Covid-19 e le spire del capitale, di Rob Wallace, A. Liebman, L. F. Chaves, Rodrick Wallace
Tratto da https://pungolorosso.wordpress.com/
Covid-19 e le spire del capitale, di Rob Wallace, A. Liebman, L. F. Chaves, Rodrick Wallace
Traduciamo dal sito della Monthly Review un saggio di Rob Wallace, Alex Liebman, Luis Fernando Chaves e Rodrick Wallace, un’anticipazione dal numero di maggio della rivista. Puo’ suonare accademico l’approccio degli autori alle questioni macro- economiche e politiche, e si avverte l’assenza di un riferimento politicamente concreto alla classe che deve vivere del proprio lavoro, in tutta la complessita’ sociale, di genere, e “razziale” che ne definisce l’oppressione, materiale e simbolica, nella societa’ contemporanea. Solo un concreto riferimento alla classe puo’ infatti sostanziare le proposte di lotta degli autori. Ma la profondita’ della loro analisi, che rompe i confini disciplinari mostrando l’intreccio tra il ‘naturale’ e il ‘sociale’ nella genesi delle epidemie moderne, ed il repertorio di proposte che ne conseguono – proposte che rimandano alla necessita’ di una rivoluzione della societa’ – ne fanno un saggio di grande spessore.
Il calcolo
Il Covid-19, la malattia causata dal coronavirus Sars-CoV-2, la seconda sindrome respiratoria acuta grave dal 2002, è ora ufficialmente una pandemia. Da fine di marzo le popolazioni di intere città sono chiuse in casa e uno ad uno gli ospedali vanno in fibrillazione congestionandosi per l’impennata dei ricoveri.
Al momento la Cina respira meglio, dopo che all’iniziale scoppio è seguita una contrazione (1). Lo stesso vale per la Corea del Sud e Singapore. L’Europa, in particolare Italia e Spagna, ma sempre più anche altri paesi, si piega già sotto il peso dei morti, sebbene si sia solo agli inizi dell’epidemia. America Latina e Africa iniziano solo ora ad accumulare casi; alcuni paesi si stanno preparando meglio di altri. Negli Stati Uniti – un punto di riferimento, anche se solo perché si tratta del paese più ricco nella storia mondiale – il prossimo futuro si presenta nero. Si prevede che il picco non verrà raggiunto prima di maggio, e già gli operatori sanitari e i visitatori degli ospedali fanno a cazzotti per accedere alle scorte in esaurimento di dispositivi di protezione individuale (2). Gli infermieri, a cui i Centri per il controllo e la protezione dalle malattie (CDC) hanno raccomandato – la cosa è allucinante – di usare bandane e sciarpe come mascherine, hanno già dichiarato che “il sistema è condannato” (3).
Nel frattempo, l’amministrazione centrale statunitense continua a scavalcare i singoli stati nella corsa per quelle apparecchiature mediche di base che fin dall’inizio si è rifiutata di acquistare loro. Ha anche presentato una chiusura delle frontiere come intervento a tutela della salute pubblica, quando in realtà il virus infuria nelle mal-indirizzate zone interne del paese (4).
Un team di epidemiologi dell’Imperial College ha previsto che la migliore delle campagne di mitigazione – volta all’appiattimento della curva dei casi mediante la messa in quarantena dei positivi e il distanziamento sociale degli anziani – lascerebbe comunque gli Stati Uniti con 1,1 milioni di morti ed un carico di casi pari a otto volte il totale dei letti di terapia intensiva esistenti nel paese (5). La soppressione della malattia, volta a porre fine all’epidemia, comporterebbe invece un modello di quarantena di tipo cinese (concernente anche i membri della famiglia dei contagiati), con il distanziamento sociale esteso a comunità intere e la chiusura delle istituzioni. Così le morti previste negli Stati Uniti scenderebbero a circa 200.000.
Il team dell’Imperial College stima che una campagna efficace volta alla soppressione dell’epidemia dovrebbe essere perseguita per almeno diciotto mesi; ne conseguirebbe un forte aumento della contrazione economica e il decadimento dei servizi alla comunità. Il team ha proposto di bilanciare le esigenze di controllo della malattia con quelle dell’economia, attivando e disattivando la quarantena delle comunità, in rapporto con un dato livello di letti di terapia intensiva utilizzati.
Altri esperti hanno respinto questa ipotesi. Un gruppo guidato da Nassim Taleb, autore del “Cigno nero”, dichiara che il modello dell’Imperial College non include la tracciabilità dei contatti e il monitoraggio porta a porta (6). Ma il loro argomento omette di considerare che l’impeto dell’epidemia ha piegato la volontà di molti governi di impegnarsi in quel tipo di cordone sanitario. Misure del genere saranno prese in considerazione da molti stati solo quando l’epidemia inizierà il suo declino, e si ricorrerà, auspicabilmente, ad un test funzionale e accurato. Come ha detto uno spirito ironico: “Il coronavirus è troppo radicale. L’America ha bisogno di un virus più moderato a cui si possa rispondere con gradualità” (7).
