Dalla parte degli Untermenschen
Diffondiamo due articoli dal numero unico “La tempesta – L’imprevisto palestinese nella guerra globale”:
Qui i due articoli in versione impaginata pdf:
Untermenschen di tutto il mondo, uniamoci!
Per capire quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza (e in Cisgiordania), e per dare alla solidarietà con gli oppressi palestinesi una prospettiva di liberazione, è necessario andare al di là della cronaca – sia pure una cronaca dell’orrore – e cogliere gli elementi storico-sociali fondamentali. Senza comprendere a fondo che cos’è il colonialismo d’insediamento, quale che sia di volta in volta l’ideologia con cui si maschera, si rischia di applicare al contesto palestinese schemi interpretativi inadeguati o addirittura fuorvianti.
Uno storico ha scritto che «l’invasione coloniale di una terra per crearvi degli insediamenti è una struttura, non un evento». Una struttura che continua a operare sia contro la popolazione nativa sia dentro la società coloniale, dal momento che il progetto costante di eliminare la prima («l’eliminazione è un principio organizzativo») produce la mobilitazione totale della seconda.
I palestinesi non sono proletari che il capitalismo israeliano vuole sfruttare, ma indigeni che il colonialismo sionista vuole eliminare. Il furto non è del tempo di lavoro, ma dello spazio. Più il sistema coloniale riesce fare a meno della forza di lavoro indigena – e questa tendenza dell’apparato israeliano si è intensificata particolarmente dagli anni Novanta –, più le masse colonizzate diventano eccedenti. «Man mano che i palestinesi diventano sempre più inutili, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania somigliano sempre meno a Bantustan e sempre più a riserve o al ghetto di Varsavia». Diventa allora maturo il tempo per due soluzioni – la prima intrinseca alla logica coloniale, la seconda sempre possibile in caso di resistenza: la deportazione in un altro territorio, o l’uccisione di massa.
Ci sono però due aspetti per i quali i palestinesi servono allo Stato e alla tecno-industria israeliani. Tutto quello che il sistema-Israele esporta – e che gli garantisce, insieme al sostegno degli Stati Uniti, la propria struttura economica – lo sperimenta sui corpi e sulle vite dei palestinesi. La macchina tecno-militare israeliana è all’avanguardia a livello mondiale perché testa le sue tecnologie e le sue armi in modo permanente e a qualche chilometro dai propri laboratori, dalle proprie sedi, dalle proprie università. L’indistinzione tra il civile e il militare, tra il colono e il soldato, tra il professore e l’ufficiale, la mobilità delle proprie frontiere – cui corrisponde quella delle proprie basi giuridiche –, nonché la psicologia dell’assedio, fanno sì che ogni innovazione – tecnologica, architettonica, dottrinale – sia costitutivamente duale. È proprio perché la fusione civile-militare è una tendenza ormai generalizzata, che i prodotti high tech israeliani sono stati venduti nel 2021 a 130 Paesi, e che oltre il 40% dei finanziamenti mondiali nel settore informatico sono stati assorbiti nello stesso anno dalla tecnocrazia israeliana. Il sistema-Israele, tuttavia, non esporta solo armi, tecnologie e tecniche di amministrazione poliziesca, militare, urbanistica, ma anche un modello per affrontare uno dei problemi del nostro tempo: cosa fare delle masse che il capitalismo non vuole o non può più integrare. Nell’aggravarsi dell’intreccio incrementale tra guerra, disastro ecologico e sostituzione algoritmica degli umani, in cui lo sfruttato di oggi può diventare lo sfollato o il “rifugiato climatico” di domani, e il tecnocrate un nuovo colono che si trasferisce con armi e bagagli in un altro “ecosistema produttivo”, la struttura del colonialismo d’insediamento non è un residuo del passato, bensì un programma di lavoro. D’altronde, la detenzione amministrativa – invenzione del colonialismo storico e rilanciata proprio dallo Stato d’Israele – è già da tempo operativa in quasi tutto il mondo contro gli emigranti senza documenti.
