La pace della terra

Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La «pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza, andò perduto con il Rinascimento.

Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione.

Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»:

che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il tentativo stesso di esportarla significa guerra.

Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesi tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza. Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la “bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i data center e sottratta ai campi.

Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo» (Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit 8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana?

Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema aristotelico e marxiano, ma come un certo modolocalmente radicato, basato sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (procurarsi il cibo, riscaldarsi, crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi comunitari.

La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi dell’autonomia.

Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue» va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa amministra.