Il team di Taleb rileva che il gruppo dell’Imperial College si rifiuta di indagare le condizioni alle quali il virus può essere portato all’estinzione. L’estirpazione non significa avere zero casi, ma un isolamento sufficiente a far sì che sia improbabile che singoli casi producano nuove catene di infezione. In Cina, solo il 5% delle persone suscettibili di contagio per il contatto con una persona infetta è stato successivamente infettato. In effetti, il team di Taleb è a favore del programma di soppressione adottato in Cina: fare ogni sforzo correndo il più rapidamente possibile per spegnere l’epidemia senza avventurarsi in una lunga maratona, una danza senza fine nella quale si alternino il controllo delle malattie e la garanzia data all’economia di non andare incontro ad una carenza di manodopera. In altre parole, l’approccio rigoroso della Cina (dispendioso in termini di risorse), evita alla sua popolazione quel sequestro lungo mesi, o addirittura anni, che invece il team dell’Imperial College raccomanda agli altri paesi.
L’epidemiologo e matematico Rodrick Wallace, uno di noi, capovolge il tavolo. La definizione modellistica dell’emergenza, pur necessari, manca di un elemento essenziale: quando e dove cominciare. Le cause strutturali sono parte integrante dell’emergenza. Includerle ci aiuta a capire come rispondere al meglio andando oltre il semplice riavvio di quell’economia che ha causato il danno. “Se ai pompieri vengono fornite risorse sufficienti”, scrive Wallace,
«in condizioni normali, il più delle volte la maggior parte degli incendi può essere contenuta con perdite minime e una minima distruzione di beni. Tuttavia, tale contenimento dipende molto da un’impresa assai meno romantica, ma non meno eroica, ovvero dai costanti sforzi normativi che limitano i rischi connaturati all’attività edilizia, mediante lo sviluppo e l’applicazione di regole, e assicurando che vengano fornite risorse per lo spegnimento degli incendi, l’igiene e la conservazione degli edifici a tutti ai livelli necessari … Il contesto conta in un’infezione pandemica e le attuali strutture politiche, che consentono alle imprese agricole multinazionali di privatizzare i profitti ed esternalizzare e socializzare i costi, devono diventare soggette alla applicazione di un codice che reinternalizzi tali costi, se veramente nel futuro prossimo si vuole evitare una malattia pandemica dagli esiti fatali» (8).
Adottando il punto di vista del team di Taleb sui modelli di strategia in termini più esplicitamente politici, un altro coautore di questo articolo, l’ecologo delle malattie Luis Fernando Chaves, fa riferimento ai biologi dialettici Richard Levins e Richard Lewontin, e conviene con loro sul fatto che “lasciare che i numeri parlino” non fa che mascherare gli assunti da cui si muove (13). Modelli come quello dello studio dell’Imperial College limitano esplicitamente l’ambito dell’analisi alle sole questioni che rientrano strettamente nel quadro dell’ordine sociale dominante. Per il modo con cui sono progettati, non riescono a ricomprendere le forze di mercato più ampie che portano allo scoppio delle epidemie e le decisioni politiche che sono alla base degli interventi.
Consapevolmente o meno, le proiezioni che ne risultano mettono la protezione della salute di tutti al secondo posto, compresa la salute delle molte migliaia di persone più vulnerabili, che morirebbero se il loro paese oscillasse tra controllo della malattia ed esigenze economiche. La visione foucaultiana di uno stato che agisce sulla popolazione per i suoi propri interessi rappresenta solo un aggiornamento, anche se più benigno, dell’orientamento maltusiano verso l’immunità di gregge, assunto dal governo conservatore britannico e ora dai Paesi Bassi, e che permetterebbe al virus di diffondersi senza ostacoli nella popolazione (14). Al di là di una mera speranza ideologica, esistono ben poche prove che l’immunità di gregge possa fermare l’epidemia. Il virus può facilmente evolvere, mutare sotto la coperta immunitaria della popolazione.
L’intervento
Cosa si dovrebbe fare invece? Innanzitutto, dobbiamo comprendere bene che, nel rispondere all’emergenza nel modo giusto, saremo comunque impegnati sia nella necessità che nel pericolo.