L’altro aspetto per cui i palestinesi sono materia prima da sfruttare è in qualche modo collaterale al primo. La costruzione di ghetti tecnologicamente sorvegliati (e di fortezze coloniali panottiche), la frantumazione territoriale, la violenza della repressione hanno reso impossibile qualsiasi autonomia economica nei territori palestinesi, la cui sopravvivenza è legata in larga parte ai “donatori” internazionali. Su quei finanziamenti e rifornimenti lo Stato d’Israele impone sia il proprio controllo sia i propri “prelievi fiscali”, di cui poi ridistribuisce una piccola fetta all’Autorità Nazionale Palestinese, attorno alla quale si è così raccolta un’élite privilegiata (e collaborazionista). Tecniche di tortura e di umiliazione, sfruttamento delle divisioni claniche e sociali, finti accordi con il palestinese moderato e finti disaccordi con il colono particolarmente brutale, dosaggio di «spazio del respiro» (espressione con cui si indica il calcolo delle calorie necessarie per assicurare la mera sopravvivenza alla gente di Gaza) e spazio del terrore – tutto questo è un know-how assai appetibile in un’epoca in cui tende a farsi labile il confine tra l’amministrazione “umanitaria” della vita e la produzione industriale della morte. Basta «un’unica mossa sul quadrante dei comandi», infatti, per azionare la «turbina alimentata col sangue». Che nell’unica democrazia del Medio Oriente si chiamino apertamente animali o subumani (untermenschen, non vi ricorda nulla?) alcuni milioni di persone appartenenti a una «popolazione ostile» non rivela solo la natura genocidaria del colonialismo d’insediamento, nonché la perfetta compatibilità tra forma democratica e pratiche di sterminio, ma anche la portata della liberazione palestinese. Lo smantellamento del sistema coloniale israeliano – cioè del presidio imperialista nel Medio Oriente – non può che avere un effetto dirompente per gli sfruttati e gli oppressi del mondo intero. Nelle piazze migliaia di immigrati non urlano solo «Israele terrorista», ma anche «Gaza vincerà», a testimonianza di come l’angoscia e la rabbia per il massacro in atto si mescolino con l’entusiasmo e con un profondo bisogno di riscatto.
La liberazione antisionista non può che avvenire contro l’Autorità Nazionale Palestinese e contro il sistema di privilegi su cui questa si basa. E segna la rivincita della variabile umana (e di classe) contro il Muro elettronico, i suoi check-point automatizzati, i suoi sensori, i suoi droni – cioè quella società dei varchi in costruzione anche alle nostre latitudini, pronta a lasciar fuori tutti coloro che non ci stanno.
Verso dove può portare la situazione attuale? Non lo sappiamo. Ciò che sappiamo è che se l’esito è sempre la risultante delle forze in campo, dobbiamo metterci del nostro. Innanzitutto dissociandoci praticamente dal “nostro” Stato e dal “nostro” capitalismo, complici attivi nel genocidio in corso a Gaza. L’odio per quello che sta compiendo l’Occidente è incancellabile e senza ritorno.
