I governi passano, la polizia politica resta. Sull’ennesima inchiesta per “terrorismo” in Trentino
I governi passano, la polizia politica resta.
Sull’ennesima inchiesta per “terrorismo” in Trentino
Dal 1995 ad oggi, abbiamo perso il conto delle inchieste per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (art. 270 bis) con cui la Procura di Trento ha indagato e processato qualche decina di anarchiche e di anarchici in Trentino. Nei giorni scorsi, è stata notificata la chiusura delle indagini dell’ennesima operazione poliziesco-giudiziara, denominata “Diana”. Benché simili inchieste non abbiano mai portato a condanne per “associazione sovversiva”, ma tutt’al più per qualche reato specifico, la polizia politica continua a riprodurre lo stesso schema per colpire le stesse forme di lotta. Perché? Lo scopo è quello di provare e riprovare alla ricerca di qualche giudice più compiacente, ma il motivo di un tale accanimento sta nei suoi stessi mezzi: le indagini per “terrorismo” permettono un ampio uso di pedinamenti, intercettazioni audio e video di telefoni, case, auto e spazi pubblici. Si può affermare, senza tema di smentite, che alcune persone (e i loro amici, famigliari, colleghi, solidali) siano sistematicamente sotto sorveglianza speciale da trent’anni. Il che mantiene inalterato, se non in crescita, l’apparto di uomini e mezzi, ditte specializzate e consulenti, dei reparti speciali della Polizia e dei Carabinieri nonostante il conflitto sociale si sia nel frattempo affievolito. Se queste inchieste hanno un fine in sé – perpetuare la sorveglianza e l’apparato che la esercita, nonché spezzare di continuo i progetti anarchici di lotta –, esse scommettono sul fatto che l’allargamento legislativo della nozione di “terrorismo” renda possibile prima o poi la sua applicazione in Trentino contro compagne e compagni. Da questo punto di vista, l’operazione “Diana” è una costola dell’operazione “Renata” con cui erano stati arrestati sette compagne e compagni nel 2019, alcuni dei quali tutt’ora in carcere o in detenzione domiciliare. Sia “Renata” sia “Diana” si basavano e si basano su una definizione di “terrorismo” che slitta dalla presunta “associazione” alle singole “condotte”. È proprio perché si parla di “condotte con finalità di terrorismo” – la “finalità” consisterebbe nel “costringere i pubblici poteri a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto” (art. 270 sexies) – che nell’inchiesta “Diana” si affastellano episodi molto diversi tra loro, che vanno da attacchi esplosivi o incendiari contro determinate strutture del potere, alla falsificazione di documenti, alle manifestazioni di strada, per arrivare ai semplici presìdi. Cos’hanno in comune un attentato contro il tribunale di sorveglianza di Trento, il blocco di una trivella del TAV e un presidio sotto il carcere? Il fatto che tutte queste “condotte” vorrebbero costringere le istituzioni ad astenersi dal compiere certi atti (la negazione sistematica delle cosiddette pene alternative per i detenuti, l’imposizione di una linea ad Alta Velocità, la repressione delle proteste in carcere). È evidente che con una simile logica rientrerebbe tra le “condotte con finalità di terrorismo” anche una lotta per far cessare le collaborazioni tra un’università italiana e il sistema-Israele o un picchetto davanti a una fabbrica di armi.
Ad alcuni compagni e compagne – tra i dodici indagati – si contesta di aver redatto giornali, riviste, opuscoli o di gestire il sito “ilrovescio.info”, tutte pubblicazioni accusate di aver teorizzato e promosso le azioni elencate nelle carte e di costituire di per sé “apologia di terrorismo”. Cosa non nuova – da tempo si assiste al tentativo di mettere al bando le idee anarchiche in quanto tali –, ma che potrebbe produrre effetti repressivi più concreti se venisse approvato il DDL ex-1660, il quale contiene tra l’altro il reato di “terrorismo della parola” (apice e insieme sintesi di tutte le mistificazioni storiche in materia di “terrorismo”). Notiamo di sfuggita che vari di quelli che oggi urlano al “fascismo” per il nuovo DDL sicurezza hanno contribuito a questa mistificazione, sia prendendo le distanze dalle pratiche di conflitto di piazza, sia accettando la sovrapposizione tra violenza rivoluzionaria e “terrorismo”.