Dobbiamo nazionalizzare gli ospedali, come ha fatto la Spagna in risposta allo scoppio dell’epidemia (15). Dobbiamo potenziare i test in termini quantitativi e qualitativi, come ha fatto il Senegal (16). Dobbiamo socializzare i prodotti farmaceutici (17). Dobbiamo garantire le massime protezioni possibili al personale medico per rallentare il suo deperimento. Dobbiamo garantire il diritto a riparare i ventilatori e altri macchinari medici (18). Dobbiamo iniziare a produrre in serie cocktail di antivirali come il remdesivir e la clorochina antimalarica di vecchia scuola (e qualsiasi altro farmaco che appaia promettente), mentre conduciamo allo stesso tempo dei test clinici per verificare che funzionino anche fuori dal laboratorio (19). Dovrebbe essere messo in atto un sistema di pianificazione per (1) forzare le aziende a produrre i ventilatori necessari e le attrezzature di protezione del personale richieste dagli operatori sanitari e (2) assegnarli prioritariamente ai luoghi con le maggiori necessità.
Dobbiamo formare un massiccio corpo di intervento contro la pandemia per assicurare le forze necessarie – dall’attività di ricerca alle cure – per affrontare l’ordine dei problemi che il virus (e qualsiasi altro agente patogeno a venire) ci sta ponendo. Dobbiamo far sì che per i malati vi sia un’adeguata dotazione di posti in terapia intensiva, personale e attrezzature, affinché l’azione di soppressione dell’epidemia possa superare l’attuale divario. In altre parole, non possiamo accettare l’idea di limitarci a sopravvivere all’attacco del Covid-19 per poi dover tornare al tracciamento dei contatti e all’isolamento dei positivi per spingere l’epidemia sotto la sua soglia critica. Dobbiamo assumere abbastanza persone per identificare il Covid-19 casa per casa ora, e dotarle dei mezzi di protezione necessari, come per esempio delle mascherine adeguate. Strada facendo, dobbiamo fermare una società organizzata intorno all’espropriazione, dai proprietari terrieri fino alle sanzioni su altri paesi, in modo che la gente possa sopravvivere sia alla malattia che alla sua cura.
Fin quando un tale programma non potrà essere attuato, tuttavia, gran parte degli strati popolari saranno lasciati a se’ stessi. Anche se vanno fanno esercitate pressioni continue su dei governi recalcitranti, nello spirito di una tradizione di organizzazione proletaria vecchia di 150 anni e purtroppo ampiamente perduta, le persone comuni in grado di farlo dovrebbero unirsi ai gruppi di mutuo soccorso e alle brigate di quartiere che stanno nascendo (20). Il professionisti della sanità pubblica che secondo i sindacati possono essere messi a disposizione dovrebbero fare formazione a questi gruppi per evitare che degli atti di gentilezza non finiscano per diffondere il virus.
L’insistenza con cui incorporiamo le origini strutturali del virus nella pianificazione di emergenza è una chiave perché ogni piccolo passo in avanti vada a vantaggio della protezione delle persone prima dei profitti.
Uno dei tanti pericoli sta nella normalizzazione oggi in corso della “folle merda di pipistrello”, ossia la rappresentazione di una malattia che fa soffrire come alcunché di fortuito – classica merda di pipistrello nei polmoni. Dobbiamo tenere a mente lo shock che abbiamo provato apprendendo che un altro virus SARS era uscito dalle sue nicchie selvatiche diffondendosi tra gli esseri umani nel breve giro di otto settimane (21). Il virus è emerso all’estremità di un segmento di approvvigionamento regionale di cibo esotico, innescando una catena di infezioni da uomo a uomo a Wuhan, in Cina (22). Da lì l’epidemia si è diffusa sia a livello locale che saltando su aerei e treni, e si è così diffusa in tutto il mondo attraverso la fitta rete dei trasporti e lungo una gerarchia che va dalle grandi alle piccole città (23).
Salvo descrivere il mercato dei cibi selvaggi nel tipico modo orientalista, non ci si è granché sforzati rispetto alle questioni più ovvie. In che modo la vendita di cibo esotico è arrivata ad affiancare quella di animali più tradizionali nel più grande mercato di Wuhan? Gli animali selvatici non venivano venduti sul retro di un camion o in un vicolo. Pensate cosa significa in termini di permessi e pagamenti (e di deregolamentazioni) (24). Ben oltre l’industria della pesca, il cibo selvaggio è un settore sempre più formalizzato in tutto il mondo, messo sempre più a frutto proprio dai soggetti che sono dietro la produzione industriale di cibo (25). I rispettivi ouput sono grandezze incomparabili, ma la distinzione tra i due settori è oggi più sfumata.
La geografia economica di tali settori, cosi’ intrecciata, si spinge dal mercato di Wuhan nell’entroterra, dove cibi esotici e tradizionali vengono prodotti al confine di aree selvagge sempre più ristrette (26). Mentre la produzione industriale intacca l’ultima delle foreste, la produzione di cibo selvaggio penetra ancor più in profondità a caccia di prelibatezze, o fa proprio razzia delle ultime roccaforti di natura selvaggia. Ed ecco che il più esotico dei patogeni, in questo caso il Sars-2 ospitato da pipistrelli, finisce su un camion – nelle prede o nei lavoratori poco cambia – e viaggia come una pallottola da un’estremità all’altra di un circuito peri-urbano sempre più dilatato prima irrompere sulla scena mondiale (27).
