Miguel Amorós – Il luddismo al tramonto della civiltà industriale
A margine di un testo che ben fotografa la situazione attuale, e al suo interno la conclamata debolezza del discorso ecologista dominante – il tema della violenza merita una piccola nota. Se è senz’altro vero che il sistema può essere ben ostacolato tramite azioni di sabotaggio ampiamente accessibili (e questo va giustamente ricordato), il suggerimento di affidarsi solo a forme di «guerriglia incruenta» ci sa tanto di quella ragioneria rivoluzionaria che ha storicamente ristretto, e non ampliato, il senso del possibile (siamo davvero convinti che un Gaetano Bresci non avrebbe niente da aggiungere in questo presente?). Senza contare che le possibilità di intervento non sono distribuite ugualmente nel tempo e nello spazio. Mentre non sarebbe pensabile evitare il ricorso a «metodi estremi» a Gaza o in Cisgiordania, anche nel cuore dell’Occidente la progressiva crisi autodistruttiva dell’ordine capitalista e lo scivolamento verso la guerra globale potrebbero suggerire o imporre altre strade. Le uniche distinzioni che vanno ribadite, per noi, sono quelle tra giusto e legale, e tra violenza mirata e violenza indiscriminata.
Scarica l’opuscolo in formato pdf: Amoros_luddismo_pdf
Il luddismo al tramonto della civiltà industriale
di Miguel Amorós
Oggi, è banale dire che la civiltà industriale non ha futuro e che sta cercando di prolungare il suo ultimo ciclo di prosperità, già concluso, sottomettendo la popolazione allo stile di vita industriale, attraverso allarmi catastrofici e fughe in avanti permesse dalle innovazioni digitali. La crescita ad ogni costo è entrata da tempo in una contraddizione irrisolvibile con il modo di produzione capitalistico e nessuno crede che la tecnologia possa fornire soluzioni durature. Il prevedibile esaurimento delle risorse, l’esplosione demografica, la perdita di fertilità dei suoli, l’inquinamento, l’urbanizzazione sfrenata, la deforestazione, la moltiplicazione dei rifiuti, la crisi energetica e il cambiamento climatico sono elementi che testimoniano il percorso discendente intrapreso dal capitalismo nella sua attuale fase “verde”. L’high tech aumenta la velocità in questa discesa, anziché rallentarla. La corsa all’accumulazione e lo stile di vita industriale da essa imposto, non si scontrano solo con le barriere economiche e sociali, ma anche con i limiti imposti dalla natura. Il Capitale sta già agendo come una forza geologica e sta sconvolgendo le condizioni che permettono la vita sulla Terra. Se il progressivo impoverimento e la precarizzazione della popolazione salariata, nonché l’emarginazione e l’esclusione dei settori eccedenti, sono inevitabili in tale processo di accumulazione, le conseguenze dell’estrattivismo sfrenato a cui sono sottoposti i territori stanno offrendo un quadro ancora più desolante. Il metabolismo della natura nella società capitalista sta minacciando direttamente la sopravvivenza della specie umana. È per questo che le classi dominanti hanno cambiato l’ideologia del progresso in quella dello sviluppo “sostenibile” e, ultimamente, nel concetto di “antropocene” e nell’ideologia del collasso. Senza abbandonare la fede elitaria nella tecno-scienza, il discorso del dominio è diventato pubblicamente ecologista anche se nei fatti la principale fonte di accumulazione della suddetta fase verde è il sovrasfruttamento del territorio.
In un futuro di difficoltà e catastrofi, il capitalismo sarà ecologista o non ci sarà. Dal punto di vista dei dirigenti, l’ecologia è quella scienza che studia il camuffamento dello sfruttamento della natura a fini economici, qualcosa di simile all’ambientalismo. Da qui nascono i dipartimenti ambientali delle grandi aziende e le “politiche territoriali” da attuare da parte dello Stato e delle amministrazioni regionali. Queste, sono orientate alla gestione delle conseguenze dell’estrattivismo e di quella che chiamano “transizione energetica”, cioè, principalmente, la realizzazione massiccia di megaprogetti di rinnovabili industriali volti a garantire l’elevato consumo energetico caratteristico di questa civiltà. Scienziati specializzati e consulenti degli ecosistemi svolgono un ruolo centrale in queste politiche. Il loro ruolo è quello di creare le condizioni ottimali per il business estrattivista e di nascondere l’evidente squilibrio tra società e natura che esso crea. Il sistema ha bisogno di meccanismi che regolino i suoi eccessi senza danneggiare i beneficiari dei piani di sviluppo. Questo è anche il ruolo di un certo “movimento ecologista” che cerca di agire come gruppo di pressione, una sorta di sindacato dei consumatori di aria pulita, acqua pulita, cibo sano e spazi verdi. È un vantaggio per un capitalismo che, senza questa mediazione, potrebbe trovarsi ad affrontare la radicalizzazione delle proteste dei “cittadini”. Il compito dell’ecologismo integrato è quello di creare valvole di sicurezza, processi ed enti partecipativi di negoziato o semplicemente di consulenza, possibilmente retribuiti.
