura ideologica, anzi, in particolare a supporto di quest’ultima.

Ferma restando la natura del tutto ipotetica di questo folle excursus, che necessiterebbe di tempi e luoghi adeguati, si potrebbe ragionevolmente affermare che alla predittività oracolare e numinosa del mito greco come supporto alle decisioni politiche e amministrative è stata sostituita, nel corso di oltre due millenni, quella della statistica inferenziale. Entrambe sono accumunate dall’idea di probabile e di verosimile, tuttavia entrambe portano inesorabilmente a cedere alla tentazione di appiattirli sul vero, sul reale: da un lato, infatti, la predittività è funzione del sacro, dall’altro essa è funzione della verificabilità empirica, due ambiti ai quali, anche se con modalità diversissime, pertiene l’assenza di fallacia. Ciò invece non accade per la predittività fondata sulla historia, il cui motore analogico è pur sempre umano e, in quanto tale, fallibile.

Succede così che lo scarto tra vero e verosimile, tra probabile e reale tenda ad assottigliarsi fino a sparire nelle analisi predittive basate su modelli matematici, vale a dire in quella che volgarmente chiamiamo scienza e alla quale affidiamo la definizione stessa della realtà. Ciò però non avviene tanto da parte di chi la scienza la fa, da parte degli oracoli che conoscono benissimo il carattere probabilistico della definizione di alcune situazioni, nonché l’eventualità dei mutamenti paradigmatici sempre dietro l’angolo; avviene soprattutto da parte di chi interpreta il dato scientifico per prendere decisioni, affidando acriticamente al primo la responsabilità delle seconde. È in questa dinamica che una situazione definita come reale sarà reale nelle sue conseguenze, come il teorema di Thomas insegna. Contravvenendo al paradosso di Cassandra, nel quale il carattere vero/reale della profezia non può in alcun modo operare nel presente, il carattere probabilistico della predittività scientifica, interpretato come vero/reale da chi prende decisioni operative in base ad essa, diventa reale nelle sue conseguenze sul presente.

3.

L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha [sic] permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane
[Annalisa Malara intervistata da Giampaolo Visetti –
la Repubblica, 6 Marzo 2020]

Il 22 Gennaio 2020, con circolare n. 1997 avente come oggetto Polmonite da nuovo coronavirus (2019 nCoV) in Cina, il Ministero della Salute italiano fornisce le prime disposizioni ufficiali sull’epidemia di Wuhan da quando è stata riconosciuta come tale (31 dicembre 2019); l’Allegato 1 del documento indica i tre criteri secondo i quali è possibile segnalare i casi sospetti di infezione; tra questi, solo il secondo lascia aperta la possibilità di considerare infetto un paziente «senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio». Cinque giorni dopo, con nuova e omonima circolare, nella sezione Definizione di caso per la segnalazione questo punto salta completamente; i casi da considerare restano quindi solo due (A e B), entrambi associati a contatti diretti con aree contaminate della Cina o alla frequentazione di soggetti già contaminati[5].

Nella circolare del 31 Gennaio, lo stesso giorno della “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, la Definizione di contatto a rischio riguarda solo chi è entrato in contatto con un caso di infezione confermato. Tale definizione resta operativa almeno fino al 20 Febbraio, giorno della conferma del cosiddetto “paziente uno” di Codogno. Ciò significa che, prima di quella data, sarebbe stato possibile somministrare un tampone esclusivamente a chi fosse rientrato nei criteri A e B di cui sopra o a chi fosse stato in contatto con un caso di infezione confermato.

Solo aggirando lo stesso protocollo sanitario è stato dunque possibile effettuare il tampone che ha portato alla scoperta del “paziente uno”, come spiega l’anestesista che lo propose:

Lei non è un’infettivologa: perché il caso è stato affidato a lei?

Il paziente e tutti noi siamo stati salvati da rapidità e gravità dell’attacco virale. Dalla medicina è arrivato in rianimazione. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso.

Cosa ha fatto?

Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo.

Il tampone è stato immediato?

Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo.

Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?

Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio [in realtà è febbraio, si tratta di una svista] i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva.

Tarati sull’interpretazione dei dati scientifici (che potremmo tradurre con “è altamente improbabile la presenza di un focolaio endogeno senza una fonte infettiva esterna alla quale ricondurlo con chiarezza”), i protocolli sanitari adottati “in stato di emergenza” hanno fallito completamente l’obiettivo, e nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del “paziente uno” la macchina procedurale ha continuato sulla stessa strada ricercando spasmodicamente un fantomatico “paziente zero” che confermasse quanto imponeva la predittività di quegli stessi dati – presa per realtà. Mentre con ogni probabilità il virus circolava in soggetti asintomatici e/o con sintomi non gravi già da settimane.