Dalla parte degli oppressi palestinesi
Se l’attuale guerra in Palestina va letta innanzitutto a partire dalla volontà dei gazawi di ribellarsi a condizioni di vita sempre più disumane e insopportabili, è altrettanto chiaro che ogni iniziativa politica e militare si colloca in un contesto, e che qualsiasi resistenza organizzata valuta sia quando agire sia cosa pensa di ottenere (almeno a livello di obiettivi immediati). Ci pare abbastanza plausibile che, con l’azione del 7 ottobre, l’obiettivo politico di almeno alcune organizzazioni della resistenza palestinese sia stato quello di inserirsi come un cuneo nel processo di normalizzazione del cosiddetto Medio Oriente (e di ulteriore isolamento dell’Iran) avviato dai Patti di Abramo, che avrebbe definitivamente eclissato la questione palestinese dall’orizzonte degli Stati arabo-islamici; mentre non ci pare casuale la scelta del periodo in cui è stata effettuata l’azione, coincidente con il momento di massimo affanno delle truppe di Kiev in Ucraina (e quindi dell’imperialismo occidentale che le arma). Ciò detto, le differenze tra il conflitto in Ucraina e il massacro in corso a Gaza ci sembrano assolutamente rilevanti. Mentre in Ucraina le fazioni reali e i loro armamenti rendono lo scontro simmetrico tanto dal lato politico che da quello militare, il conflitto in Palestina è di un’asimmetria semplicemente feroce. Da un lato un popolo-classe senza Stato (tanto da non possedere neppure i passaporti), che non ha altro da perdere se non la propria vita imprigionata; dall’altro lo Stato-avamposto dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Da un lato una resistenza che al massimo può armarsi di razzi artigianali; dall’altro uno degli eserciti più high tech del mondo, nonché un hub mondiale per sperimentazioni belliche (e sociali) di ogni tipo, che esporta ovunque sistemi d’arma e tecnologie sperimentate sul corpore vili dei palestinesi. Da un lato chi massacra a migliaia uomini, donne, vecchi e bambini; dall’altra chi non può dare molto di più che il proprio stesso sangue per tenere viva l’attenzione internazionale sulla propria causa.
Se dal piano dello scontro sul terreno ci spostiamo a quello geopolitico, l’asimmetria è altrettanto evidente. L’idea di una possibile “regia internazionale” (nell’ambito di quella sorta di alleanza informale nota come Asse della resistenza, che riunisce Iran, Hezbollah, i cosiddetti Huthi dello Yemen, le milizie sciite irachene e gli Stati semi-falliti di Libano e Siria, oltre alla stessa Hamas) non ha trovato, in questi mesi, che delle smentite. Prima, lo scorso 3 novembre, è arrivato il discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che nella sua apologia dell’eroismo di Gaza ha assicurato che l’azione del 7 ottobre «è stata ideata e attuata al 100 per cento dai palestinesi» (chi conosce la situazione dell’Asia Occidentale sa che sia i palestinesi che gli israeliani si fidano delle dichiarazioni di Nasrallah, storicamente noto per non parlare a vuoto); e poi, soprattutto, è arrivato il vertice di Riyad dello scorso 11 novembre, presenti tutti i Paesi della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Dai “moderati” sauditi agli “estremisti” iraniani, da Bin Salman a Raisi, tutti hanno espresso parole di condanna verso Israele, assicurando al contempo che nessuno avrebbe mosso un dito. Né intervenendo direttamente, né attuando sanzioni economiche, e neppure chiudendo il proprio spazio aereo ai caccia e ai droni di Israele e dei suoi complici internazionali. Il perché è presto detto. Con il suo canale di Suez, i suoi stretti (come Bāb el-Mandeb e Hormuz), i gasdotti e gli oleodotti che la attraversano, l’Asia Occidentale contemporanea è un vero e proprio crocevia di interessi politici ed economici che finiscono per legare Paesi come la Russia o la Turchia, la Cina o le petro-monarchie del Golfo sia all’uno che all’altro carro (a Israele e ai suoi padrini occidentali come all’Iran). Se storicamente i palestinesi sono stati sempre traditi dagli Stati arabi e islamici (gira e rigira, fare affari con l’Occidente è più conveniente che combatterlo), oggi anche chi vorrebbe cancellare lo Stato sionista dalla faccia della terra patisce non poco l’opera di destabilizzazione attuata dagli USA (e dallo stesso Israele) negli ultimi vent’anni. Tra Stati falliti (Libano, Iraq), parzialmente occupati da truppe altrui (Siria), strangolati dal debito (Egitto) o non sufficientemente attrezzati a un conflitto con l’Occidente (Iran), tutti temono che una guerra segnerebbe la loro fine. Pure un’organizzazione come Hezbollah è costretta a procedere con i piedi di piombo, e si limita a tenere impegnata parte dell’IDF con dei lanci sul confine libanese. In caso di una nuova guerra in Libano, infatti, Hezbollah rischierebbe di pagare un prezzo politico salatissimo, forse la propria stessa fine come organizzazione.