L’infiltrazione
La connessione richiede studio, sia per poter pianificare, ancora nel vivo dell’epidemia, con lo sguardo rivolto al futuro, sia per capire come l’umanità si sia infilata in una simile trappola.
Alcuni patogeni emergono direttamente nei centri produttivi; così i batteri di origine alimentare Salmonella e Campylobacter. Ma molti altri, come Covid-19, provengono dalle aree di frontiera della produzione capitalistica. Di fatto, almeno il 60 percento dei nuovi patogeni umani ha fatto il salto da animali selvatici a comunità locali (prima che gli agenti più forti si diffondessero nel resto del mondo) (28).
Un certo numero di luminari dell’epidemiologia ambientale (alcuni parzialmente finanziati da Colgate-Palmolive e Johnson&Johnson, aziende che, per così dire, maneggiano la lama insanguinata della deforestazione guidata dall’agribusiness) hanno elaborato una mappa globale che mostra le epidemie passate a partire dal 1940 e indica i luoghi in cui probabilmente affioreranno nuovi agenti patogeni (29). Più è caldo il colore sulla mappa e più è probabile che in quei luoghi emerga un nuovo patogeno. Rovente in Cina, India, Indonesia e in parte dell’America Latina e dell’Africa, questa mappa insiste erroneamente su una geografia priva di relazioni, assoluta cioè, e omette un punto cruciale. Focalizzandosi sulle sole aree in cui scoppiano le epidemie, si perdono di vista i nessi tra gli attori economici globali che, dal canto loro, delimitano il campo d’analisi delle scienze epidemiologiche (30). Da un lato gli interessi capitalistici, che promuovono cambiamenti nell’uso del suolo, connessi ora allo sviluppo economico complessivo ora a determinati orientamenti produttivi, e dall’altro il fatto che le malattie si manifestino nelle zone sotto-sviluppate del globo, premiano gli sforzi di chi scarica la responsabilità delle epidemie sulle popolazioni indigene e relative pratiche culturali, cosiddette “sporche” (31). Si è infatti puntato il dito sul trattamento di carni di animali selvatici e sulle sepolture domestiche per spiegare l’emergere di nuovi patogeni. Ma se si seguono i tracciati rivelati dalla geografia relazionale, allora New York, Londra e Hong Kong, vere fonti del capitale globale, si trasformano improvvisamente nei tre peggiori hotspot del mondo.
Nel frattempo, le zone-focolaio sono rimaste prive anche della loro organizzazione politica tradizionale. Lo scambio ecologico ineguale, che scarica sul Sud del mondo gli effetti più dannosi dall’agricoltura industriale, è passato dal mero saccheggio di risorse per mano di un imperialismo a guida statale a nuove articolazioni dell’oppressione in termini sia spaziali e che commerciali (32). L’agroindustria sta infatti dando alla sua azione di estrazione di risorse la forma di reti discontinue che investono territori di dimensioni diverse (33). Per esempio, la catena delle “repubbliche della soia”, dipendenti dalle multinazionali, lega ora Bolivia, Paraguay, Argentina e Brasile. Questa nuova geografia viene disegnata dai cambiamenti nella gestione delle aziende, da capitalizzazioni, subappalti, sostituzioni nelle catene di approvvigionamento, dai leasing e dall’accorpamento dei terreni a scala internazionale (34). I “paesi-materia prima” stanno producendo nuove epidemie nella stessa misura in cui vengono costretti entro cangianti confini politici ed ecologici (35).
Ad esempio, malgrado il complessivo spostamento della popolazione da aree destinate all’agricoltura commerciale agli slum urbani, spostamento tutt’ora in corso a livello globale, l’antitesi città/campagna alla base del dibattito sulle origini delle malattie non considera la quota di lavoratori destinata alle aree rurali, né la rapida crescita di “città rurali” nei periurbani desakotas (villaggi urbani), o nelle zwischenstadt (città di mezzo). Mike Davis e altri hanno mostrato come questi paesaggi urbani in espansione fungano sia da mercati locali che da hub regionali, funzionali al passaggio di beni destinati al mercato globale (36). Certe regioni sono persino diventate “post-agricole” (37). Ne consegue che le dinamiche patologiche proprie delle foreste, culla degli agenti patogeni, non sono più confinate al solo hinterland. Il fatto epidemiologico diviene relazionale e drammaticamente tangibile in termini spazio-temporali. Un virus SARS uscito da una manciata di giorni da una caverna di pipistrelli può improvvisamente riversarsi su degli uomini in una grande città.