4.

Quello che chiamiamo “paziente uno” era probabilmente il “paziente 200”.[6]

Nella pretesa di controllare l’espansione del contagio sulla base di un modello proiettivo dal quale è stata completamente rimossa la componente probabilistica, il dato percentuale dei pazienti asintomatici – così come fornito dalle rilevazioni effettuate in Cina – è stato trascurato in quanto fuori dal presupposto iniziale (quello di una fonte chiaramente individuabile). Cosa che ha portato in brevissimo tempo a tre conseguenze:

  1. la rapida espansione del contagio, non essendo stato possibile un campionamento degli asintomatici;

  2. un tasso di mortalità decisamente superiore a quello riportato in Cina, in primo luogo perché la percentuale viene calcolata sui tamponi effettuati, la stragrande maggioranza dei quali proveniente da pazienti sintomatici;

  3. l’esposizione al contagio dell’intero personale sanitario, i cui protocolli non contemplavano inizialmente i casi asintomatici e/o lievi e che si è così trasformato in amplificatore involontario dell’infezione.

L’effetto paradossale di questo processo è che lo “stato di emergenza” preventivo su una minaccia considerata più grave di quanto forse non fosse ha avuto come conseguenza la realtà di un’emergenza sanitaria grave alla quale è seguita un’emergenza sociale. A cascata, il tentativo di controllare l’espansione epidemica su una situazione definita come reale – ma che era già ampiamente fuori controllo[7] – ha generato conseguenze reali nella vita dei cittadini attraverso la pesante restrizione delle libertà individuali disposta, de facto in temporanea deroga alla carta costituzionale, dai decreti del Presidente del Consiglio e le ordinanze dei governatori regionali.

Non è tanto nelle singole responsabilità politiche o tra i presunti decisori occulti, quanto nell’illusione di controllo fornita dalla fede nelle proiezioni statistiche che bisognerà andare a indagare quando ci interrogheremo sull’adozione coatta dei dispositivi coercitivi in cui ci troviamo. Senza mai dimenticare, come James Cole, che un futuro sconosciuto è sempre preferibile a un futuro prevedibile o, peggio, già previsto.

PS: per tornare alla historia, si può sempre trarre beneficio dal Consilio contro la pestilentia di Marsilio Ficino:

[175] Non si debbe mangiare o bere con vasi da morbati, né tocchare cosa che tocchino loro. Debbesi viver lieto, perché la letitia fortifica lo spirito vitale; vivere continente et sobrio, perché la sobrietà et continentia del vivere è di tanto valore che Socrate philosopho, con questa sola, si conservò in molte pestilentie extreme che furono nella citta d’Athene.

[25 marzo 2020]

[1] «I want the future to be unknown» (si riporta qui la versione del doppiaggio italiano).

[2] «Cassandra, in Greek legend you will recall, was condemned to know the future but to be disbelieved when she foretold it. Hence, the agony of foreknowledge combined with impotence to do anything about».

[3] «I think, Dr. Railly, you have given your alarmists a bad name. Surely there is very real and very convincing data that the planet cannot survive the excesses of the human race: proliferation of atomic devices, uncontrolled breeding habits, the rape of the environment, the pollution of land, sea, and air. In this context, isn’t it obvious that “Chicken Little” represents the sane vision and that Homo Sapiens’ motto, “Let’s go shopping!” is the cry of the true lunatic?».

[4] «If men define situations as real, they are real in their consequences». [William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas, The child in America: Behavior problems and programs, New York 1928, p. 572]

[5] Ivi, Allegato 1: A. Una persona con Infezione respiratoria acuta grave […] (febbre, tosse e che ha richiesto il ricovero in ospedale), E senza un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica […] E almeno una delle seguenti condizioni: -storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure – il paziente è un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta. B. Una persona con malattia respiratoria acuta E almeno una delle seguenti condizioni: -contatto stretto con un caso probabile o confermato di infezione da nCoV nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha lavorato o frequentato una struttura sanitaria nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia dove sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov

[6] [Fabrizio Pregliasco in Jason Horowitz, Emma Bubola e Elisabetta Povoledo, Italy, Pandemic’s New Epicenter, Has Lessons for the World, in The New York Times, 21 marzo 2020]

[7] Una ricerca pubblicata il 20 marzo sembra confermare la diffusione del virus in Lombardia già a gennaio.