La resistenza palestinese, insomma, sembra non avere santi nel paradiso degli Stati. Sono semmai i popoli dei Paesi arabo-islamici, sdegnati dall’inerzia dei propri dirigenti, a cercare di spingerli verso l’intervento; mentre non è un caso che l’unico governo che ha agito concretamente in solidarietà ai palestinesi sia quello yemenita, scaturito da un’insurrezione contro il precedente regime filo-occidentale e dalla guerra per procura che ne è seguita (prima con l’ISIS, e poi con la monarchia saudita e i suoi alleati in veste di proxy degli USA). A cercare l’allargamento del conflitto – a partire dagli attentati e le «esecuzioni extragiudiziali» in Iran, Siria e Libano –, viceversa, sembrano proprio Israele e le potenze occidentali (in testa USA e Gran Bretagna, con Francia, Germania e Italia al seguito). Il primo per smarcarsi dal pantano di Gaza e prendersi la Striscia, cosa impossibile a farsi senza sradicare la resistenza palestinese, e quindi senza fare piazza pulita di tutti i suoi sostenitori internazionali (Iran in testa). I secondi per riaffermare la propria supremazia sulla regione, cogliendo l’occasione per impedirne la penetrazione da parte dello Stato cinese (che nel quadro delle “vie della seta” ha strettissimi rapporti con l’Iran, e verso il quale il governo iraniano esporta circa il 90 per cento del proprio petrolio nazionale). Non sappiamo dove potrà sfociare questa situazione, ma la possibilità di una guerra guerreggiata a livello mondiale ci pare sempre più dietro l’angolo. Se l’attacco allo Yemen facesse scendere in campo l’Iran, questo potrebbe comportare l’intervento di Cina e Russia, con l’effetto-domino tipico dei passati conflitti planetari. D’altronde, «guerra mondiale non si nasce, si diventa»…
Mentre gli scenari che potrebbero aprirsi fanno semplicemente tremare i polsi, una posizione “disarmista”, per la diserzione e il “cessate il fuoco” da entrambe le parti, ci pare – in questo caso – del tutto insostenibile. Non solo perché non c’è nessuna simmetria tra lo Stato di Israele – uno degli Stati più oppressivi, equipaggiati e feroci del mondo – e i palestinesi – uno dei popoli più poveri e oppressi del pianeta; non solo perché Israele è da sempre l’avamposto dell’imperialismo occidentale nel cosiddetto Medio Oriente, mentre attorno ai palestinesi non c’è alcun blocco capitalistico definito (quest’ultimo, semmai, potrebbe formarsi nel corso della guerra stessa); e non solo perché sarebbe eticamente inaccettabile chiedere di non ribellarsi a una popolazione colonizzata, braccata e assassinata da più di un secolo (mentre domandare ai gazawi di “disertare”… il loro carcere a cielo aperto, sarebbe semplicemente assurdo). C’è dell’altro. Ammesso e non concesso che lo Stato d’Israele (al momento diretto da una vera e propria banda del Ku Klux Klan) sia disposto a fermarsi, rinunciando alla soluzione finale della questione di Gaza, un “cessate il fuoco” alle condizioni di Israele – ovvero senza la liberazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – sarebbe soltanto una resa. Se, così facendo, i palestinesi perderebbero un’occasione storica, il sistema-Israele non farebbe altro che attendere un nuovo pretesto per completare il lavoro che ha sempre portato avanti in tutta la sua storia. Ci ricordiamo – senza andare troppo indietro nel tempo – di Jenin, delle operazioni «Piombo fuso» e «Margine protettivo»? E che dire della «Marcia del Ritorno» del 2018-2019, quando 234 palestinesi sono stati uccisi (e circa 33.000 gravemente feriti) mentre sfilavano pressoché disarmati nei pressi del Muro elettronico?