Gli ecosistemi, che controllavano in parte i virus “selvaggi” grazie alla complessità che è propria della foresta tropicale, vengono drasticamente semplificati dalla deforestazione di marca capitalistica. A chiudere il cerchio, all’altra estremità della crescita peri-urbana vi sono i deficit di spesa nella sanità pubblica e nei servizi di tutele igienico-ambientale (38). Se molti patogeni presenti in ambienti selvaggi si estinguono insieme con le specie ospiti, un sotto-gruppo di infezioni un tempo destinate ad esaurirsi piuttosto rapidamente nella foresta (se non altro per l’irregolare tasso di incontro con le loro specie ospiti) ora si stanno propagando nelle città attraverso popolazioni umane rese ancor più vulnerabili dalle politiche di austerità e dalla corruzione. Anche in presenza di vaccini efficaci, le epidemie risultanti sono caratterizzate da maggior estensione, durata, impeto. Quelli che erano salti di specie circoscritti a livello locale sono ora diventate epidemie che viaggiano sulle reti globali dei viaggi e del commercio. (39)
A causa di questo effetto di parallasse – con un cambiamento del solo contesto ambientale – vecchi “modelli” come Ebola, Zika, malaria e febbre gialla, relativamente poco mutevoli, si sono tutti bruscamente trasformati in minacce regionali (40): si è d’un tratto passati dal contagio degli abitanti dei villaggi remoti ad epidemie che colpiscono migliaia di persone nelle capitali. Nel senso ecologico inverso, subiscono contraccolpi anche gli animali selvatici, malgrado siano da sempre serbatoi di malattie. Le scimmie native del Nuovo Mondo si possono ammalare di febbre gialla di tipo selvaggio, a cui sono state esposte per almeno un centinaio di anni; ma per via della frammentazione delle popolazioni causata dalla deforestazione ora stanno perdendo l’immunità di gregge e muoiono a centinaia di migliaia. (41)
L’espansione
Anche solo per la sua espansione globale, l’agroindustria funge sia da propellente che da ponte per patogeni di varia origine, permettendo loro di migrare dai bacini più remoti ai centri di popolazione più internazionalizzati (42). È qui, come già lungo il percorso, che i nuovi agenti patogeni si infiltrano nelle “roccaforti” dell’agricoltura. Tanto più sono lunghe le catene di approvvigionamento e maggiore l’estensione della deforestazione, quanto più sono variegati (ed esotici) i patogeni capaci di zoonosi che entrano nella catena alimentare. Tra i patogeni emersi o riemersi di recente – patogeni di origine alimentare affiorati in contesti di allevamenti intensivo, i quali provengono, in sostanza, dall’ambiente antropogenico tutto – vi sono la peste suina africana, il Campylobacter, il Cryptosporidium, la Ciclospora, l’Ebola Reston, l’E. Coli O157: H7, afta epizootica, epatite E, Listeria, Virus Nipah, febbre Q, Salmonella, Vibrio, Yersinia e una varietà di nuove varianti di influenza, tra cui H1N1 (2009), H1N2v, H3N2v, H5N1, H5N2, H5Nx, H6N1, H7N1, H7N3, H7N7, H7N9 e H9N2 (43).
Seppur involontariamente l’intera linea di produzione è organizzata attorno a pratiche che accelerano l’evoluzione della virulenza patogena e la successiva trasmissione (44). L’aumento di monocolture genetiche – animali e piante con genomi pressoché identici – rimuove le barriere immunitarie che in popolazioni più eterogenee rallenterebbero la trasmissione (45). I patogeni possono ora lavorarsi rapidamente, in termini evolutivi, i genotipi immuni di ospiti ordinari. Nel contempo, le condizioni di affollamento del bestiame deprimono la risposta immunitaria (46). Maggiori dimensioni e densità nelle popolazioni di animali da allevamento favoriscono la trasmissione e la frequente ricorrenza delle infezioni (47). L’elevato volume di attività tipico della produzione industriale fornisce costantemente nuovi quantitativi di animali vulnerabili nelle stalle, nelle fattorie e a livello regionale, rimuovendo così il limite all’evoluzione della mortalità dei patogeni (48). Alloggiare molti animali insieme favorisce i ceppi virali che possono attecchire meglio. È inoltre probabile che ridurre l’età della macellazione – fino a sei settimane nei polli – selezioni agenti patogeni in grado di sopravvivere a sistemi immunitari più robusti (49). La maggior estensione geografica del commercio e dell’esportazione di animali vivi ha aumentato la varietà dei segmenti genomici scambiati dai relativi patogeni, accrescendo la velocità con cui gli agenti della malattia esplorano le loro possibilità evolutive (50).