La posizione del suddetto “movimento ecologista” oscilla tra l’identitarismo postmoderno e il cittadinismo di sinistra, senza trascurare le concezioni mistiche (culti naturalisti di ogni tipo), primitiviste (ritorno al Paleolitico, opposizione alla civiltà, culto del selvaggio) e anti-umaniste (animalismo, ecologia “profonda”). Nelle lotte contro gli effetti nocivi di una civiltà industriale che affonda nell’immondizia che produce, questo movimento non mira ad una presa di coscienza radicale, attraverso l’ecologia, delle vittime ribelli, ma piuttosto cerca un dialogo con le proprie istituzioni in cambio della disattivazione del conflitto territoriale. Cerca di convincere i dirigenti a gestire in modo meno aggressivo l’ambiente, non cerca di combatterli. Dà per scontata la rassegnazione degli individui di fronte a quei problemi che li superano e, lungi dal cercare di invertire la situazione, la rafforza ricorrendo a una paura infantilizzante che porta ad affidarsi a un’autorità esterna presumibilmente risolutiva. L’ideologia del collasso è questo. Così come il riformismo della decrescita. Ma la crisi ecologica – cioè lo sfasamento tra ciò che la spiritualità chiama “Uomo” e “Natura” – è anche economica e sociale. Dipende dal modo industriale di produrre, coltivare, commerciare e consumare, dallo stile di vita che impone. Non si può risolvere con leggi restrittive, sovrattasse turistiche, catture di CO2, incentivi all’elettrificazione o misure punitive da parte di un ministero dell’ambiente. Il grande nemico è il capitale e lo Stato, il suo implacabile sviluppo, la sua fame di potere e profitti. Il nemico non è lo slancio predatorio di qualche imprenditore, la mancanza di senso civico o di controllo della natalità nei Paesi terzi, la delocalizzazione della produzione o la destra politica. Interpretare la crisi come il risultato della fatalità, di una cattiva pianificazione, dell’abuso, dell’eccesso di commerciabilità o dell’incoscienza di alcuni affaristi, costringe a cercare la soluzione tra gli stessi responsabili: il mercato capitalista e le sue varie protezioni governative. Il problema è un problema di classe. La crisi non colpirà mai tutti nella stessa proporzione: per quanto il prezzo dell’energia, dell’acqua, del cibo, ecc. aumenti, ci sarà sempre chi potrà permetterselo.
Dopo queste riflessioni sarà chiaro che non siamo degli ecologisti. Siamo individui consapevoli della crisi ecologico-sociale e pensiamo che il suo superamento non passi per ministeri della transizione ecologica o per nuovi patti verdi, ma per l’abolizione del sistema gerarchico-tecno-produttivista. Per l’abolizione del mercato. Per un altro modello di produzione e di alimentazione. Pensiamo che solo così si potrà sviluppare una nuova sensibilità e razionalità che impedisca il ritorno dell’ordine industriale. Nella resistenza all’industrializzazione diamo priorità alla ricostruzione della comunità. Non cerchiamo di sovrapporre meccanicamente alla lotta di classe la teoria ecologica, né, tanto meno, di associare la questione ambientale alla questione sociale a favore di un riformismo politico “eco-socialista” o decrescentista, o di un qualsiasi partito verde ripieno di “realismo politico”. Siamo anti-sviluppisti radicali più che ecologisti. Anticapitalisti. Apprezziamo i contributi della critica ecologista come quelli sulla necessità di decentralizzare, di ricollegarsi alla natura, di limitare l’urbanizzazione, di proibire le sostanze inquinanti, di difendere la terra, di avere una sovranità alimentare, tecniche conviviali, riciclaggio, ecc. ma non cerchiamo di inserire questi contributi nella politica convenzionale. Poiché, per tradurli in misure efficaci, sarebbe necessario un abbandono dell’ordine borghese e un cambiamento qualitativo sociale ed economico che potrebbe essere considerato rivoluzionario, cosa che non rientra nell’immaginario ecologista. Apprezziamo di più la visione biocentrica delle comunità indigene americane, i metodi tradizionali di coltivazione e gestione del territorio dei quasi estinti contadini, le idee di restituzione, restauro e giustizia sociale della rivolta luddista, l’istinto sabotatore e creativo del vecchio sindacalismo e, in breve, la volontà di autogoverno e autoemancipazione di popoli sottomessi come i Mapuche, i Berberi e i Curdi. Nel momento in cui l’idea di progresso viene screditata dal fatto stesso che il futuro sta diventando più temuto che desiderato, le società tradizionali si dimostrano per molti aspetti più avanzate dell’arcaica civiltà industriale contemporanea. Siamo una sorta di nuovi luddisti che si ribellano al futuro che l’economia globale e il mito della macchina