Nell’aprile del 2023, la Procura di Trento aveva chiesto dodici misure cautelari (nove detenzioni in carcere e tre divieti di dimora da Trento e Rovereto), senza tuttavia ottenerle. Con qualche eccezione, gli episodi elencati sono già stati tutti oggetto di processi. Il tentativo è quindi quello di riscrivere quelle sentenze dentro un quadro associativo. Tra l’altro, questa nuova associazione sarebbe stata fondata a partire dal 2013: nel frattempo di inchieste per 270 bis ce ne sono state ben due, entrambe crollate in sede di processo. Della serie: se non riesco a far discendere i singoli episodi da un’“associazione sovversiva con finalità di terrorismo”, provo a risalire dai singoli episodi alla “associazione”. Ma mi accontento anche solo che le “finalità di terrorismo” vengano riconosciute per una delle diverse azioni. Anzi, nella spiegazione dei singoli capi di imputazione si parla di “associazione a delinquere” (quindi di un altro reato, il 416), per poi dilungarsi sul “terrorismo” in un momento a parte, chiedendo che qualora non venisse riconosciuto il 270 bis si diano delle misure cautelari per “associazione a delinquere”. Insomma: “Decide un po’ voi per cosa, signori giudici, basta che li sbattiate in galera!”. Finezze della dialettica inquisitoriale.
Nello specifico, questi sono gli episodi elencati nell’operazione “Diana”:
– attacco al tribunale di Sorveglianza di Trento del 2014, per cui Juan è stato assolto in appello
– attacco alla Scuola di Polizia di Brescia del 2015, per cui Juan è tutt’ora sotto processo
– tentato incendio di un Frecciargento all’interno della stazione di Bolzano nel 2015, per cui è indagato un compagno
– corteo contro le frontiere al Brennero del maggio 2016 (per cui decine di compagni sono già stati condannati)
– attacco alla sede della Lega di Villorba (TV) del 2018, per cui Juan è stato condannato in appello a 14 anni di carcere
– contraffazione di documenti (per cui tre compagni sono già stati condannati, qualcuno anche più volte)
– sostegno alla latitanza di Juan (per cui un compagno è già stato condannato) e poi di Stecco (con il quale due compagni sono accusati di aver “mantenuto i contatti”)
– il tentativo di leggere a Radio 80 un comunicato in solidarietà con i detenuti (per cui un compagno è già stato condannato e altre tre compagne sono tutt’ora indagate)
– un presidio sotto il carcere di Spini di Gardolo e tre manifestazioni-blocchi contro il TAV (anche a queste ultime, così come all’episodio di Radio 80, si riferisce probabilmente l’accusa di aver agito “con violenza e intimidazione nei confronti di aziende private”).
Come ricondurre una simile macedonia di episodi lontani nel tempo e nello spazio ad una presunta “associazione”? Presto detto: tutte e tutti gli indagati promuovono “idee politiche di destabilizzazione”. Sono, cioè, anarchiche e anarchici, quindi “terroristi”. Anche i sassi dovrebbero aver capito che in tempi di guerra, di genocidio e di sorveglianza tecnologica di massa è sempre più facile passare per “terroristi”. Per questo simili operazioni repressive andrebbero contrastate. Se non per solidarietà, almeno per autodifesa collettiva.
Per quanto ci riguarda, la conclusione l’abbiamo già scritta anni fa: «In fondo, siamo in “libertà provvisoria” da tutta una vita. Ma la rabbia per un mondo di gabbie e la complicità con chi si alza al mattino con l’intenzione di battersi, sono tutt’altro che provvisorie».