Tuttavia, mentre l’evoluzione dei patogeni si impenna, gli interventi [statali, N.d.R.] sono pochi o nulli, questo anche a seguito di richieste da parte dell’industria, a meno che non si tratti di salvare i margini fiscali trimestrali dall’improvviso scoppio di un focolaio (51). Vi è una tendenza verso un numero inferiore di ispezioni governative nelle aziende agricole e negli impianti di trasformazione, e verso una legislazione contraria alla sorveglianza del governo, alle denunce degli attivisti ed anche, addirittura, ai resoconti da parte dei media relative a specifici focolai mortali. Nonostante le recenti vittorie in tribunale contro l’inquinamento prodotto da pesticidi e allevamenti di suini, il comando degli interessi privati sulla produzione rimane interamente focalizzato sul profitto. I conseguenti danni causati dalle epidemie sono esternalizzati sul bestiame, le colture, la fauna selvatica, i lavoratori, i governi locali e nazionali, i sistemi sanitari pubblici e gli agrosistemi alternativi presenti all’estero, facendo delle esigenze economiche una questione di priorità nazionale. Negli Stati Uniti, il CDC riferisce che i focolai epidemici di origine alimentare si stanno espandendo sia nel numero degli stati colpiti che in quello delle persone infettate (52).
Insomma, l’alienazione del capitale sta creando il brodo di coltura ideale per gli agenti patogeni. Mentre l’interesse pubblico viene lasciato fuori dalla porta della fattoria e della fabbrica alimentare, i patogeni infiltrano quel tanto di sicurezza biologica che l’industria è disposta a pagare per poi presentarla al pubblico. La produzione giornaliera rappresenta un rischio morale lucroso, che sta mangiando vivo il nostro patrimonio condiviso di tutele sanitarie ed ambientali.
La liberazione
È al contempo ironico e significativo il fatto che New York, una delle più grandi città del mondo, si barrichi contro il Coronavirus, ad un emisfero di distanza dal suo luogo di origine. Milioni di newyorkesi si rintanano nei lotti immobiliari controllati fino a poco tempo fa da Alicia Glen, che fino al 2018 è stata vicesindaco con delega all’edilizia abitativa e allo sviluppo economico (53). Ex-dirigente di Goldman Sachs, Glen era a capo della Urban Investment Group, che investe in progetti per quel genere di comunità a cui gli altri rami della Goldman Sachs rendono impossibile l’esistenza in fatto di prestiti (54).
Ovviamente, a livello personale Glen non è responsabile dello scoppio dell’epidemia; è piuttosto il simbolo di un’interconnessione arrivata a bussare violentemente alla nostra porta. Tre anni prima della sua elezione, in seguito alla crisi del settore immobiliare e alla Grande Recessione, frutto, in parte, di questo stesso settore, il suo ex-datore di lavoro [Goldman Sachs, N.d.R.] si accaparrò il 63% del finanziamento federale garantito dal prestito di emergenza, come anche JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo & Co. e Morgan Stanley (55). Tolte le spese generali, Goldman Sachs cominciò a diversificare le sue partecipazioni per salvarsi dalla crisi. Ha così acquisito il 60% delle azioni di Shuanghui Investment and Development, parte della gigantesca industria agro-alimentare cinese, che ha acquistato la Smithfield Foods, il più grande proprietario di allevamenti di maiali al mondo con sede negli Stati Uniti (56). Per 300 milioni di dollari, Goldman Sachs ha anche ottenuto la piena proprietà di dieci allevamenti di pollame nel Fujian e Hunan, ad una provincia di distanza da Wuhan e ben all’interno del bacino di approvvigionamento di animali selvatici della città (57). Con Deutsche Bank, Goldman Sachs ha investito nelle stesse province altri 300 milioni di dollari in allevamenti di maiali (58).
Le geografie relazionali descritte più sopra hanno chiuso il cerchio. La pandemia investe casa per casa le circoscrizioni di Glen, in tutta New York, il più grande epicentro di Covid-19 negli Stati Uniti. Va d’altro canto riconosciuto che il complesso di cause dell’epidemia va in parte al di là di New York – in un sistema dell’ampiezza dell’agricoltura cinese l’investimento di Goldman Sachs è di dimensioni ridotte.
Le accuse nazionalistiche, dall’espressione razzista “virus cinese” di Trump e giù lungo il continuum liberale, oscurano le traiettorie globali tra loro interconnesse di stato e capitale (59). “Fratelli nemici”, li definì Karl Marx (60). La morte e le sofferenze dei lavoratori sul campo di battaglia, nell’economia e ora sui loro divani, mentre cercano a fatica di respirare, rinviano sia allo scontro tra élites globali, che manovrano per accaparrarsi risorse sempre più scarse, che agli strumenti dalle stesse adoperati all’unisono per dividere e conquistare un’umanità intrappolata negli ingranaggi di queste trame.
