Luci da dietro la scena (XXVII) – Torri d’avorio e d’acciaio (sul ruolo delle università israeliane e non solo)
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«Iniziare dalla terra su cui sono state erette»
Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university (università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university (università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni.
Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862 facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo, costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi 500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro tratta.
Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le università coloniali.
In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche. Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa oltremodo ardua.
In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore. Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta, si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni, le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e oppressione violenta.
Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare l’oppressione.
L’università come avamposto
È il 28 marzo 2022: due studenti palestinesi dell’Università Ebraica sono seduti sul prato del campus sul monte Scopus e cantano in arabo. Vengono avvicinati da studenti israeliani, che chiedono di sapere cosa stiano cantando. Questi, che sono anche agenti di polizia fuori servizio, accusano i palestinesi di cantare canzoni «nazionaliste», li scortano a forza all’ingresso del campus e chiamano agenti in servizio per farli arrestare.
Gli studenti palestinesi vengono interrogati in quanto sospettati di «comportamento che potrebbe violare la pace sociale» e interpellati in merito alle loro opinioni politiche e pratiche religiose. Alla fine vengono rilasciati, ma viene loro comminata una sospensione di sei giorni. […]
Situata in cima al quartiere palestinese occupato di Issawiya, a Gerusalemme Est, l’Università Ebraica sul monte Scopus è sorvegliata con particolare scrupolo dall’amministrazione e dal corpo di polizia del campus. […]
Le università israeliane sono state progettate come apparati al servizio del programma di «giudaizzazione» dei territori palestinesi. I loro campus, strategicamente edificati su terre palestinesi, sono concepiti come enclave isolate, abbarbicate in cima a monti o colline che si affacciano sulle città sottostanti. A dimostrazione del loro ruolo nella militarizzazione, le università israeliane sono chiaramente delimitate e recintate. Malgrado siano istituzioni pubbliche, per accedervi è necessaria un’identificazione o un permesso, oltre a dover superare i metal detector e un controllo di sicurezza da parte di veterani armati. Gli studiosi israeliani di architettura hanno dimostrato che non è un caso: progettati a beneficio della politica territoriale dello Stato, i campus rimangono spazialmente segregati dall’ambiente circostante. L’architettura delle università israeliane costituisce una pratica di rivendicazione nazionale di matrice razziale, che demarca i campus come spazio ebraico. […]
I campus stessi delle università israeliane sono progettati a beneficio dei membri della comunità ebraica: gli edifici e le strade al loro interno sono intitolati a personalità militari e politiche israeliane, tra cui gli artefici della Nakba e dell’occupazione militare illegale di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, del 1967. Nei corridoi, traboccanti di simbologia e narrazioni sioniste, campeggiano fotografie e testi che celebrano l’espansione militare e territoriale israeliana. Una mostra permanente all’Università di Haifa, ad esempio, onora tutt’oggi uno dei suoi fondatori, Abba Hushi, che equiparò l’istruzione dei palestinesi ad «allevare serpenti».
Il complesso universitario-militare-industriale
Tutte le università israeliane lavorano a stretto contatto con il governo per sviluppare le industrie militari di Stato e le tecnologie per l’esercito. L’ente per lo sviluppo delle armi e delle infrastrutture tecnologiche (Mafat), ovvero l’unità preposta a ricerca e sviluppo all’interno del Ministero della difesa, intrattiene stretti rapporti con gli atenei. L’obiettivo dichiarato del Mafat è quello di «garantire la capacità di Israele di sviluppare armi che rendono il paese forte e gli permettano di preservare il suo vantaggio qualitativo». Il Mafat è quindi responsabile delle infrastrutture per le armi e le tecnologie, ma anche di coltivare il personale che si occupa della ricerca tecnologica, di stimolare e finanziare la ricerca nelle università e di collaborare con le istituzioni accademiche e le aziende del settore militare per lo sviluppo delle forze armate.
La stretta collaborazione tra il Mafat e le università è spesso agevolata dal fatto che condividono parte del personale. Isaac Ben-Israel, ora Maggiore generale in pensione, ha ricoperto diversi ruoli di alto livello nell’esercito, l’ultimo dei quali a capo del Mafat. Congedato dall’esercito nel 2002, Ben-Israel è diventato docente dell’Univesrità di Tel Aviv. Qui ha fondato e continua a dirigere il Yuval Ne’eman Workshpo for Science, Technology and Security, dove si conducono ricerche che hanno applicazioni concrete per gli apparati di sicurezza, tra cui la sicurezza informatica, la robotica, i missili e le armi teleguidate. Vi si tiene anche un ciclo di conferenze ospitate dall’Università di Tel Aviv a cui prendono parte anche membri dell’esercito e delle agenzie di sicurezza, nonché produttori di armi nazionali e internazionali. La conferenza annuale sulla sicurezza informatica che si tiene nel campus è organizzata assieme al governo e agli espositori fieristici di armi israeliane e ha lo scopo di mettere in mostra le innovazioni tecnologiche sviluppate dall’Università di Tel Aviv e dalle aziende militari del paese.
Il Yuval Ne’eman Workshop non è l’unico a esibire apertamente il valore della ricerca militare accademica promossa dalle università a beneficio delle industrie statali e militari. Molte delle collaborazioni del Mafat con dipartimenti e docenti sono pubblicizzate apertamente. Tra queste ci sono i corsi, le conferenze e le fiere che vedono protagonisti i centri di nanotecnologie gestiti da sei atenei in collaborazione con le agenzie governative e l’industria militare israeliana. Il Centro per le nanoscienze e le nanotecnologie dell’Università di Tel Aviv, ad esempio, collabora nel settore ricerca e sviluppo con le aziende israeliane produttrici di armi, tra cui Iai ed Elbit.
