Ai morti di Modena e ai suoi rivoltosi
È passata poco più di una settimana dalla rivolta nel carcere di Modena e i media si son già dimenticati del massacro avvenuto in quel carcere e negli altri dove la rivolta è divampata pochi giorni fa. Nove morti solo a Modena.
Chi scrive, alcuni di loro li ha conosciuti perché se li è trovati nella cella a fianco fino ad un mese fa e in questi giorni, ci ha perso il sonno nel pensarli.
Uomini con i quali si cercava di discutere su cosa si potesse fare per migliorare la situazione che si stava creando nel periodo precedente.
Per molti cominciava a pesare quel clima creato dalla nuova direttrice Maria Martone la quale, per ordine del DAP, stava risistemando i detenuti in modo restrittivo. “C’è bisogno di posto” si diceva in febbraio “dovete venirci incontro”, il tutto condito da minacce neanche troppo velate di possibili trasferimenti o altro nel caso in cui i detenuti non collaborassero passivamente alle necessità della nuova direzione. Questo clima si intrecciava ai classici problemi di ogni luogo di restrizione: le negligenze e le angherie degli uomini in divisa, della burocrazia del sistema carcere, del cibo pessimo, della mancanza di una copertura sanitaria seria che non fosse la famosa terapia nonché la totale solitudine e disperazione di persone abbandonate e senza nessun aiuto da fuori. La paura del virus, può essere stata una miccia in un calderone pieno di rabbia e disperazione, ha dato voce ai corpi e alle gole degli oppressi, che per colpa di questa società si trovano rinchiusi dentro le galere. Troppe cose, troppe, sono state dette sulla rivolta del carcere di Modena sputando addosso ai morti e ai prigionieri tutti di quel carcere. Quasi nessuno si interroga seriamente e in profondità sul perché tutto questo sia accaduto,. Non c’è bisogno di nessuna regia occulta per capire che è causa del mondo stesso del carcere con tutti i problemi delle persone recluse. Nel momento della rabbia, la diffidenza e lo scetticismo cadono e una massa di individui si unisce, ognuno con il suo dolore, con la sua voglia di riscatto e trovano la forza di far sentire con decisione e coraggio anni di repressione di Stato pagata sulla propria pelle. Chi non ha mai dormito dentro una cella, dalla parte del blindo del prigioniero, non può capire cosa voglia dire stare dentro al carcere. Tutti quelli che si son riempiti la bocca come avvoltoi con questi fatti non meritano ascolto perché non sanno di cosa parlano, tanto i morti sono tutti “tunisini tossici”, monnezza dice qualcuno. C’è chi parla di aprire forni, di bruciarli vivi. Chi scrive ha visto si persone che usavano le maledette terapie, non tutti riescono a vivere il carcere in modo lucido, ma dire che è stata assaltata l’infermeria e che c’è stato un abuso di farmaci a noi questo non ci interessa. Il nostro giudizio a riguardo è come la bussola che indica il Nord anche quando la scuoti, il nostro indice indica sempre la stessa direzione, la colpa di quelle morti è dello Stato: dall’ultima guardia carceraria alla volontaria che giustifica l’operato della direzione e chiede quiete e sicurezza, dalle stellette del comandante, al Ministro Bonafede, a chi come Salvini diceva “ve l’avevo detto”. Anchenoi diciamo “ve l’avevamo detto”, ma in un verso completamente contrario al suo. Noi lottiamo per la libertà di tutti e tutte, lontani un abisso da lui che vuole un carcere militarizzato. Si lamenta che le guardie avevano pochi mezzi, ma se è stato sparato del piombo e si vede benissimo una delle guardie del magazzino con il mitra in mano che mira ad altezza uomo?! Quali mezzi mancano? I blindati? I mitra? I manganelli? Gli idranti? Gli elicotteri? Le richieste dei detenuti non solo vengono sminuite, ma vengono cancellate le rivendicazioni prettamente politiche delle loro richieste, quello che è successo non è solo disperazione. Anzi, il rimbalzo tra carceri delle proteste fa capire che proprio chi ha limitata la libertà è l’unico che ad oggi sia riuscito a dare una risposta collettiva alle restrizioni imposte dallo Stato per l’emergenza coronavirus. Da qui non si tornerà indietro si dice spesso in questi giorni, è vero anche per il carcere. Queste rivolte faranno si che da Roma verranno presi provvedimenti sempre più restrittivi perché è l’unica lingua che una struttura come il DAP comprende, le rivolte prossime future verranno represse e intanto le notizie si susseguono di continui pestaggi di massa dei detenuti indipendentemente se uno ha partecipato o no alle rivolte.
L’unica comunicazione da parte del Ministero sono le botte in modo tale che tutti e tutte si ricordino di non osare più ribellarsi perché lo spavento provato una volta tanto dagli aguzzini è stato tanto e lo Stato italiano ha fatto una brutta figura a livello internazionale. Intanto i detenuti sono sballati in ogni dove, si sa che da Modena i rivoltosi sono partiti mezzi nudi e gonfi di colpi e le famiglie ancora attendono preoccupate un contatto diretto con i propri cari.
Il rapporto di forza per pochi giorni si è capovolto, i detenuti hanno trovato la forza di unirsi, non tutti, va bene ma questo poco importa, per far uscire la loro voce come da tanti anni non si vedeva in questo paese, i media hanno già messo nel cantuccio le notizie che in realtà si susseguono tramite i familiari delle persone recluse. Non è finita qui, si capisce bene, c’è chi invoca più carceri razionali che non si sa cosa voglia dire, chi chiede l’esercito fuori dalle galere, chi chiede di blindare i prigionieri nelle celle, e tutto questo non fermerà né il dolore né la rabbia di uomini e donne recluse perché è la stessa struttura che alimenta lo scoppio, spesso imprevisto, di rivolte come queste. Troppe cose sono state sopportate in questi anni e le ulteriori restrizioni hanno tolto opacità al malessere diffuso in ogni galera e noi sappiamo che, anche chi non ha partecipato alle rivolte in
cuor suo ha sorriso, perché non c’è gioia più bella per un galeotto che quella di sapere che un carcere è stato chiuso tramite una rivolta e che qualcuno sia fuggito, perché sa bene cosa voglia dire stare in una maledetta cella. E gli sfruttati che oggi subiscono passivamente questo periodo di assenza totale di libertà, di totale asservimento allo Stato e ai tecnici, in futuro si ricorderanno chi all’inizio aveva lottato. Gli sfruttati tutti pagheranno quello che lo Stato sta cercando di placare con vari decreti, manovre economici e non solo. Siamo solo all’inizio di una nuova e lunga lotta da fare e da prendere di petto.
A noi fuori spetta dar voce e solidarietà a queste lotte facendo comprendere agli sfruttati che il loro senso non è per nulla irrazionale. E c’è una parola che di solito viene usata con parsimonia ma che alla luce dei fatti successi richiede di essere innalzata sul pennone delle future lotte contro il carcere, la parola è vendetta. Il silenzio su quegli uomini assassinati dal sistema carcere è diventato assordante. Meritano di essere ricordati oggi e in futuro per far si che tutto quello che sta accadendo abbia un significato profondo.
16.03.2020
Trieste