In effetti, una pandemia generata dal modo di produzione capitalista e data in gestione allo stato può offrire ai gestori e ai beneficiari del sistema un’opportunità di fare affari. A metà febbraio, cinque senatori e venti membri della Camera degli Stati Uniti hanno liquidato milioni di dollari di azioni detenute personalmente per settori industriali che sarebbero potuti essere danneggiati dalla pandemia (61). Per le loro operazioni questi politicanti si sono basati su informazioni che non erano di dominio pubblico, questo mentre alcuni deputati continuavano a fare pubblicamente eco al messaggio governativo circa la scarsa pericolosità della pandemia.
Dietro a queste maldestre ruberie vi è una corruzione diffusa, sistematica – indice della fine del ciclo di accumulazione statunitense in un momento in cui il capitale ha bisogno di incassare.
C’è qualcosa di anacronistico in simili sforzi di tenere aperti i rubinetti, anche se ci si organizza intorno ad una sorta di reificazione della finanza, negando così la realtà delle ecologie primarie (e relativi fatti epidemiologici) di cui, in ultima analisi, la finanza si alimenta. Per la stessa Goldman Sachs, la pandemia, come le crisi precedenti, offre “spazio per crescere”:
“Condividiamo l’ottimismo di vari esperti e ricercatori di aziende biotecnologiche nel campo dei vaccini, motivato dai buoni progressi compiuti finora con diverse terapie e vaccini. Crediamo che la paura diminuirà alla prima prova significativa di tali progressi…
Cercare di negoziare con obiettivi al ribasso quando l’obiettivo di fine anno è notevolmente più elevato è appropriato per chi investe alla giornata, per chi insegue il successo momentaneo e per alcuni gestori di hedge fund, ma non lo è per gli investitori a lungo termine. Del pari, non vi è alcuna garanzia che il mercato raggiunga livelli così bassi da giustificare le attuali vendite. D’altro canto, siamo ben convinti che alla fine il mercato raggiungerà l’obiettivo più alto, data la resilienza e la preminenza dell’economia statunitense.
Infine, riteniamo che i livelli attuali offrano l’opportunità per elevare gradualmente la soglia di rischio delle azioni in portafoglio. Per quanti fossero seduti su liquidità in eccesso e avessero il potere di allocarla su asset strategici, questo è il momento di iniziare ad incrementare le proprie azioni S&P (62)”.
Inorridite dalla carneficina in corso, le persone di tutto il mondo traggono conclusioni diverse (63). Ritengono inconcepibili i circuiti della finanza e della produzione capitalistica che gli agenti patogeni marcano uno dopo l’altro come altrettante tracce radioattive.
Come descrivere tali sistemi complessi superando il genere di spiegazione episodica e circostanziale impiegata più sopra? Il nostro gruppo sta approntando un modello che scalza l’approccio di una medicina dal sapore coloniale, come l’eco-epidemiologia o One Health; si tratta del tentativo, costante, di addossare a popolazioni autoctone e piccoli coltivatori la responsabilità della deforestazione quale causa dell’emergere di malattie mortali (64).
La nostra teoria generale sull’emergenza delle malattie neoliberali, che include ovviamente la Cina, combina i seguenti fattori:
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i circuiti globali del capitale;
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l’impiego del capitale che distrugge la complessità degli ecosistemi regionali – barriera naturale contro la crescita di patogeni virulenti;
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i conseguenti aumenti del tasso e dello spettro tassonomico degli episodi di spillover;
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i circuiti commerciali periurbani in espansione – vere autostrade per gli agenti patogeni, che poco dopo aver infettato bestiame e lavoratori nell’entroterra più profondo vengono trasportati nei capoluoghi regionali;
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le sempre più fitte reti globali di viaggio (e commercio del bestiame) che trasportano i patogeni da tali città al resto del mondo in tempi record;
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i modi in cui queste reti riducono le resistenze alla trasmissione, favorendo l’evoluzione di agenti patogeni più letali per il bestiame e le persone;
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tra le altre determinanti, la mancata possibilità per il bestiame industriale di riprodursi in loco, eliminando così il servizio ecologico sistemico fornito dalla selezione naturale, che protegge in tempo reale (e quasi gratuitamente) dalle malattie.
La premessa operativa è che la causa di Covid-19 e analoghi patogeni non sta nel fatto immediato dell’agente patogeno, quale che sia, né nel suo decorso clinico, ma in un complesso di relazioni a livello di ecosistemi – relazioni su cui l’accumulazione capitalistica e altri fattori strutturali si sono imposti a loro vantaggio (65). La grande varietà di agenti patogeni, con le loro unità tassonomiche, i loro ospiti di origine, le modalità di trasmissione, i decorsi clinici e gli esiti epidemiologici – quelle caratteristiche che cerchiamo affannosamente nella rete all’insorgere di un’epidemia – sono tutti elementi e percorsi sovrapposti ai circuiti dello sfruttamento del suolo e dell’accumulazione capitalistica di valore.