Se il colonialismo d’insediamento «non è un evento», ma una «struttura» che opera finché non raggiunge il proprio fine, la questione palestinese può avere solo due soluzioni: o l’eliminazione dei nativi, o la fine della «struttura» stessa, cioè dello Stato colonialista israeliano e di tutta l’architettura del sistema coloniale. Mentre sarebbe sconcio abbandonare i palestinesi al loro destino in nome della «pace» (quale? di chi?), dubitiamo fortemente che ce ne siano le condizioni. In un contesto come questo, il sostegno a un campo in guerra (gli oppressi palestinesi) attraverso l’attacco contro l’altro (lo Stato d’Israele e i suoi padrini, che sono anche i nostri diretti oppressori) ci pare non un contributo, ma un antidoto all’allargamento del conflitto (voluto e cercato in ogni maniera, è bene ribadirlo, dai “nostri”). Se non faremo la nostra parte, con l’azione internazionalista dal basso, l’iniziativa non potrà che passare agli Stati.
Siamo convinti che la mobilitazione internazionalista potrebbe fare la differenza. Il punto è chiederci come. Nonostante l’economia israeliana stia subendo durissimi colpi da più parti (dall’interno: da mesi il personale delle start up è mobilitato nell’esercito, mentre i lavoratori palestinesi non possono più recarsi a lavorare in Israele; dall’esterno: il blocco del Mar Rosso, peraltro al momento soltanto aggravato dall’intervento occidentale; la campagna internazionale di boicottaggio e sabotaggio delle attività legate a Israele, notevole per intensità e risultati già ottenuti), l’arma economica potrebbe non bastare. Impegnato in uno scontro ormai esistenziale, e per di più attualmente in mano a una cricca governativa intrisa di militarismo teocratico, lo Stato sionista non potrà che andare fino in fondo. Se l’attacco in varie forme alle imprese è comunque utile (e, nel caso del comparto tecnologico, è anche un’occasione imperdibile di agitazione sul legame tra ricerca, guerra e incarcerazione tecnologica della società), non va neppure sopravvalutato. L’aspetto centrale è probabilmente un altro.
Da sempre avamposto dell’imperialismo occidentale, Israele ne viene foraggiato (in termini sia militari che economici) esattamente per questo motivo e a questo scopo; e senza il foraggiamento collettivo dell’Occidente, Israele non durerebbe a lungo. Se questo è vero come è vero, allora solo una profonda crisi sociale – ovvero, una rivolta generalizzata – all’interno dei diversi Paesi occidentali potrebbe portare Israele a retrocedere. È in questa direzione che dobbiamo spingere; quella direzione, si badi bene, che la classe dirigente di casa nostra teme fin dall’indomani del 7 ottobre. Per quale motivo lo Stato tedesco e quello francese hanno represso fin dall’inizio, con la massima durezza, tutte le manifestazioni in solidarietà alla Palestina? E per quale motivo, viceversa (e nonostante le iniziali minacce in tal senso), in Italia le manifestazioni sono state consentite?
Il timore è stato, fin dall’inizio, quello di una sollevazione delle masse arabe e islamiche all’interno dei Paesi occidentali, e di una loro possibile saldatura con il malcontento dei “bianchi”. Laddove le piazze hanno mostrato più volte, in anni recenti, una certa vivacità (con momenti semi-insurrezionali nel caso francese), l’autorità ha proceduto con il pugno di ferro; in Italia invece, dopo un primo momento, ha valutato che era meglio lasciar fare. In fondo, finché questi italiani si limitano a sfilare… meglio far piano. Altrimenti – per dirla con una battuta che circola all’estero – potrebbero svegliarsi anche loro. Mentre in Palestina, da quattro mesi e mezzo, l’orrore puro va in scena in mondovisione, un mondo degli orrori viene apparecchiato a tutte le latitudini, comprese le nostre. Solo una rivolta generalizzata potrà fermarlo. In questo senso, la salvezza degli oppressi palestinesi fa tutt’uno con la nostra. E ci fornisce una leva per realizzarla.