Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione

Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione
Cos’è la guerra? La si può definire senz’altro in tanti modi. Dal secondo conflitto mondiale a oggi, essa è contemporaneamente – e indissociabilmente – scontro di potenza tra gli Stati, artificializzazione dell’ecosfera e attacco generalizzato a ogni forma di autonomia individuale-comunitaria. Se è nel solco della Seconda Guerra mondiale che si appronta il mondo come laboratorio – eugenetica, campi di prigionia e di sterminio, fusione di scienza, Stato e industria, costruzione della bomba atomica, “modello IBM” e paradigma cibernetico –, l’ulteriore sviluppo delle tecnologie convergenti fornisce oggi alla macchina bellica una dimensione totale (terra, acqua, cielo, spazio ultra-atmosferico, onde elettroniche, corpi e cervelli). Contrariamente alle tante imbecillità profferite per anni sulla “fine dello Stato”, sulla fase post-imperialista e sulla “microfisica dei poteri” che avrebbe abolito il comando verticale e centralizzato, la contesa sulla definizione delle gerarchie statali (e dei monopoli che queste difendono e da cui dipendono) ritorna in tutta la sua brutalità. E “ritorna”, appunto, armata di tutto ciò che ha accumulato nella storia. La guerra è anzi proprio il momento in cui si svela che l’«accumulazione originaria» del capitale non è un evento, bensì una struttura. L’economia di guerra serve ad allargare e a difendere con le armi vecchie e nuove enclosures (terre, prodotti agricoli, fonti energetiche, “dati”, cavi sottomarini, “minerali strategici”, sequenze di DNA, reti neurali…).
La guerra s’impone innanzitutto come parodia assassina della lotta di classe. Non solo perché essa incorpora nei propri arsenali le vittorie contro i salariati e i loro tentativi di emanciparsi dallo sfruttamento, ma perché si basa sulla mistificazione totale del concetto di violenza. Si può forse dire, in tal senso, che l’attuale incapacità di dar vita a un movimento disfattista orientato a trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni, sia direttamente proporzionale a quanta mistificazione è stata interiorizzata negli ultimi decenni. Il vero dramma, infatti, non è tanto quello di uscire sconfitti da un lungo ciclo di lotte, quanto quello di lasciarsi arruolare nel sistema di valori del nemico. Senza una qualificazione etica e sociale delle tipologie di violenza (violenza degli oppressori e violenza degli oppressi, violenza coloniale e violenza anticoloniale, violenza indiscriminata e violenza rivoluzionaria, violenza statale e violenza liberatrice) si è letteralmente disarmati. La «guerra al terrore» con cui dal 2001 in poi gli USA e i loro alleati (Stato d’Israele soprattutto) hanno esteso ulteriormente la loro macchina bellica e predatrice – fusione tra Pentagono e piattaforme digitali, sviluppo dei droni, giustificazione giuridica della «caccia al nemico planetaria», ibridazione soldato-macchina ecc. – era stata condotta e vinta prima sul piano interno grazie alla riqualificazione – mediatica, giudiziaria, sociale – della sovversione armata (e a seguire di ogni conflitto reale) come «terrorismo», cioè come violenza indiscriminata contro l’insieme dei cittadini. Il genocidio a Gaza quale «diritto d’Israele all’autodifesa» e la resistenza palestinese quale «barbarie» – il 7 ottobre come «pogrom», oppure, Gad Lerner dixit, come equivalente della strage di Marzabotto – sono le espressioni più ignobili di tale mistificazione. Nella violenza alle parole e alla loro storia si riverbera sul piano dei concetti l’abisso senza fondo della corruzione morale.
Oltre che tardiva, la constatazione di un Maurizio Lazzarato – «il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri-Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire» – confonde l’effetto con la causa. È la rimozione della violenza di classe e della violenza rivoluzionaria – quando non, come nel caso di Negri, la partecipazione attiva e premiata alla mistificazione sul concetto di «terrorismo» – a spiegare l’imbroglio post-modernista più di quanto non sia il contrario. Contro le sottili mistificazioni a cui è stato sottoposto lo stesso pensiero benjaminiano, nelle Tesi sul concetto di storia è proprio la violenza rivoluzionaria che secondo Benjamin può spezzare il continuum della catastrofe storica, contrapponendo allo stato di eccezione fittizio (la dialettica tra normalità ed emergenza, tra pace e guerra, tra il Diritto e la sua sospensione) lo stato di eccezione effettivo (la fine dello Stato e del suo Diritto, della sua guerra come della sua pace). Quando una guerra tra Stati e blocchi capitalistici diventa una «resistenza popolare» (come se la lotta partigiana si fosse basata sull’arruolamento forzato, come se usare una mitragliatrice contro delle forze occupanti fosse la stessa cosa che lanciare un missile guidato da un satellite contro una cittadina a centinaia di chilometri di distanza…); quando la violenza di una popolazione imprigionata è paragonata alle stragi degli eserciti di occupazione, il terreno è dissodato per ogni manipolazione.
L’appello lanciato da Michele Serra dalle colonne di “Repubblica” – a cui si sono subito accodati PD, Cgil, Cisl, Uil… – allarga al piano internazionale una mistificazione cominciata sul fronte interno. Se l’appoggio, malamente mascherato dietro la «difesa dei valori dell’Europa», all’imperialismo e ai piani di riarmo europei è «un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che giustamente è considerato uno degli elementi costitutivi della guerra, al pari dell’artiglieria», lo stesso giornalista ci aveva già regalato in passato un «capolavoro» non meno infido. Nel 2002, sempre sulle colonne di “Repubblica”, Serra aveva scritto che gli spari delle nuove Brigate Rosse contro il giuslavorista Marco Biagi (quella brava persona a cui dobbiamo la Legge 30, con cui sono state rese ancora più precarie le condizioni di lavoro di milioni di persone) avevano fatto riecheggiare per le strade felsinee il boato della bomba esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. È difficile, benché la concorrenza al riguardo sia sempre stata piuttosto agguerrita, immaginare un livello di disonestà intellettuale e di falsificazione storica paragonabile. L’uccisione di un consapevole servitore del capitale messa sullo stesso piano di una strage fascista e di Stato che ha assassinato 85 ignari pendolari, ferendone oltre 200. Una strage, tra l’altro, che aveva il significato materiale e simbolico di suggellare nel sangue la sconfitta operaia alla FIAT avvenuta nello stesso anno. Nemmeno i giornalacci più reazionari – nemmeno “Il Borghese” – sono riusciti a raggiungere un tale Himalaya di infamia. Se un atto ben discriminato di violenza di classe – quali che siano i giudizi sulle nuove Brigate Rosse, sulle organizzazioni combattenti in genere, sull’“omicidio politico” – può venire paragonato a una strage di gente comune, allora la prosecuzione della guerra in Ucraina per non essere esclusi dalla sua spartizione può ben diventare «difesa dei valori di libertà». E gli «antagonisti» che all’epoca si recarono ai funerali di Biagi, oggi possono ben condividere le piazze con i reggicoda dei guerrafondai. A conferma di come lo strabismo interessato sulle forme di violenza sia la corruzione che contiene tutte le altre.
Resta di tragica attualità quello che la ventiquattrenne Simone Weil scriveva nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933): «Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».