Di conseguenza, un programma generale di intervento si proietta ben oltre un determinato virus.
La prossima grande transizione umana, che sola permetterebbe di evitare il peggio, è rappresentata dalla disalienazione; bisogna abbandonare l’ideologia coloniale, reinserire l’umanità all’interno dei cicli di rigenerazione del pianeta, riscoprire la capacità di definirci in quanto appartenenti alla massa degli esseri umani, andando al di là di interessi capitalistici e stati (66). Tuttavia, l’economicismo, la convinzione che vi siano solo cause economiche, non porterà alla liberazione. Il capitalismo globale è un’idra a molte teste, che si appropria, interiorizza e gerarchizza in molteplici strati le relazioni sociali (67). Il capitalismo opera attraverso le categorie complesse e interconnesse di razza, classe e genere nel mentre attiva, di regione in regione, i propri regimi di accumulazione.
A rischio di accettare i precetti di ciò che la storica Donna Haraway ha liquidato come storia della salvezza – “possiamo disinnescare la bomba in tempo?” – la disalienazione deve smantellare queste molteplici gerarchie dell’oppressione e le specifiche modalità locali con cui interagiscono con l’accumulazione (68). Lungo questo percorso, dobbiamo uscire dai territori di cui il capitale si è riappropriato facendoci pagare un prezzo troppo salato, attraverso un materialismo produttivo, sociale e simbolico (69). Dobbiamo uscire, cioè, da quello che è un vero e proprio totalitarismo. Il capitalismo mercifica tutto: l’esplorazione di Marte, il sonno, le riserve di litio, la riparazione dei ventilatori, la sostenibilità stessa, e così via. Le innumerevoli entità di cui il capitale si appropria vanno ben oltre la fabbrica e la fattoria. Non potrebbero risultare più evidenti i modi in cui quasi tutti ovunque sono soggetti al mercato, che in un momento come questo vede negli uomini politici i suoi migliori rappresentanti (70).
In breve, un intervento efficace, che impedisca a uno dei tanti agenti patogeni affollatisi lungo il circuito agroeconomico di uccidere un miliardo di persone, deve passare per un aperto scontro globale con il capitale e i suoi rappresentanti locali, per quanto ogni singolo soldato della borghesia – Glen è tra loro – tenti di mitigare il danno. Come abbiamo affermato in alcuni dei nostri ultimi lavori, l’agroindustria è in guerra con la salute pubblica (71). E la salute pubblica sta perdendo.
Se, tuttavia, l’umanità migliore dovesse uscire vincitrice da tale scontro, che impegnerà più’ generazioni, allora potremmo ricollocarci in un metabolismo planetario che, per quanto espresso in modo diverso da luogo a luogo, riconnetterebbe le nostre ecologie e le nostre economie (72). Tali ideali sono più che un’utopia. Nel prospettare ciò, noi convergiamo su soluzioni immediate. Proteggiamo la complessità delle foreste che impedisce a patogeni mortali di saltare da un animale ospite all’altro per poi proiettarsi nella rete globale dei viaggi (73).
Reintroduciamo la varietà del bestiame e quella colturale, e reintegriamo l’allevamento e l’agricoltura in modo da impedire ai patogeni di incrementare la loro virulenza ed il loro raggio d’azione (74). Permettiamo ai nostri animali da allevamento di riprodursi in loco, riavviando la selezione naturale che consente all’evoluzione immunitaria di tracciare i patogeni in tempo reale. In generale, smettiamola di trattare la natura e le comunità, già pieni di ciò di cui c’è bisogno per sopravvivere, solo come un altro concorrente da eliminare sul mercato.
La via d’uscita significherebbe la nascita di un mondo nuovo (o assomiglierebbe forse ad un ritorno alla Terra). Aiuterà anche a risolvere – rimbocchiamoci le maniche – molti dei nostri problemi più urgenti. Nessuno di noi, rinchiusi nei nostri salotti da New York a Pechino, o, peggio ancora, in lutto per i nostri morti, vuol più avere a che fare con una simile epidemia. Sì, le malattie infettive, che per gran parte della storia umana sono state la più grande fonte di mortalità prematura, rimarranno una minaccia. Ma, dato il bestiario di patogeni ora in circolazione, uno peggio dell’altro anno dopo anno, vi è il rischio che dovremo affrontare un’altra pandemia mortale in un lasso di tempo molto più breve rispetto alla pausa centenaria iniziata nel 1918. Possiamo ancora permetterci di ritoccare, semplicemente, le attuali modalità con cui ci appropriamo della natura e sperare in qualcosa in più di una tregua con queste infezioni?
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