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Oltre ai campus, gli atenei dispongono spesso di “parchi tecnologici” in cui l’applicazione delle loro ricerche può essere tradotta in innovazioni per l’industria della sicurezza israeliana. All’Istituto Weizmann è legato Kiryat Weizmann, un parco scientifico hi-tech adiacente al campus che favorisce la ricerca e lo sviluppo in sinergia con aziende private. Qui, tra le altre, sono ospitate strutture dei produttori di armi Rafael, Elbit e della controllata di quest’ultima, El-Op. Il laboratorio nazionale per lo sviluppo di telecamere spaziali, inaugurato dal Ministero della difesa presso la sede di El-Op nel parco, lavora a tecnologie per il rilevamento di obiettivi fotografati in maniera illecita dai droni, un’innovazione sviluppata dall’Istituto Weizmann e dall’Università Ben-Gurion.
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Tutte e sette le principali università pubbliche in Israele hanno inoltre creato società di commercializzazione partecipate per agevolare l’esportazione. Queste aziende brevettano la proprietà intellettuale a scopo di lucro e commercializzano le innovazioni prodotte da studenti e docenti in collaborazione con aziende nazionali e internazionali. Com’è prevedibile, la maggior parte delle società di commercializzazione universitarie ha stretto partnership di lungo periodo con aziende produttrici di armi israeliane e straniere. La società di commercializzazione dell’Università Ebraica, Yssum (“applicazione” in ebraico), rivendica attualmente lo status di leader mondiale nelle tecnologie utilizzate per la «sicurezza nazionale». Il governo degli Stati Uniti investe ogni anno milioni di dollari a sostegno della ricerca “antiterrorismo” portata avanti dall’Università Ebraica e dell’acquisizione di tecnologie da parte di Yssum. Quest’ultima ha anche stretto un accordo con Lockeed-Martin che garantisce all’azienda statunitense la possibilità di ottenere licenze esclusive su ogni invenzione o prodotto derivato dalla ricerca applicata congiunta.
La società di commercializzazione dell’Università Ben-Gurion, Bgn Technologies, svolge attività di ricerca e cooperazione congiunta con Rafael, Elbit, Iai e Loockeed-Martin. La società di commercializzazione dell’Università Bar-Ilan, Birad, ha avviato una partnership di lungo periodo con Rafael e ha promosso una collaborazione di ricerca con l’incubatore tecnologico della Elbit. Gli incontri tra il team tecnologico della Elbit e i ricercatori universitari hanno lo scopo di far conoscere agli sviluppatori di armi le ricerche scientifiche «pronte per essere messe a frutto». Questa collaborazione è fondamentale per l’industria militare israeliana, come ha dichiarato lo scienziato capo della Elbit: «Questi incontri sono uno degli strumenti che la Elbit utilizza per preservare la propria leadership tecnologica, monitorare le tecnologie emergenti e d’avanguardia e fornire un feedback al mondo accademico sulle esigenze dell’industria». Le università israeliane sono snodi cruciali del complesso militare-industriale dello Stato: con il loro operato sostengono il regime di apartheid e l’occupazione dei Territori palestinesi che fungono da laboratorio.
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L’industria militare e le università israeliane si alimentano reciprocamente fin dalla loro istituzione. Gli atenei hanno dato vita, finanziato e fatto progredire la ricerca scientifica in sinergia con gli apparati di sicurezza e le aziende israeliane produttrici di armi. Le università formano soldati e personale degli apparati di sicurezza in modo che possano affinare le loro capacità per preservare il governo militare sui Territori palestinesi occupati, producendo al contempo raccomandazioni politiche per contrastare la mobilitazione palestinese e la crescente opposizione internazionale. Mettono a disposizione i loro campus, le loro risorse, i loro studenti e i loro docenti per contribuire allo sviluppo delle tecnologie e degli armamenti impiegati contro i palestinesi e poi venduti in tutto il mondo come «testati sul campo».
Una forma di complicità che non si può più ignorare
L’Intifada dell’Unità, scoppiata nel 2021, ha rivelato in tutta la sua forza la doppia repressione degli studenti palestinesi, nelle università palestinesi e in quelle israeliane. In tutti i territori che controlla, Israele prende di mira l’istruzione superiore palestinese in quanto focolaio di politicizzazione e resistenza al suo dominio coloniale. Agli occhi israeliani, i palestinesi armati di istruzione che sfidano senza timore il regime di apartheid costituiscono una minaccia. Gli studenti palestinesi sono sottomessi mediante udienze disciplinari e mediante sequestri, torture, detenzioni in strutture militari e persino uccisioni nei campus palestinesi.
Le università israeliane sono pilastri fondamentali di questo regime: non solo perché producono ricerche a beneficio delle forze di sicurezza dello Stato occupante, le addestrano e collaborano con loro, ma anche perché lavorano a stretto contatto con il governo per soffocare le mobilitazioni studentesche palestinesi nei campus.
In definitiva, da oltre settantacinque anni le università israeliane svolgono un ruolo diretto nella repressione di Stato dei movimenti studenteschi palestinesi per la liberazione e nella negazione della libertà accademica dei palestinesi. È una forma di complicità che non si può più ignorare.
(da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)