ci riservano, con la particolarità di non avere più uno stile di vita da mantenere, una cultura da preservare, regole morali con cui governarci, un potere decisionale da difendere. La merce, e quindi il denaro, grazie alla tecnologia digitale, ha invaso in pochissimo tempo il mondo al punto da cambiare radicalmente il modo di vivere e di relazionarsi. Ha ridefinito il lavoro e l’ozio, riformulato i comportamenti e le norme, danneggiato seriamente l’ambiente e, infine, modificato ciò che intendiamo per realtà. Ha senso parlare di catastrofe. Le macchine digitali sono lo strumento di un ordine economico che viene da prima, ma rinnovato, contro il quale nessuna tradizione ci protegge. Le macchine digitali le hanno polverizzate tutte. Quindi non ci ribelliamo alle macchine che distruggono la comunità di lavoro e i suoi costumi, per il semplice motivo che oggi non esistono comunità e costumi di alcun tipo; ci ribelliamo invece alla società industriale informatizzata per poter costruire una comunità che si rafforzi grazie a nuovi costumi solidali. Vogliamo liberarci sia dalle vecchie schiavitù del lavoro sia di quelle nuove imposte dall’economia a causa della digitalizzazione. Vogliamo sottrarci alle relazioni basate sulla preponderanza del Capitale e dello Stato tecnologicamente assistiti, che schiavizzano le menti, degradano l’esistenza e distruggono il pianeta. Per questo neghiamo con determinazione la legittimità del beneficio privato al di sopra di tutto, della gerarchia burocratizzante e della centralizzazione politica, della ricerca del rendimento come valore supremo o del principio dell’innovazione tecnico-scientifica a prescindere dalle sue conseguenze. La crescita dell’economia non deve essere una priorità. Anzi, tutto il contrario. Vogliamo recuperare l’autonomia nella vita e nella intimità; desideriamo abbandonare non solo lo status di salariati, ma anche la condizione di consumatori schiavi dello spazio virtuale. Lottiamo contro questo salto qualitativo dell’industrializzazione e del controllo sociale che strumentalizza l’ecologia e usa i media digitali per perpetuare politiche sviluppiste conducendo la specie umana verso il baratro. Ci sentiamo oppressi dall’industrializzazione e cerchiamo modi per liberarcene. La prospettiva luddista mira al sabotaggio.
Pensiamo ci sia da dichiarare uno stato di allarme più sociale che ecologico. Costruire comunità e bloccare il normale funzionamento del sistema pensiamo siano i due aspetti tra i quali deve districarsi la dialettica della resistenza. Non è necessario pronunciarci a favore della violenza, poiché la complessità stessa del sistema ne facilita l’ostruzione senza bisogno di ricorrere a metodi estremi. È l’occasione per una forma di guerriglia incruenta. L’informatica – internet – è stata la punta di diamante dell’ultima rivoluzione industriale. In meno di dieci anni ha sconvolto i saperi, l’insegnamento, le gerarchie, la finanza, i mercati, le culture, i posti di lavoro e la produzione, compresa quella dei rifiuti. Siamo così passati da un’economia produttivista ancorata all’industria nazionale a un’economia terziaria globalizzata dominata dal capitale finanziario, che cerca di superare le sue maggiori difficoltà facendo appello alla riconversione “verde” e digitale della società. Il risultato, come abbiamo già detto, è stato un’espansione incontenibile delle metropoli e delle infrastrutture, una crescita senza precedenti degli apparati coercitivi e del controllo sociale, il superamento dei limiti biofisici, la disuguaglianza diffusa, la fame in intere regioni e un’atomizzazione senza precedenti della popolazione che, priva di legami collettivi di qualsiasi tipo, è completamente in balìa di fattori economici, mediatici e amministrativi. Una popolazione i cui bisogni e desideri sono costantemente manipolati per alimentare il mercato e favorire la sottomissione agli imperativi del potere. Il nostro obiettivo finale è invertire la situazione, il che richiede lo smantellamento radicale del dominio capitalista. Si tratta di costruire un mondo sulle rovine di quello vecchio, basato sui valori comunitari e sulle pratiche di un tempo, come l’equità, la reciprocità, l’autonomia, l’onestà, il gioco, la festa, il rispetto della natura, il dibattito pubblico e la presa di decisioni collettive. Qualità ed esperienze arricchite da nuovi contributi e adattate alle condizioni attuali, cioè aggiornate. Non dobbiamo tornare al passato, ma andare verso un futuro diverso. Quello della civiltà industriale è impraticabile.
Miguel Amorós
Titolo originale: El ludismo en las postrimerías de la civilización industrial, pubbilcato su Diario16+ il 12 aprile 2024.